Cinquant’anni di sguardi: La fotografia scopre il Sacro Monte (1998)

in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria,  1998, pp.  137-145

 

 

 

“Crea è veramente un luogo amenissimo (…) Ma per ben intendere a cosa realmente serva il Santuario di Crea per i quattro quinti almeno di coloro, che là si arrampicano, è bene visitarlo in un giorno di domenica dei mesi d’agosto, di settembre o di ottobre.

Che mondo!…. Che baccano allora udiremmo su quel piazzale del convento!….

Qui un confettiere vorrebbe raddolcire la bocca (non parliamo della lingua) a tutta la gente: là un rumoroso venditore di rocche pretende che tutti (…) comprino lo strumento indispensabile per preparare il corredo delle spose. Più in qua un acquacedrataio ci introna le orecchie gridando: «acqua giassà:» a noi vicino poi una fruttivendola vuole riempirci, se pur lo potesse, le tasche di «castagne belle e calde, » mentre ci regala il fumo della sua caldarrostiera. De-Maria stando sulla porta del suo albergo saluta i nuovi arrivati: un gruppo di signore si muove verso il tempio accompagnate dai loro cavalieri serventi (…) famiglie d’operai vanno cercando un luogo per poter comodamente vuotare le canestre dei cibi (…) Vispe ed allegre fanciulle prendono i molti sentieri che su e giù s’intersecano pel bosco (…) E la volta del cielo copre tutta la varia scena: il bosco nasconde anche i peccati di desiderio (…).” (Niccolini 1877, pp.519-520)  Il tono di questa descrizione ha tutta la vivacità di un’istantanea: la raffigurazione di una coralità, di un insieme è risolta per scene fissate nel momento del loro compiersi, lontane dalla fissità della posa, in modi che la fotografia solo in quegli anni iniziava faticosamente a mostrare;  è proprio questa però -e quindi il fotografo- a risaltare per la sua assenza dalla scena sonora e viva che si svolge sulla piazza del Santuario e nei boschi intorno, che nel 1877 poco ancora sembrano aver conservato o riconquistato di sacro.  Nessun fotografo, da Asti, da Casale, da Vercelli a mescolarsi alla folla domenicale per eseguire ritratti a consegna immediata, le povere lastre zincate, nerastre,  rivestite al collodio dei ferrotipi,  utilizzati dagli ambulanti in giro per villaggi e fiere, per santuari.

Quando il primo fotografo – almeno per ciò che ne sappiamo sinora – sale a Crea è trascorso poco più che un anno dalla pubblicazione di questo testo, ma la sua attenzione non si sofferma certo sugli stessi soggetti: le tre riprese che Vittorio Ecclesia realizza nel 1878-1880 e presenta poi all’Esposizione torinese del 1884 riguardano la facciata e l’interno del santuario ed una Veduta generale del Sacro Monte di Crea  ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi, per la sua capacità di porre in risonanza il segno architettonico del profilo del frontone della chiesa con quello del colle disseminato di cappelle, rinunciando alle facili suggestioni di una troppo rigida simmetria centrale per produrre, per la prima e forse unica volta, una precisa ed efficace sintesi visiva del sito, ribaltando il punto di vista – e quindi il significato- dello schizzo realizzato da Clemente Rovere il 13 settembre 1849 (Sertorio Lombardi 1978, n.2663). La presenza di Crea nella raccolta di immagini di Ecclesia[1] suggerisce però ulteriori considerazioni: poiché  la prevalenza dei soggetti rappresentati è costituita da chiese ed edifici romanici, da monumenti di riconosciuto interesse e valore architettonico quali le cattedrali di Asti e Casale, alla presenza delle immagini del santuario di Crea deve essere riconosciuto un significato diverso, legato al più complesso insieme di valori devozionali e tradizionali che ruotano intorno al monte di Crea nel secondo Ottocento.

Che non fosse il valore architettonico dell’edificio a giustificarne l’inserimento nella raccolta fotografica di Ecclesia è dimostrato indirettamente anche dalle scelte di un autore come Secondo Pia che solo nel 1902 si preoccuperà di inserire le due immagini della facciata e dell’interno della chiesa nel proprio repertorio ormai ventennale di architetture e opere d’arte piemontesi[2].  Quando sale per la prima volta al colle, il 15 settembre del 1885, la sua attenzione è rivolta al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo quel punto di vista canonico che, con leggere varianti sud / sud-est,  a partire dai primi disegni settecenteschi si ritroverà poi negli schizzi di Rovere del 1849, e nelle immagini di Negri, a volte realizzate col teleobiettivo (1890ca), mentre variazioni significative, in connessione con la coeva produzione fotografica di derivazione pittorialista, sono presenti nelle più tarde riprese effettuate da Padre Giovanni Valle o da Guido Cometto (1925-1930), destinate in parte alla edizione di cartoline e alla pubblicazione di  innumerevoli opuscoli e guide[3].

Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, dalla tavola di Macrino d’Alba, fotografata una prima volta nel 1888 in esterni, forse su di un ponteggio e quindi riprodotta in autocromia nel 1909-1910,  agli affreschi da poco scoperti della cappella di Santa Margherita[4], in cui l’attenzione prevalente per l’insieme si apre al particolare per le due figure di Guglielmo VIII e Bernarda di Brosse rivelando un intrecciarsi di intenzioni documentarie e storico celebrative, per passare negli anni successivi ad altre opere presenti nella chiesa, con una attenzione singolarmente aperta alla considerazione di manufatti allora certamente considerati minori quali il Confessionale con colonne tortili, non più fotografato da altri nei decenni successivi, secondo  una accezione progettuale che non tende tanto alla esaustività del catalogo quanto alla messa in atto di un giudizio critico -seppur implicito- sul valore dell’antico di queste  opere. Sintomatica in questo senso la scelta relativa alla statuaria delle cappelle, che inizia a fotografare solo nel 1902, anno della pubblicazione del saggio di Francesco Negri dedicato al Santuario che verosimilmente gli fa da guida, per ritornarvi molti anni dopo, nel 1919,    limitandosi però a fotografare quelle sole cappelle in cui si conserva l’opera dei fratelli Tabacchetti  così puntualmente studiata dal fotografo casalese.

“Di tutte le terre monferrine – ricorda Luigi Gabotto nella commemorazione di Negri[5] – egli amò però in modo particolarissimo Crea. Crea ebbe per Lui un’attrattiva singolare, forse perché questo nostro magnifico colle è la sintesi del Monferrato. Qui egli trovava riunite, in picciol spazio, tutte le cose che più lo interessavano: la natura, la storia, l’arte.” L’indicazione, nella sua affettuosità,  non potrebbe essere più puntuale e sintetica: Crea è per molti versi il laboratorio di Negri, il luogo in cui conduce le proprie ricerche sul campo nei diversi ambiti che via via lo interessano, a partire certo dalla botanica, che pratica come è sua consuetudine a livelli di grande rilevanza redigendo una Flora casalese, poi rimasta inedita, per pubblicare nel 1889 un Elenco delle piante più notevoli del Monte di Crea e regioni vicine in appendice alle Notizie storiche di Corrado Onorato.  In questi anni sono ancora le scienze naturali a nutrire la sua curiosità  intellettuale, come dimostrano le  importanti ricerche microbiologiche e microfotografiche, abbandonate dopo il 1890 per dedicarsi totalmente allo studio storico-critico del patrimonio artistico casalese.

La quasi totale dispersione dell’archivio Negri[6] non ci consente di conoscere le ragioni di un mutamento di rotta che a noi appare repentino ma doveva invece essere fondato su solide basi se nello stesso 1890 Negri è nominato membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria, e che deve essere collegato  al più ampio dibattito sulla nascente cultura di conoscenza e tutela del patrimonio culturale piemontese, a cui non erano estranei neppure i contributi dei fotografi più attenti (e basti fare i nome di Pia e Pietro Masoero). Non va inoltre dimenticato -come nucleo di una ipotesi suggestiva- che per Negri un ruolo importante abbia avuto l’incontro con Samuel Butler[7], forse conosciuto nei primi  anni ‘80 in Valsesia in occasione delle prime ricognizioni dello scrittore sui santuari alpini[8], così come  la loro successiva lunga frequentazione, che porterà l’inglese più volte a Casale tra il 1887 e l’anno della morte, il 1902, in compagnia dell’amico e biografo Henry Festing Jones.

“How about your Tabacchetti?”  chiede Butler a Negri in una lettera scritta nei giorni in cui inizia a lavorare a Erewon Revisited,  spedita in accompagnamento alla traduzione in inglese dell’Odissea[9],  a riconferma di una consolidata attenzione per gli studi del casalese, esplicitamente citato anche per l’assegnazione – poi corretta – a Giovanni d’Enrico del gruppo sull’altare nella cappella della Immacolata Concezione a Crea[10],  e lo stesso Negri esprimerà “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65)  consentendo di completare la ricostruzione delle vicende biografiche relative a Jean de Wespin.

Erano state però le ricerche su Martino Spanzotti la sua prima occasione di studio del patrimonio artistico di Crea,  pubblicate nel 1892 col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate,  già collocate nelle lunette della sacrestia,  che “in una recente modificazione alle finestre a cui appartenevano da quattro secoli, sfidando l’ira dei tempi e dei Giacobini, non resistettero alla incoscienza artistica dei frati. Spero però che non le avranno gettate via, e vorranno, se le conservano ancora, metterle in qualche modo in vista.”[11] A queste seguirono gli studi su Gugliemo Caccia, figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, pubblicati nel 1895-1896, i cui esiti confluiranno in parte negli studi dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900[12]. Sono questi l’occasione per offrire un panorama esaustivo e finalmente documentato in modo appropriato, con ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche ma anche a partire da una articolata  analisi storico-critica delle opere, a cui fa da preciso riscontro la documentazione fotografica, qui non finalizzata alla costituzione di un repertorio di opere eccezionali come in Pia, ma intesa quale  strumento d’indagine (ben esemplificata dalle decine di riprese, specialmente relative ai gruppi scultorei delle cappelle) e anche, seppure in misura ridotta per esigenze di economia editoriale, di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating” (Holt 1989, p.87).

Proprio la sua segnalazione del Martirio di Sant’Eusebio come “la cappella più importante”  sembra aver orientato l’indagine di Negri che la fotografa ripetutamente per più di un decennio a partire dal giugno 1891, quando utilizza una illuminazione a candele steariche, eseguendo una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica non dell’opera ma della scena, che viene presentata nella doppia mediazione dei due strumenti narrativi, con l’intenzione esplicita di restituire visivamente quel “realismo così sano e spontaneo”[13] che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti, di tradurre fotograficamente quella “disposizione delle persone (…) così naturale, che l’occhio contemplando la scena si sente riposato, la mente serena” nel vedere “una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sibbene ordinata da un potere costituito su regole determinate e regolari”, interpretando in senso conservatore il “concetto che ebbe il Tabacchetti, di rappresentare cioè, non un assassinio, bensì l’esecuzione d’un supplizio decretato col rispetto delle forme legali e sanzionato dal potere legalmente costituito.” (Negri 1914, p.44)  Ciò che lo attira al di là del valore artistico dell’esecuzione o – meglio – quale fondamento di questo, è il naturalismo delle movenze e delle posture, la capacità di Wespin di cogliere il gesto significativo, e nelle sue riprese pone  in atto un rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico, entrambi impegnati a rappresentare la scena, declinando l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione che reinterpreta e stravolge la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin)  attraverso la cultura visiva propria dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita attraverso l’immobilizzazione del movimento e del gesto che era proprio anche della logica di rappresentazione scultorea.[14]

Omaggio implicito quanto evidente all’amico inglese è anche la tavola di apertura dell’apparato  iconografico dello studio di Negri su Crea che in modo altrimenti inspiegabile si apre con una riproduzione del “Vecchietto”  della Cappella della Deposizione della Croce (XXXIX) di Varallo – oggi attribuita a Giovanni d’Enrico – che Butler considerava la più bella del Santuario ipotizzandone anche una tarda provenienza da Crea[15], per proseguire con una porzione del ciclo di affreschi della cappella di Santa Margherita, fotografati al lampo di magnesio, “scintilla che portava sempre con sé”[16],  e passare quindi ad alcuni dei gruppi statuari più significativi: il Martirio di Sant’Eusebio; la Concezione di Maria, con le due figure dei fondatori conti di Gattinara; la Natività di Maria e l’Annunciazione, per chiudere infine col presunto autoritratto di Tabacchetti, ancora a Varallo. Sono gli stessi soggetti sui quali si eserciterà, come si è detto, anche Secondo Pia con inquadrature sottilmente differenti, più schematiche e immobili, specialmente preziose oggi anche quale documento delle mutate condizioni di conservazione; sono quelle stesse immagini che entreranno a far parte  per lungo tempo del repertorio  iconografico della pubblicistica relativa al Sacro Monte che sempre più nei decenni a cavallo tra i due secoli riconquista quelle attenzioni prima destinate prevalentemente al Santuario.

Così se dal 1891 al 1900, dalla Relazione della Solenne Incoronazione di Damonte ai Brevi cenni storici di Locarni, le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea si limitano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese di Negri, e in Crea 1900 la sola cappella documentata è quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già fotografata da Negri ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto de Amicis, in Crea, 1913, a queste si aggiungono le immagini relative ai rifacimenti ottocenteschi (Sposalizio di Maria Vergine, Presentazione di Gesù al Tempio, Gesù coronato di spine) e si assiste al progressivo accrescimento del corredo fotografico che  assume una forma articolata e complessa ne Il Santuario di Crea, 1914, primo esempio compiuto di guida a più voci corredata di fotografie che illustrano i più diversi aspetti del luogo, dalla statuaria agli affreschi, alle nuove oreficerie, senza dimenticare alcuni esempi di scene di vita e di cronaca (L’incoronazione della Madonna,  5 Agosto 1890) né la discreta presenza dei frati, a cui  è dedicata anche una interessante serie di cartoline edite negli stessi anni.[17]

La successiva occasione editoriale è data dal Congresso Mariano del 1923, per il quale vengono pubblicati sia la “storia popolare” di Padre Francesco Maccono sia “un Album, in veste di lusso, che riproduce i principali monumenti d’arte del Santuario”[18] in quaranta tavole, affidando alle sole immagini la testimonianza del patrimonio artistico e architettonico. Le singole riprese, così come l’Album non portano indicazione d’autore ma sono da assegnare prevalentemente a Negri anche le  immagini nelle quali i gruppi statuari – diversamente da quanto accadeva nel saggio del 1902 –  sono documentati nel loro insieme di opera, con viste grandangolari che li collocano precisamente nello spazio architettonico, restituendo così compiutamente l’approccio complesso dell’autore casalese.

La scelta di affidare alla sola fotografia il compito di illustrare il Sacro Monte costituisce una novità assoluta rispetto alla pubblicistica precedente, certamente favorita dalla positiva  contingenza -anche economica- costituita dal Congresso Mariano ma derivata da una comprensione più profonda e specifica delle potenzialità del mezzo, quella stessa che porta a formulare  “L’idea geniale di fotografare tutti i pellegrinaggi della settimana del Congresso”[19] e di utilizzare in modo sempre più massiccio l’illustrazione fotografica sulle pagine del periodico del Santuario che ha da poco mutato testata.[20]

“Nessuno certo ignora i grandi vantaggi che apporta la fotografia associandosi allo storico fermando sullo strato sensibile di una lastra o pellicola le svariate scene che si svolgono di continuo. Pellegrinaggi, feste tradizionali spingono quassù fiumane di devoti. Schierati sull’ampio piazzale lo riempiono letteralmente e lo spettacolo si consegna alla cronaca in tutta la sua fedeltà numerica.”[21] Questi concetti, espressi nel 1925 sulle pagine del bollettino del Santuario, indicano chiaramente quali fossero le lucide intenzioni e quale l’ispiratore della nuova politica di utilizzazione del mezzo fotografico: Padre Gian Giuseppe Valle (Padre Giovanni), giunto a Crea nel 1922-23[22], la cui passione per la fotografia lo trasformerà ben presto in una delle figure caratteristiche della comunità francescana del Santuario, col “suo vestito trasandato, colla macchina fotografica a tracolla, qua e là per il monte per accontentare i pellegrini o per fissare in una lastra qualche panorama o qualche singolare fenomeno della natura da mettere poi nel Museo.” (Maccono 1936, p.22)

Chiare sono  le  ragioni del suo operare:  la registrazione minuziosa e fedele dei gruppi di pellegrini costituisce testimonianza dell’ampiezza del fenomeno devozionale e -insieme- una ulteriore occasione per rinsaldare il legame tra  fedeli e  luogo in termini modernissimi di comunicazione per immagini attraverso la commercializzazione delle fotografie e la loro pubblicazione sulle pagine del bollettino, per quei lettori sempre più “avidi di figure sensibili”, mentre la documentazione delle opere d’arte, di “questa realtà che sfugge l’occhio di molti visitatori che non spingono lo sguardo dietro le inferriate delle cappelle”[23] ha un ruolo più culturalmente connotato e intrinseco alla diffusione della pratica fotografica sin dalle origini: la formazione di quel “deposito di preziose memorie” che è una delle forme del Museo, specialmente locale.

Qui a Crea, in questa prospettiva si era mosso già Francesco Negri raccogliendo frammenti dei gruppi plastici  negli stessi anni in cui ne andava fotografando il  patrimonio[24], registrandone anche le progressive trasformazioni e impoverimenti;  dopo la sua morte l’impresa viene proseguita “con assidua fatica” proprio da Padre Valle, il quale affianca alla raccolta di reperti quella di immagini fotografiche, per la maggior parte da lui realizzate, non disdegnando però il ricchissimo repertorio delle cartoline,  raccolte in album “che si stanno compilando esaurientemente: vedute del S. Monte (…) dintorni coi suoi attraenti quadri tratti colla telefotografia dai colli remoti (…) splendidi tramonti: scene notturne eseguite al chiaror della molle luce offerta dall’astro minore: la nebbia fitta lambente il limitare del colle eccelso (…).”[25] Il tono lirico e compiaciuto lascia trasparire  l’orgoglio dell’amatore fotografo di formazione pittorialista, sin troppo simile a pagine e pagine di retorica “artistica” pubblicate sui periodici fotografici dell’epoca e specialmente rilevanti in ambito torinese[26], ma anche qui – come a volte accade- la concreta produzione fotografica riscatta i riferimenti di maniera: non solo il progetto complessivo, dai gruppi di pellegrini alla cronaca dei lavori del Santuario, dalla documentazione delle opere d’arte[27] alla vita dei confratelli, dimostra una volontà di restituzione totale, di catalogazione fotografica del mondo che è lontana dalle più estenuate ricerche formali e più strettamente connessa semmai alla tradizione ottocentesca, ma anche quando i temi si fanno più prossimi al repertorio “artistico”, come è per alcune nature morte di fiori e piante e per i paesaggi, lo sguardo si rivela dotato di una propria particolare fisionomia, sempre obliquo e complesso, inatteso, seppure non sempre sostenuto da una adeguata maestria di stampa, lasciando trasparire una concezione del paesaggio come sistema complesso di relazioni tra presenza architettonica ed elementi naturali, ancora una volta con rimandi precisi a Negri ma qui con un impianto compositivo più aggiornato, dove i solidi geometrici delle architetture sono come scomposti, incrinati dalle scritture organiche dei rami e delle loro ombre, in una lettura in cui il gesto fotografico si propone esplicitamente quale atto palese e significante, mai neutra registrazione invisibile e indifferente, non finestra sul mondo ma sua interpretazione mediata, sovente significata dalla presenza di elementi di filtro, quasi di ostacolo ad una visione presunta naturale, posti in primissimo piano, ad indicare la fisicità di una presenza, a storicizzare metaforicamente l’atto del guardare per vedere.

È questa consapevolezza che lo fa sentire – pur nel suo francescanesimo –  orgogliosamente diverso da quella “pleiade di [inetti] dilettanti muniti di un apparecchio fotografico” che per “carpire un lembo di questo suolo storico, un panorama più o meno ampio (…) una comitiva”, hanno invaso  gli spazi occupati dai venditori ambulanti solo cinquant’anni prima.

 

 

Note

[1]La cartella di fotografie relative a Chiese della provincia di Alessandria, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, M-XXVIII (1-45, nn. 24-26) a cui pervenne verosimilmente a chiusura della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, comprende immagini prevalentemente di V. Ecclesia (Casale: S. Evasio; Cortazzone: S. Secondo; Crea: Santuario; Vezzolano: S. Maria;  Asti: Cattedrale, S. Giovanni, S. Pietro, torre di S. Secondo; Bagnasco: cappella del cimitero; Albugnano, cappella del cimitero; Montechiaro d’Asti:S. Nazario;  Moncucco: castello) a cui si aggiungono quattro immagini dovute a Carlo Migliore di Casale Monferrato, relative alla chiesa di San Domenico. Sono tutte stampe all’albumina virate all’oro in formato 30×40 circa montate su cartoni 50×65 circa.  Per quanto riguarda le immagini di Ecclesia la presenza sul supporto secondario dell’indirizzo di Asti, via San Martino 19, prima sede locale dello studio, consente di datare le immagini al periodo 1878/80, realizzate forse poco dopo l’Album artistico della città di Asti/ 1878, cfr. Fotografi del Piemonte, pp.29-30, tavv.XXVIII, XXIX; per una corretta ricostruzione e datazione delle vicende professionali di Ecclesia cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia 1990.

[2] Sulla figura e l’opera di S. Pia, che meriterebbe ancora uno specifico approfondimento, si vedano Tamburini, Falzone Barbarò 1981;   Falzone del Barbarò, Borio 1989 ed i più recenti cataloghi di mostre prodotte in concomitanza con l’ostensione torinese della Sindone: L’immagine rivelata 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone 1998.

[3]Per un confronto e per una verifica della diffusione di questo stereotipo rappresentativo, evidentemente connesso anche ad una economia di rappresentazione, essendo il punto più favorevole per mostrare l’insieme, si rimanda alla bibliografia generale, segnalando qui due sole eccezioni costituite dalla veduta acquerellata compresa nella Descrizione dei Santuari del Piemonte, 1822 (cfr. Castelli, Roggero 1989, p.20)  e dall’incisione in antiporta a Tarra 1890, forse derivata dalla prima, entrambe con vista da sud-ovest e significativa modificazione delle relazioni orografiche necessaria per accentuare la presenza del santuario;  operazione evidentemente impossibile con i vincoli proiettivi geometricamente determinati propri della successiva produzione fotografica.

[4]Dal confronto tra il  “Regesto autografo delle Campagne di Secondo Pia” (cfr. Tamburini, Falzone Barbarò 1981, pp.55-58) e le immagini reperite nel corso della presente ricerca si ricava la seguente cronologia delle riprese:

15-09-1885, Panorama.

21-08-1888, Tavola di Guglielmo Fava detto Macrino;

25-08-1888, Cappella di Santa Margherita, affreschi. A questa data gli affreschi erano appena stati scoperti (cfr. Giorcelli 1900, pp.5-6)

1890, Immagini o documenti non reperiti

23-06-1893, ConfessionaleDipinto in stucco rapp.te Madonna col bambino con iscrizione.

15-10-1898, Due tavolette [ritratti di Lodovico di Saluzzo e della moglie Giovanna di Monferrato]; San Bernardo, affresco di G.Caccia detto il Moncalvo.

25-10-1902, Statua od erma antica della Madonna.

26-10-1902, Facciata della chiesa – stile dorico; Interno della chiesa;  Cappella I: Martirio di Sant’Eusebio; Vetri dipinti nella sacrestia a forma di lunetta.

12-10-1909, Crea [Veduta del Santuario scorciata dal basso], autocromia.

25-10-1909, Pianeta donata da Pio V; Reliquia del piede di S.Margherita; Ostensorio istoriato.

1909-1910, Tavola Macrino d’Alba, autocromia.

30-03-1910, Casale – pianeta di Crea santuario [pianeta donata da Pio V], autocromia.

1913, Immagini o documenti non reperiti

11-09-1919, Cappella IV, Concezione di Maria Vergine; Cappella V, Natività di Maria; Cappella VIII, Annunciazione di Maria Vergine, particolari dei gruppi dell’Eterno e di Giuditta.

Salvo diversa indicazione si tratta di riprese effettuate con lastre alla gelatina-bromuro d’argento nei formati dal 13×18 al 24×30 e quindi stampate per contatto su carte all’albumina o al citrato, successivamente montate su cartoni corredati di annotazioni autografe. Le stesse stampe venivano successivamente rifotografate per ricavarne piccole riproduzioni da inserire nelle schede analitiche che costituivano la struttura finale del sistema archivistico di Pia. Tali schede, confluite nel Fondo Pia della Confraternita del SS. Sudario di Torino, riportano la sigla di collocazione della relativa stampa a contatto, la numerazione progressiva della scheda; localizzazione, titolo  ed eventuali misure dell’oggetto fotografato corredate di sintetiche notizie storico-critiche; data, formato e collocazione del negativo di ripresa.  Prive di schede di riferimento sembrano essere invece le autocromie. Una elencazione  dei diversi fondi fotografici  di Pia  è stata recentemente fornita da Boschiero 1998,  ma a parziale integrazione di quanto indicato si deve ricordare che presso la Biblioteca Reale di Torino oltre all’album dedicato a Vittorio Emanuele III (1919?) è conservato anche un album precedente, datato 1907, dedicato a “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” relativo a Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte, entrambi con immagini relative a Santa Maria di Vezzolano e a Sant’Antonio di Ranverso, cfr. Cavanna 1997.  La notorietà e autorevolezza della sua opera così come l’estesa rete di relazioni con informatori e studiosi fa però sì che immagini di Pia siano presenti  in sedi e collezioni diverse, pubbliche e private, non sempre note. Per l’interesse relativo a questa ricerca segnalo il piccolo album, conservato presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato e verosimilmente proveniente dal lascito Negri: Secondo Pia,  Affreschi della Cappella di S.Margherita di Antiochia nell’Abbazia di Crea Attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona, [1900ca], quattro pagine, copertina cartonata rossa con impressioni in oro; contiene tre stampe [manca la ripresa relativa alla volta] all’albumina virate all’oro, cm.20x25ca, con  timbro a secco: “Secondo Pia/ Torino” in basso a sinistra. Nonostante la classificazione di “Monumento Nazionale” negli anni a cavallo tra i  due secoli il Sacro Monte di Crea non è ancora entrato a far parte del panorama “ufficiale” del patrimonio artistico ed architettonico piemontese, tanto che gli operatori degli Alinari inviati nella nostra regione nel 1898 non lo comprenderanno nel proprio itinerario di lavoro, nel quale sono invece compresi il Sacro Monte di Varallo (14 settembre) e quello di Orta (18 settembre), cfr. Sansoni 1987. Neppure nella successiva campagna del 1912  Crea sarà compresa nel loro repertorio (cfr. Alinari 1925) mentre alcune riprese erano state effettuate dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo.

[5]Luigi Gabotto 1925b; questo testo, estratto dalla commemorazione ufficiale tenuta a Crea il 28 maggio, fa seguito ad un primo necrologio pubblicato a febbraio (Gabotto 1925a).  I legami tra i due personaggi e la comune passione per questi luoghi sono ricordati nella dedica  autografa “All’avvocato Francesco Negri/ che mi ha fatto conoscere ed / amare Crea” con la quale Gabotto  accompagna il proprio volume del 1924 corredato di  foto Negri e dei “Frati di Crea” (Padre Giovanni). Sul fotografo casalese, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890 e Ispettore agli Scavi e Monumenti dal 1907 (Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 253-268)  si vedano Colombo 1969; Greco 1969. A conferma della funzione di laboratorio svolta complessivamente da Crea ricordiamo che nel Fondo Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato (BCCM/FN) sono conservate le riprese di selezione e le singole gelatine colorate necessarie alla realizzazione di alcune riprese per tricromie qui realizzate, datate 1904 (BCCM/FN, B14) poi non completate.

[6]Per una ricostruzione delle vicissitudini dell’eredità Negri rimando a Cavanna 1991; Id. 1992.

[7]Per Samuel Butler cfr. Festing Jones 1920; Durio 1940; Holt 1989.

[8] La  lunga e amorevole consuetudine di Bultler  con l’Italia  induce nel 1880 il suo editore a offrirgli 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese; il manoscritto è completato entro la metà dell’anno successivo ma il testo viene rifiutato e sarà pubblicato a spese dell’autore nel 1882,  corredato di disegni ricavati sia da fotografie eseguite da autori locali come Vittorio Besso (per il cortile superiore di Oropa, ad esempio) sia da schizzi dal vero. Da questa rassegna era stato volutamente escluso il Sacro Monte di Varallo che Butler considerava il più importante dei santuari dell’Italia settentrionale e al quale si riprometteva di dedicare uno studio specifico, anche su precisa sollecitazione di Dionigi Negri, segretario comunale a Varallo e in contatto con lo  scrittore sin dalle sue prima vacanze valsesiane nell’agosto del 1871. Per meglio affrontare lo studio di questo complesso Butler moltiplica i propri soggiorni italiani, estende le ricerche su Tabacchetti a Casale Monferrato (dove si reca nel settembre del 1887 da Ivrea, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen), e prende lezioni di fotografia per poter utilizzare questo nuovo strumento documentario sia in fase di studio sia in occasione della pubblicazione (Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore). L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, amico varallese di Butler, latinista, benemerito CAI, che nel 1897-98 contribuì economicamente al restauro della Chiesa della Madonna di Loreto presso Varallo, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio dopo che il volume era stato rifiutato dagli editori milanesi Treves e Hoepli, con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varalo e di Crea) e con un apparato iconografico lievemente ampliato. La consuetudine della documentazione fotografica rimarrà immutata anche nei decenni successivi  e nel 1891 Butler realizzerà alcune immagini relative a Crea: “Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, scrive ad Arienta il 31 ottobre 1891 (Durio 1940, p.86).

[9]Datata 5 novembre 1900, è pubblicata in facsimile in Greco 1969, p.24. La stima di Butler per lo studioso casalese è chiaramente espressa in una lettera a Giulio Arienta del 31 ottobre 1891: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.” (in Durio 1940, p.86). Quale concreto segno di  stima Butler  finanzierà la realizzazione dei cliché fotografici a corredo del saggio di Negri sul santuario di Crea (Negri 1902, p.76). Le lunghe frequentazioni tra i due sono  documentate anche  da una lastra 13×18 in cui sono ritratti Butler e Festing Jones nel giardino di casa Negri a Casale (BCCM/FN, sc.B20) e da una ripresa stereoscopica datata 1898 (BCCM/ FN, sc.E13) in cui i due inglesi sono ritratti a Camino insieme a Cesare Coppo, amico comune i cui congiunti (la moglie e il figlio Angelo) visiteranno Butler a Londra proprio nel 1900.  Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.Festing Jones e R.A. Streatfield doneranno a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p.22, nota 3).  Prima di tradurre in inglese l’Iliade (1898) e l’Odissea  (1900) Butler aveva pubblicato The Authoress of the Odissey London: Longmans, 1897, libello nel quale sosteneva che l’autrice fosse una sacerdotessa trapanese che si nasconde nel racconto nel personaggio di Nausicaa: “un altro modo di dare l’assalto al mito, di riportare l’opera dell’uomo sul piano disincantato, casalingo, irritante e libero del reale.” (Drudi Demby 1993).

[10]Butler 1888 (trad. it. 1894, p.299). In Negri 1902, p.43 l’opera è  attribuita a Paolo Giovenone.

[11]Negri 1902, p.33. Nello stesso anno erano state fotografate da S. Pia, vedi Nota 4. Le due vetrate, che nel 1914 si trovavano nei locali della Amministrazione del Sacro Monte,  passarono poi ai Musei Civici di Torino.

[12]Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8-9-10 ottobre 1900, pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani et alii. Il fascicolo costituisce il primo esempio di quella lunghissima serie di pubblicazioni ibride, tra  foglio devozionale e  guida turistica, che verranno pubblicate a Crea nei decenni successivi, sovente senza variazioni sostanziali di contenuto né testuale né iconografico. Limitatamente a quelli in cui compaiono diverse edizioni del testo di Negri ricordiamo: Pel pellegrinaggio a Crea. Nel Giubileo dell’Immacolata. CasaleMonferrato: Tip. G. Pane, 1904;  Crea. Guida Storico-artistica. Casale Monferrato: Tip. Massaro, 1908;  Crea. Storia -Cronologia – Arte – Culto. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta G. Pane, 1913; Il Santuario di Crea. Guida storico-artistica edita in occasione delle feste dell’anniversario della nuova Incoronazione. Crea 2-3 agosto 1914. Casale Monferrato: Tip. G. Pane, 1914. Lo stesso Negri ritornerà su questi temi  in una conferenza per l’Unione Escursionisti di Torino tenuta nel 1908, cfr. Negri 1908, corredandola – come era allora consuetudine – di diapositive che verosimilmente corrispondono a quelle oggi conservate nel Fondo Valle del Parco Regionale di Crea.  Per il ruolo sociale e culturale svolto dall’Unione Escursionisti cfr. Garimoldi 1996.

[13]Negri 1902, p.36 e segg. Le riprese più tarde (BCCM/FN, B13-9, B8-5) vennero realizzate ben oltre la pubblicazione di questo testo, nell’agosto del 1904 dopo i restauri condotti da Bigoni.

[14]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture 1991; Skulptur in Licht der Fotografie 1998.

[15]”Io son quasi d’opinione che il Vecchietto viene da Crea” scrive ad Arienta il 14 ottobre 1888 (Durio 1940, p.60). Alcuni studiosi di Butler (Hotl 1984, p.85) sostengono che il fascino esercitato da quest’opera possa essere meglio compreso se la si considera come una possibile “incarnazione” del vecchio John Pontifex, il  capostipite della famiglia protagonista del romanzo autobiografico The Way of All Flesh  (trai. it. Così muore la carne, a cura di E. Giachino. Torino: Einaudi, 1939) scritto tra 1872 e 1884 ma pubblicato postumo nel 1903.  Molte delle affermazioni e opinioni di Butler verranno ben presto  confutate proprio da Giulio Arienta, col quale egli ammetterà onestamente di “aver fatto tanti errori che ora non posso correggere” (30 giugno 1896) e di dover fare “modificazioni assai gravi nelle opinioni riguardo alle cappelle del Sacro Monte” (21 marzo 1896) (cfr. Durio 1940, pp.112-113). L’immagine pubblicata in Negri 1902, tav.1 si discosta parzialmente dalla ripresa per un diverso taglio della figura e per un tono generale più scuro, che la isola dal contesto.

[16] “Lo rivedo ancora nella buia cappella (…) a rivelarmi  le bellezze in essa racchiuse mediante il lampo del magnesio.” (Gabotto 1925b, p.82)

[17]Il volume ripropone sostanzialmente invariati i due saggi del Canonico Prof. Evasio Colli, parroco di Occimiano, poi vescovo di Acireale,  e di Francesco Negri, già pubblicati l’anno precedente nel “Numero unico” edito dalla tipografia G. Pane di Casale, che nello stesso 1914 pubblica a firma degli stessi autori  e con un apparato fotografico dovuto al sacerdote vercellese Alessandro Rastelli, Il B.Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio (nuova ediz. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna) singolare volume in cui il tema apparentemente agiografico si risolve in un contributo storiografico (Colli) intriso di propaganda sociale e politica fortemente influenzate dalla Rerum Novarum di Leone XIII, proprie anche di altri titoli dello stesso editore-tipografo (La Lega Internazionale dei Lavoratori spiegata al popolo), in accurate e innovative ricerche su temi di storia dell’arte locale (Negri) e in un corretto apparato fotografico dovuto ad un sacerdote dilettante fotografo.

Le prime  cartoline in cui sia registrata la presenza dei frati, comunemente ritratti in meditazione o in preghiera affacciati al pronao della cappella della Salita al Calvario o a quella del Paradiso secondo uno schema iconografico inaugurato intorno al 1865 da Giorgio Sommer con la sua veduta di Amalfi dal Convento dei Cappuccini (cfr. Palazzoli 1981, tav.45; Miraglia, Pohlmann 1992), erano edite dalla stessa ditta Pane, da A.Tabusso e dalle Sorelle Capra di Crea, mentre quelle più tarde (1930ca) sono pubblicate da Fotografia e Arti Grafiche, via Garibaldi 3, Torino, di Guido Cometto,  intimo amico di Padre Giovanni del quale realizzerà anche due intensi ritratti. Alla crescente diffusione della cartolina illustrata è dedicata una breve riflessione nel bollettino del Santuario in cui  dopo averla definita “Simpatica messaggera dei vari sentimenti dell’animo nostro [che] parla al cuore di chi è inviata con una sintesi meravigliosa”  così prosegue: “Ma ahimè, che in mezzo a tanta dovizia di cartoline belle e morali, ne insorgano altre laide e oscene, allettatrici di sensuali istinti forniti di insani desideri (…) Oh! Facciamo una guerra spietata a questa immonda messaggera di Satana” (Passiflora 1922).

[18] Maccono 1923;  Santuario di Crea. Album, 1923.

[19]Nota della Direzione 1923, che così prosegue: “Annunziamo ora che teniamo a disposizione un forte stock di fotografie formato cartolina a L.0,50 l’una. Coloro che desiderano la fotografia del proprio pellegrinaggio si rivolgano alla Direzione di questo periodico indicando il numero di cartoline che desiderano.”  Foto di gruppo di pellegrini erano però già state pubblicate nel 1922.

[20]Col 1 gennaio 1922, a.XIV, n.1 la vecchia denominazione di “Maria. Bollettino del Santuario di Crea”  muta in “La Madonna di Crea. Periodico del Santuario di Crea” e si inizia ad utilizzare la fotografia, prima completamente assente, per modernizzare un canale di comunicazione che fosse strategicamente adeguato a quegli anni cruciali.

[21]P.G. [Padre Giovanni Valle]  1925, p. 69; il testo venne ripubblicato con lievi varianti testuali in Valle 1926.

[22]Padre Giovanni Giuseppe della Croce, questo il suo nome di religioso (Mazzè: 13-5-1872 / Crea: 16-1-1936) inizia a fotografare nei primi anni del Novecento quando è Guardiano al Santuario di Belmonte nel Canavese (1901-1904) e prosegue questa sua attività specialmente a Crea, dove giunge secondo Maccono 1936, nel 1923 ma la data va anticipata di almeno un anno come confermano alcune riprese da lui realizzate  e specialmente l’Album artistico di Crea/ 1922 da lui composto che costituisce il modello della pubblicazione edita nel 1923 (cfr. Nota 17). Anche Luigi Gabotto lo ricorderà affettuosamente con “la sua macchina fotografica, curiosa scarabattola (…) Con la sua rustica cesta fratesca, il cavalletto sotto braccio, la bisaccia a tracolla [che] scalava i colli, si arrampicava sulle piante o su palchi di fortuna senza badare a pericoli ed alla sua povera tunica, pur di trovare un punto di vista e una luce perfetta.” (Gabotto 1936) traducendo in parole l’immagine bonariamente caricaturale, testimoniata da una riproduzione fotografica conservata nei depositi del Museo di Crea,  che di lui ci ha lasciato Carlo Pintor, pittore e restauratore sardo che risulta attivo – come mi ha segnalato Maria Carla Visconti, che ringrazio – nella “Cappella Reale” della Natività di Maria nel 1935 (SBAAP, Archivio corrente, Serralunga di Crea – Santuario).  Padre Giovanni costituisce sinora l’esito più interessante del fenomeno di diffusione della pratica fotografica amatoriale che si registra tra il clero nel  Piemonte centro-orientale (senza dimenticare la presenza torinese di Don Eugenio M. Casazza) nei primi decenni del secolo, che annoverava sinora i nomi di F. Origlia e A. Rastelli entrambi a loro volta in relazione con F. Negri, col canonico Colli e con le edizioni Pane di Casale Monferrato (cfr. Nota  16), secondo una trama di rapporti e intenzioni  culturali ancora tutta da indagare che comprendeva certamente anche Secondo Pia e viveva sotto il segno di un rinnovato interesse della chiesa e del clero per la fotografia – apprezzata da Leone XIII – dopo le riprese della Sindone nel 1898,  ma anche, per quanto riguarda la diffusione delle immagini fotografiche, del modello salesiano, la cui tipografia torinese si era dotata sin dal 1877 di un laboratorio per il trattamento e la stampa delle fotografie (Marchis 1989, pp.230) diretto da Carlo Antonio Ferrero, già titolare a Torino di un Emporio Fotografico specializzato in fotografia scientifica.

[23]Valle 1925, p.69. Questo accenno significativo allo sguardo “distratto” dei visitatori, che non sembrano interessati proprio agli elementi narrativi della macchina teatrale del Sacro Monte (tantomeno al loro valore artistico) ribadisce la centralità del problema delle strategie comunicative messe in atto dal discorso delle cappelle.

[24]Ibidem.  Il ruolo svolto da Negri nella ideazione e prima strutturazione del Museo del Sacro Monte, curiosamente dimenticato dagli stessi necrologi redatti da Gabotto (cfr. Nota 5)  è confermato dal medaglione con lapide commemorativa posto nell’atrio del museo: “ In memoria di / Francesco Negri / che illustrò Crea tanto amata / nei suoi ricordi gloriosi / Nella realtà fulgida di sue naturali bellezze / Gli amici tutti con affetto / Anno 1929”.  Poiché sappiamo da Gabotto 1925, che Negri si era recato a Crea per l’ultima volta il 16 ottobre 1921, vale a dire prima dell’arrivo di Padre Giovanni, dobbiamo supporre che la conoscenza tra i due e il volontario ruolo di prosecutore svolto dal francescano si fondassero su di un rapporto precedente e consolidato  che potrebbe essere fatto risalire al 1899-1901, quando Padre Giovanni era Maestro dei Chierici di Casale,  senza dimenticare però che egli si recava occasionalmente a Crea anche prima di stabilirvisi, come dimostra una sua immagine della cappella del Paradiso datata 19 febbraio 1920 (A9/8).

[25]Valle 1925, p.69. La parte più consistente dell’archivio fotografico di Padre Valle oggi costituisce il fondo omonimo conservato presso la sede del Parco del Sacro Monte di Crea. In attesa di una specifica catalogazione, una sommaria  ricognizione consente di definirne in prima approssimazione la consistenza:  4000ca negativi su lastra e pellicola alla gelatina-bromuro d’argento, nei formati dal 6,5×9 al 18×24, questi ultimi forse da attribuire a Francesco Negri, al quale vanno assegnate anche i 110ca positivi su vetro per proiezione, alla gelatina-bromuro d’argento, nel formato 8,5×10 la cui presenza è connessa all’idea “di far contemplare sullo schermo con nitide proiezioni il complesso storico ed illustrativo di Crea” (Valle 1925, p.70). I circa 1500 positivi (in prevalenza al bromuro e clorobromuro d’argento, in formati compresi tra il 9×12 e il 24×30) sono stati raccolti dallo stesso Padre Giovanni in 10 album insieme ad alcune centinaia di cartoline tipografiche e ad alcune stampe all’albumina ancora di F. Negri, a volte con annotazioni autografe al verso. Le date di esecuzione sono comprese tra 1890ca e 1910ca per Negri e 1920-1935 per Padre Giovanni. Un più ridotto numero di positivi (alcune decine) è stato individuato nel corso di questa ricerca anche tra gli eterogenei materiali conservati nel Museo del Santuario tra i quali si trovano anche alcuni apparecchi fotografici a soffietto da viaggio, un apparecchio fotografico tipo folding e uno tipo box oltre a cinque obiettivi, piastre portaottica e otturatori  che per tipologia ed epoca di costruzione avrebbero potuto appartenere a Francesco Negri, sebbene la loro utilizzazione da parte di Padre Giovanni sia parzialmente documentata da una fotografia datata 1928ca, oggi in collezione privata. Se ricerche successive dovessero confermare la provenienza di questi materiali, si tratterebbe di un ritrovamento di grande rilevanza per la comprensione dei modi operativi di Negri, del quale – come è noto – ben pochi strumenti e apparecchi sono conservati nel Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato.

[26]La nascita e lo sviluppo delle tendenze “artistiche” nell’ambiente fotografico torinese nei primi decenni del nostro secolo sono ormai ampiamente studiati,  cfr. Luci ed Ombre, 1987; Costantini 1990; Miraglia 1990; Fotografia luce della modernità 1991; Mario Gabinio 1996.

[27] “La maggior parte delle fotografie che illustrano questo studio mi vennero offerte dal dott. Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino, e dal padre Gian Giuseppe Valle del Santuario di Crea.” (Gabrielli 1934, p.5, nota 1); mentre l’autrice parla di foto “offerte”,  la recensione comparsa sul periodico del Santuario di Crea sottolinea come “le fotografie che riguardano la Cappella sono opera del nostro ben conosciuto ed amato P. Gian Giuseppe Valle.”  (Recensione 1935, p.27)

 

 

 

Bibliografia citata

 

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Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia luce della modernità 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, saggio storico di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1991

 

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Padre Francesco Maccono, Il Santuario di N.S. di Crea nel Monferrato. Storia popolare. Casale Monferrato: Tip. Miglietta, 1923 (II edizione riveduta e corretta, Casale Monferrato: Tip. di Miglietta, Milano e C. – Succ. Cassone, 1931)

 

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Nota della Direzione 1923

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Palazzoli 1981

Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981

 

Passiflora 1922

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Recensione 1935

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Sansoni 1987

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Sculpter-Photographier 1993

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre – Marval, 1993

 

Secondo Pia 1998

Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia : immagini di Asti e dell’Astigiano , catalogo della mostra (Asti, Archivio storico del Comune, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998), a cura di Gemma Boschiero.  Asti: Comune di Asti, 1998

 

Sertorio Lombardi 1978

Sertorio Lombardi Cristina , a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato  e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Skulptur im Licht der Fotografie 1997

Skulptur im Licht der Fotografie: von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Wien,  Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1997), hrasg. Erika Billeter. Bern : Benteli, 1997

 

Tamburini, Falzone Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Tarra 1890

Giulio Tarra, Il Santuario di Crea. Torino: Tipografia dell’Ateneo, 1890

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, “L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

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Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

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Falzone del Barbarò 1987

Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987

 

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Maccaferri 1986

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Marangoni 1931

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Mario Sansoni 1987

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Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

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Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

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Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio, [1914]. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996

 

Colombo 1969

Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841/1924. Bergamo: Coop. Il Libro Fotografico, 1969

 

Contini 1990

Maria Teresa Contini, Strumenti fotografici 1845-1950. Roma: Gabinetto Fotografico Nazionale – NER, 1990

 

Corcy 2003

Marie-Sophie Corcy, Jean Bernard Léon Foucault, in Le daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi – New York, 2003-  2004), Quentin Bajac, Dominique Planchon-de Font Réaulx, dir. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, pp.364-365

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, pp.95-179

 

Crea 1900 1900

Crea 1900, numero unico del «Corriere di Casale», 8-9-10 ottobre 1900

 

Darius 1984

Jon Darius,  Beyond Vision: One Hundred Historic Scientific Photographs. Oxford – New York: Oxford University Press, 1984

 

De Amicis et al. 1914

Giovanni Augusto De Amicis et al., Il Santuario di Crea. Casale Monferrato: Tipografia Ditta G. Pane,1914

 

De Feo, Ratti 2001

Claudia  de Feo, Guido Ratti, Indice centenario. La «Rivista di Storia Arte e Archeologia» dal 1892 al 1999. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2001

 

De Gubernatis 1879

Angelo de Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei. Firenze: Successori Le Monnier, 1879

 

Didi-Huberman 1988

George  Didi-Huberman, La fotografia scientifica e pseudoscientifica, in Jean-Claude Lemagny, André Rouillée, a cura di, Storia della fotografia. Firenze: Sansoni, 1988, pp. 71-75

 

Donné, Foucault 1845

Alfred Donné, Léon Foucault, Atlas du Cours de Microscopie exécuté d’après nature au microscope daguerréotype.  Paris: J.B. Baillière 1845

 

 

Drudi Demby 1993

Lucia Drudi Demby, Introduzione, in Samule Butler, Erewhon. Milano: Adelphi, 1993

 

Durio 1940

Alberto Durio, Samuel Butler e la Valle Sesia. Da sue lettere inedite a Giulio Arienta, Federico Tonetti e a Pietro Calderini. Varallo Sesia: Tipografia Testa, 1940

 

Esposizione fotografica 1899

Catalogo della Esposizione fotografica in Firenze promossa dalla Società Fotografica Italiana, aprile-maggio 1899. Firenze:Tip. di G. Barbera, 1899

 

Esposizione Internazionale 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907

 

Falcone 1914

Nicola Angelo Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914

 

Falzone del Barbarò 1979

M.F.B. [Michele Falzone del Barbarò], Negri Francesco, in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, p. 168

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Federico Negri s.d.

Associazione Ex-Allievi Liceo Ginnasio «Cesare Balbo», a cura di, Mostra retrospettiva dell’avv. Federico Negri. Casale Monferrato, s.d.

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia italiana 1979

Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze – Venezia, 1979-1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979

 

Frizot 1994

Michel Frizot, La photomicrographie, in Id., dir., Nuovelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994, pp. 275-277

 

Frizot, Ducros 1987

Michel Frizot, Françoise Ducros, Du bon usage de la photographie. Une anthologie de textes. Paris: Centre national de la Photographie, 1987

 

Gabotto 1925a

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.2, febbraio, pp. 15-16

 

Gabotto 1925b

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.7, luglio, pp. 81-83

 

Gabotto 1925c

Luigi Gabotto, Francesco Negri. Casale Monferrato: Stabilimento Tipografico Successori Cassone, 1925

 

Garimoldi 1966

Giuseppe Garimoldi , Montagna – Città: autoritratto di un fotografo, in Mario Gabinio 1996, pp.37-46

 

Gasparolo 1925

Francesco Gasparolo, Cav. Uff. Avv. Francesco Negri , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia per la Provincia di Alessandria”, 9 [34] (1925),  fasc. 33, pp. 9-19

 

Gilardi 1969

Ando Gilardi, Francesco Negri fotografo a Casale, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 144, ottobre,  p.55

 

Gilardi 1976

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976

 

Greco 1969

Enzo Greco, La figura e l’opera di Francesco Negri. Casale Monferrato: Lions Club, 1969

 

Greco, Serrafero 1973

Enzo Greco, Gabriele Serrafero, La documentazione microfotografica delle scoperte batteriologiche nell’opera del casalese Francesco Negri (1884-1885), in “Atti della VII Biennale della Marca e dello Studio Firmano”, (Fermo, 2-4 maggio 1967). Civitanova Marche: Grafiche Corsi, 1973

 

Gunthert 2001

André Gunthert, Esthétique de l’occasion. Naissance de la photographie instantanée comme genre, “études photographiques”, 6 (2001), n.9, mai, pp. 64-87

 

Holt 1989

Lee Elbert Holt,  Samuel Butler. Boston: Twayne Publishers,  1989

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Jeffrey 1999

Ian Jeffrey, Revisions: an alternative history of photography. Bradford: National Museum of Photography, Film and Television, 1999

 

Johnson 1998

Geraldine A. Johnson, ed., Sculpture and photography: envisioning the third dimension. Cambridge:  Cambridge University Press, 1998

 

Jones 1918

Henry Festing Jones, ed., The note-books of Samuel Butler. London: Arthur C. Fifield, 1918

 

Jones 1919

Henry Festing Jones,  Samuel Butler, author of Erewhon (1835-1902) a memoir. London: Macmillan and Co., 1919

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,L’Esposizione fotografica di Torino – Note ed appunti, I parte, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), pp. 124-139

 

Masoero 1902

Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902), pp. 465-479

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In Memoria dell’Avv. Francesco Negri. Commemorazione letta nella Adunanza del 1° marzo 1925 alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti dal Socio Presidente Mattirolo Oreste, estratto dal «Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti», 9 (1925), n.1-2. Torino: Tip. Anfossi, 1925

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911), in “Storia dell’arte italiana”, 9**, Illustrazione e fotografia. Torino: Einaudi, 1981, pp. 423-543

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2006

Marina Miraglia, Veduta, panorama, paesaggio. Vittorio Sella e la fotografia delle vette, in Paesaggi verticali  2006, pp.11-21

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli & Morbelli, catalogo della mostra (Varese – Casale Monferrato, 1995), a cura di Giovanni Anzani, Filippo Maggia. Varese: Edizioni Lativa, 1995

 

Negri 1892

Francesco Negri, Una famiglia d’artisti casalesi dei secoli XV e XVI, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, 1 (1892), n. 2, luglio-dicembre, pp. 160-161

 

Negri 1895

Francesco Negri, Giorgio Alberini. Pittore, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 9, pp. 7-17; II, n. 11, pp. 179-194

 

Negri 1895-1896

Francesco Negri, Il Moncalvo. Notizie su documenti, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 12, pp. 263-280; II,  5 (1896), n.13, pp. 103-129; III,  n. 14, pp. 207-225

 

Negri 1902

Francesco Negri, Il Santuario di Crea in Monferrato , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, 11 (1902), n. 6,  (nuova serie), pp. 5-76

 

Negri 1906

Francesco Negri, Appunti sulla tricromia, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 18 (1906), pp. 42-44

 

Negri, Cassone 1885

Francesco Negri,  Giuseppe Cassone, Contribuzione allo studio della genesi e modo di diffusione del colera, “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, gennaio 1885, pp. 40-45

 

Negri, Pisolini 1882

Francesco Negri, Francesco Pisolini, Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, agosto 1882

 

O’Brien, Bergstein 2000

Maureen C. O’Brien, Mary Bergstein, eds., Image and Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000

 

Oddone 1925

Edoardo Oddone, Commemorazione di Francesco Negri, “Il Monferrato”, 25 (1925), n.1, 3 gennaio

 

Omezzoli 2003

Tullio Omezzoli, Come nasce la biblioteca di Aosta. Aosta: Le Château, 2003

 

Paesaggi verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879 – 1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino: Fondazione Torino Musei – GAM, 2006

 

Un paese unico  2000

Un paese unico. Italia fotografie 1900 – 2000, catalogo della mostra itinerante,  a cura di Cesare Colombo. Firenze: Alinari, 2000

 

Prima Esposizione  1924

Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia. Milano – Roma: Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Principe, Sensi, Casati 2004

Franca Principe, Nadia Sensi, Stefano Casati, Il Fondo Roster dell’Istituto e Museo di Storia delle Scienze di Firenze, “AFT”, 20 (2004), n.39/40, giugno/dicembre, pp. 3-20

 

Pygmalion Photographe  1985

Pygmalion Photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Ginevra, 1985), Rainer Michael Mason, Hélène Pinet, dir. Genève: Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, 1985

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Romano 1970

Giovanni Romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana. Torino: Einaudi, 1970

 

Saccardo 1895

Pier Andrea Saccardo, La Botanica in Italia. Venezia: Tipografia C. Ferrari, 1895

 

Sagne 1984

Jean Sagne,  L’atelier du photographe: 1840-1940. Paris: Presses de la Renaissance, 1984

 

Samek Lodovici 1946

Sergio Samek Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940. Roma: Tosi, 1946

 

Il Santuario di Crea 1908

Il Santuario di Crea. Cenni sulla conferenza dell’Avv. Cav. Francesco Negri. Torino: Unione Escursionisti – Tip. M. Massaro, 1908

 

Sculpter-Photographier  1991

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre,  22-23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre, 1991

 

Serrafero 1967

Gabriele Serrafero, Cronache casalesi dal quarantotto al novecento. Casale Monferrato: Tip. Milano e C., 1967

 

Settimelli 1969

Wladimiro Settimelli, Storia avventurosa della fotografia. Roma: Editrice Fotografare, 1969

 

Settimelli, Geiger 1968

Wladimiro Settimelli, Friedel Geiger, Francesco Negri scienziato fotografo, dattiloscritto, 1968

 

Shaffer 1988

Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988

 

Skulptur 1998

Skulptur in Licht der Fotografie, catalogo della mostra (Vienna, 1998), Erika Billeter, hrsg. Wien: Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1998

 

Spanzotti  2004

“Di fino colorito”. Martino Spanzotti e altri casalesi, catalogo della mostra(Casale Monferrato, 2004), a cura di Giovanni Romano con Alessandra Guerrini e Germana Mazza. Casale Monferrato: Città di Casale Monferrato, 2004

 

Stefano Bricarelli 2005

Stefano Bricarelli. Fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di Pierangelo Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005

 

Stoppani 1875

Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle Bellezze Naturali. Milano: Tipografia e Libreria Editrice Giacomo Agnelli, 1875

 

C.T. 1912

C.T., L’ «Olikos», apparecchio cinematografico di presa e di proiezione, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. IV-V

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887

 

 

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione (1986)

“Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986, pp. 34 – 45

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Eugène Atget

 

Primo ottobre 1907 Mons. Teodoro dei Conti Valfrè di Bonzo “Arcivescovo di Vercelli e Conte” concede l’imprimatur al volume L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, “Studio storico del Can. Dott. Romualdo Pasté / Studio artistico del Cav. Federico Arborio Mella illustrato da Pietro Masoero”[1]. I tre autori nella dedica che apre il volume dichiarano di aver voluto “radunare quanto è a noi pervenuto delle memorie della abbazia di S. Andrea e fissarne il ricordo storico illustrando il grandioso tempio che, salvato dalla ruina di mille altri monumenti, permane solenne ad attestare una grandezza passata” portando anche un “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”.  Né questo rimando preciso deve essere semplicemente inteso quale richiamo d’occasione, né la dedica all’ Arcivescovo di Vercelli un semplice atto formale: l’arte sacra infatti aveva costituito per tutta la seconda metà del secolo XIX, ed in parte costituiva ancora, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale del Piemonte cattolico, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito ed alle prime iniziative di tutela. Se Romualdo Pastè, autore della ricerca storica, corrispondente della Deputazione Subalpina di Storia Patria, canonico ed archivista capitolare svolge, per il suo stesso ruolo, una funzione di tramite, è certamente Federico Arborio Mella la figura centrale, erede di una tradizione familiare di grande prestigio che aveva avuto nel nonno Carlo Emanuele e nel padre Edoardo gli esponenti più noti, impegnati a fondo nel  dibattito e nell’attività architettonica e di tutela. A Carlo Emanuele Arborio Mella si devono infatti i primi interventi di restauro della basilica di S. Andrea, condotti tra il 1822 e 1825 in modo “aperto ed attento a questioni singolarmente precoci quali il concetto di monumento inteso come insostituibile fonte documentaria dello stesso, da cui gli deriva l’esigenza di riportare in puntuali relazioni quanto emerso o osservato nel corso dello studio diretto delle strutture antiche”[2] Queste osservazioni, raccolte nell’ opuscolo Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli [3] pubblicato postumo nel 1856 a cura del figlio Edoardo, il quale a sua volta pubblicherà quasi a conclusione della sua lunga attività lo Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli [4]; segnano l’inizio della ripresa di interesse per il monumento vercellese da parte di studiosi italiani e stranieri. Accanto all’attività di studio si collocavano le iniziative di promozione culturale: anche in questo caso il primo riferimento è costituito dall’attività di Carlo Emanuele che aveva fondato a Vercelli, nel 1841, la Società per l’insegnamento gratuito del disegno, trasformata venti anni più tardi, sotto la presidenza di Edoardo, in Istituto di Belle Arti, prevalentemente preposto alla formazione di corsi professionali ma che prevedeva esplicitamente all’art. 3 dello Statuto di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi di impedirne il deterioramento”[5]. Il richiamo alla “conservazione dei patrii monumenti” rimanda in modo quasi letterale alle disposizioni contenute nel Regio Brevetto carloalbertino del 1832 col quale si istituiva la Giunta di Antichità e Belle Arti, destinata a censire e tutelare “reliquie degli antichi monumenti e capolavori delle arti belle”[6]; di questo organismo, che ebbe vita stentata almeno fino al 1853 per essere poi sostituito a partire dal 1860 dalla Consulta di Belle Arti, fecero parte gli esponenti più noti del mondo culturale sabaudo e tra essi merita ricordare almeno Domenico Promis conservatore della Biblioteca Reale di Torino, che Edoardo Arborio Mella conobbe nel 1855, ed il fratello di questi Carlo Promis, architetto e storico dell’architettura, nominato nel 1837 “Ispettore de’ monumenti di antichità esistenti ne’ Regi Stati”, che nel 1857 proporrà il Mella per i restauri del duomo di Casale Monferrato, segnando l’inizio della sua carriera di restauratore.

Attorno al Mella ed all’Istituto di Belle Arti ruota gran parte dell’ ambiente artistico vercellese: quando la scuola apre i battenti nel 1862 il corso di Ornato e Figura è diretto dal pittore Carlo Costa, il quale aveva frequentato giovanissimo lo studio del Mella e lo aveva quindi accompagnato durante il suo fondamentale viaggio in Germania, divenendo uno dei suoi più preziosi collaboratori. Il corso di Elementi era tenuto dal fratello di Carlo Costa, Giuseppe, il quale sarà chiamato nel 1868, sempre dal Mella, a realizzare le parti a figura durante i restauri della chiesa di S. Francesco a Vercelli.[7] Abbiamo qui uno dei numerosi esempi di rapporti strettissimi tra mondo accademico e fotografia: “Studio di Pittura e Fotografia di Costa Giuseppe/ Vercelli/ via Felice Monaco”[8] recita il verso di una sua carte de visite conservata presso le Civiche Raccolte Bertarelli di Milano,mostrando la compresenza di due attività complementari, sebbene le notizie a noi note facciano supporre che negli anni successivi egli si sia dedicato prevalentemente alla fotografia, documentando nel 1882 gli affreschi eseguiti dal fratello Carlo nella cupola di S. Eusebio, pubblicati dapprima in un album ricordo e quindi riediti nel 1898 nel numero monografico di “Arte Sacra” dedicato a Vercelli, in cui compaiono anche sue riproduzioni dei cartoni di Francesco Grandi per la cupola del Duomo ed una bella immagine della basilica di S. Andrea. La figura di Giuseppe Costa, finora poco nota, sembra collocarsi marginalmente nel panorama dei fotografi piemontesi della seconda metà dell’Ottocento interessati alla documentazione del patrimonio artistico, ma sarà necessario attendere il riordino in corso del fondo fotografico Mella[9],conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli, per una verifica più puntuale della sua attività, soprattutto mettendola ancora una volta in relazione col ruolo e con le concezioni critiche espresse da Edoarado Arborio Mella.

Si avverte a Vercelli un certo ritardo rispetto ad altre situazioni regionali, ad altre figure di fotografi: già nel 1865 Vittorio Besso, allievo di Giuseppe Venanzio Sella, viene ricordato dalla locale “Gazzetta Biellese” come fotografo di “capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”)[10] e tra 1872 e 1877 a lui si deve l’accurata documentazione dei restauri condotti da Alfredo d’Andrade al Castello di Rivara per incarico di Carlo Pittara; immagini presentate dallo stesso D’Andrade alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880 ad illustrazione del suo primo intervento di restauro o meglio ­in questo caso – di reinvenzione.[11] Nel 1878 inizia la propria attività anche Secondo Pia che dodici anni più tardi, in occasione dell’Esposizione Italiana di  Architettura di Torino del 1890, riceverà una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi” riconoscimento offerto anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[12]. Torna in mente l’appello Ruskin: “the greatest service which can at present be rendered to architecture, is the careful delineation of details … by means of photography. I would particularly desire to direct the attention of amateur photographers to this task”[13],  ma ancora nel 1900 Masoero sottolineerà questo aspetto dell’attività di Pia che “dona alla storia tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case che riproducono per commerciare, ed  il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”[14]

Secondo Pia costituisce il termine di paragone di tutta una generazione di “amateur photographers” piemontesi che si dedicheranno con profonda attenzione e competenza alla scoperta ed alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico regionale che avrà poi in Francesco Negri uno degli esponenti di maggior rilievo. La situazione vercellese intorno agli anni Settanta sembra invece essere meno attenta alla produzione di fotografie di documentazione: lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, uno dei primi aperti a Vercelli, nel 1863, pare occuparsi solo di ritratto[15]; Giuseppe Costa negli stessi anni è impegnato essenzialmente come insegnante di disegno o al più si limita a riprodurre le opere del fratello Carlo. Si dovrà attendere il 1873, con l’apertura dello studio di Federico Castellani, già titolare di un altro studio ad Alessandria, per avere una prima documentazione del patrimonio architettonico della città: nel giugno di quell’anno egli presenta infatti l’Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli, costituito da 23 stampe. La distinzione fatta nel titolo tra vedute, edifizi e monumenti è indicativa del tipo di approccio di Castellani: l’intento documentario si stempera nell’illustrazione, alle architetture civili e religiose si affiancano la stazione ferroviaria ed il ponte sul Sesia, ed anche la ripresa del singolo monumento lo pone in un contesto più ampio, facendone il soggetto principale ma non unico dell’inquadratura.[16]

Diversamente da quanto era avvenuto ad esempio in Francia, in cui la scoperta della fotografia aveva coinciso con un periodo di rinnovato interesse per il patrimonio architettonico e con la creazione delle società di studi archeologici[17], a Vercelli la presenza di Edoardo Arborio Mella, chiamato a far parte nel 1870 della Commissione incaricata di istituire un primo elenco di monumenti nazionali, poi nominato “Ispettore degli scavi e monumenti di antichità di Vercelli”[18] e quella non meno importante del padre barnabita Luigi Bruzza, insigne archeologo, autore nel 1874 di uno studio dedicato alle  Iscrizioni antiche vercellesi   lodato da Theodor Momsen, che portò alla costituzione nel 1875 di un museo a lui dedicato, destinato a raccogliere “i cimeli lapidei della storia e delle vicende dell’ Agro vercellese”[19], non determinò attenzioni particolari per un uso documentario della fotografia.  Nel 1883 un altro padre barnabita, Giuseppe Colombo, utilizzando studi del Bruzza, pubblica a spese dell’Istituto di Belle Arti Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi; a questo studio farà riferimento nel 1886 il fotografo Pietro Boeri realizzando, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, uno splendido album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, primo e insuperato esempio a livello locale di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico. Non è per ora possibile sapere se l’album di Boeri nasca da una iniziativa personale o non sia piuttosto il prodotto di una collaborazione qualificata, ma ciò che preme sottolineare è che il primo esempio di documentazione fotografica prodotto localmente si rivolge al patrimonio artistico e non a quello architettonico od archeologico che pure godevano dell’attenzione di studiosi di grande levatura. Ciò è ancora più strano se si pensa che nel campo dell’architettura il ricorso all’immagine fotografica era da tempo codificato ed utilizzato sia per il restauro che per la documentazione storico-critica: la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri ed Architetti Italiani, tenuto si a Torino nel 1884, aveva auspicato la formazione di una “raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche degli edifici nazionali”[20], affidandone la realizzazione al Collegio torinese che presenterà  nel successivo congresso tenuto si a Venezia nel 1887  il Catalogo del Museo Regionale di Architettura, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai  monumenti piemontesi, “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione … [quelle] degli altri paesi d’Italia”.  L’elenco delle fotografie esposte e quello dei donatori forniscono dati di grande interesse: la città di Vercelli non è documentata; tra i donatori (architetti, fotografi, ingegneri ecc.) non compare il Mella, mentre è presente il fotografo Castellani, che ha fornito un’immagine del duomo di Alessandria. L’assenza non sembra essere priva di significato. Se si pensa all’intensa attività di Edoardo Arborio Mella ed ai riconoscimenti ricevuti questa non può essere ascritta che alla particolare natura del museo che prevedeva appunto l’uso di riproduzioni fotografiche, cioè di una tecnica di documentazione e di analisi che, pur utilizzando, il Mella non aveva mai preso in seria considerazione, tanto che nella esposizione postuma  dedicata a tutto l’arco della sua attività, curata da G.G. Ferria su incarico di Federico Arborio Mella in occasione dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 – sezione Arte Contemporanea –[21] non compare neppure una fotografia.

Lo scarso interesse locale per la documentazione fotografica dell’architettura è confermato anche in una pubblicazione più tarda: nel 1898 si tiene, sempre a Torino, l’Esposizione Italiana di Arte Sacra; la serie di fascicoli editi in questa occasione presenta al n. 4, dedicato a Vercelli, immagini di diversi fotografi locali impegnati ad illustrare il patrimonio artistico ed architettonico della città: vi compaiono i nomi di Pietro Boeri, Secondo Gambarova, Giuseppe Costa e Pietro Masoero. La scelta dei soggetti privilegia soprattutto le opere della scuola pittorica vercellese, dedicando alla basilica di S. Andrea una sola immagine.[22] Compare nello stesso numero anche un breve articolo dedicato alla Madonna delle Grazie a S. Maria Maggiore  siglato P.M. (Pietro Masoero) che prelude al saggio più ampio dedicato a La scuola vercellese e i suoi maestri pubblicato dallo stesso autore nei n. 34 e 35, prima stesura del testo della conferenza accompagnata da proiezioni luminose che terrà nel 1901 ottenendo vasti riconoscimenti.[23] Ho cercato in una occasione precedente di ricostruire la nascita dell’interesse di Masoero per la scuola pittorica vercellese, basterà ricordare qui che può essere fatta risalire agli stretti rapporti che legavano Masoero ad un collezionista come Antonio Borgogna ma anche al ruolo svolto dall’Istituto di Belle Arti nell’opera di recupero e valorizzazione della “scuola pittorica vercellese”. Ciò che interessa sottolineare è però la scelta operata da Masoero, che dedica la propria attenzione di divulgatore al solo patrimonio pittorico; ancora una volta al monumento più importante  dell’architettura religiosa vercellese, la basilica di S. Andrea, non viene concessa che una semplice immagine; troppo recenti e troppo autorevoli erano gli studi sull’architettura di questo complesso perché qualcuno potesse pensare di affrontare nuovamente il problema.  Solo nel 1901 il canonico Pasté pubblicherà la Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea [24] integrando ed ampliando l’apparato documentario prodotto cinquanta anni prima da Carlo Emanuele Arborio Mella con contributi di altri studiosi e con nuove ricerche archivistiche. A questo saggio storico Pietro Masoero (con lo pseudonimo di Martin Pala) dedicherà una attenta recensione sul giornale “La Sesia”, inserendo quasi di sfuggita una breve annotazione relativa all’architettura, ma dovranno  passare altri sei anni perché l’analisi critica del monumento venga affrontata compiutamente.

Nel 1907 si pubblica il volume su S. Andrea frutto della collaborazione di Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella e Pietro Masoero. Le motivazioni che hanno portato a questa collaborazione, oltre ai temi di carattere generale ricordati in apertura, nascono dalla constatazione che “la nuda esposizione di fatti … da sola non risponderebbe alla dignità del soggetto, ma soprattutto, come ricorda esplicitamente Mella presentando la sezione da lui curata, perché “naturale complemento a quegli studi [deve] essere il racconto delle vicende edilizie dell’edificio stesso; essendo che l’arte è sempre l’espressione più veritiera, anche contrariamente alla volontà degli uomini, dei tempi nei quali ebbe vita.”[25] Ecco allora che “lo studio accurato dell’arte del nostro S. Andrea e del chiostro annesso, in rapporto coll’architettura religiosa del medioevo e nelle sue linee tecniche, parve conferire ad una illustrazione meno imperfetta e più accetta ai lettori. Perrocché è forse anche colpa nostra se le bellezze singolarissime di un monumento che ci è invidiato dai forestieri restarono finora note ad altri piuttosto che ai connazionali”. “Si volle per ultimo che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’ opera un senso di realtà e di vita”. Queste dichiarazioni di intenti si concretizzarono in un apparato iconografico di circa centotrenta immagini (98 fotografie e 31 rilievi) che percorre tutto il testo ed anzi correda prevalentemente la parte dedicata alla ricostruzione delle vicende storiche della abbazia, istituendo una serie di percorsi  paralleli tra dato storico (temporale) ed elemento architettonico (spaziale). Se il saggio storico adotta una sequenza strettamente cronologica, il saggio iconografico adotta una sequenza spaziale che nasce dall’integrazione tra percorso logico-architettonico (planimetria, volumetria) e percorso percettivo, entrambi realizzati per confronto diretto tra rilievo grafico e fotografico: partendo dal prospetto principale la sequenza si sviluppa illustrando il fianco meridionale, l’abside e quindi l’esterno della cupola; la sezione longitudinale dell’edificio introduce quindi la documentazione dell’interno, molto attenta agli elementi strutturali ed all’apparato decorativo, passando poi – attraverso la sala capitolare ed il refettorio – ad illustrare il chiostro ed il lato settentrionale della basilica, che chiude il percorso visivo.

Le fotografie di Masoero, a volte ritoccate in stampa, sono accuratamente impaginate e sovente tagliate per sottolineare gli elementi salienti o per correggere le distorsioni  prospettiche particolarmente evidenti sui bordi della lastra. Per i soggetti più complessi si procede seguendo il criterio ormai consolidato dal generale al particolare, utilizzando diverse riprese a distanza sempre più ravvicinata, ma anche procedendo ad ingrandimenti selettivi della stessa lastra quando le caratteristiche del soggetto ripreso (campanili, cupola ecc.) non consentono di procedere altrimenti. Le riprese, generalmente frontali, adottano a volte un taglio più scorciato per mettere in evidenza il gioco dei volumi, utilizzando con grande accortezza ombre molto marcate, senza però indulgere all’immagine d’effetto, seguendo in questo le precise intenzioni espresse da Federico Arborio Mella, il quale,  presentando l’apparato iconografico, parla di “disegni condotti senza alcun lenocinio di arte, quindi più fedeli ed esatti” e di immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato od alterato da alcun manierismo, la vera parvenza artistica o carattere stilistico”[26]  dell’ edificio.

Il volume, stampato in 600 esemplari, riscosse un buon successo di critica, e come ricordava la pubblicità redazionale contenuta nell’Archivio della Società Vercellese di Storia ed Arte del 1909 “Le 150 illustrazioni geometriche e fotografiche, a giudizio dei periti, non lasciano più nulla a desiderare: quelle completano l’analisi tecnica della basilica e del chiostro, queste danno la visione da terra di tutte le parti”[27],ma il coro di elogi non fu unanime: se “Civiltà Cattolica” definisce il volume illustrato “abbondantemente, anzi sovrabbondantemente, con vedute fotografiche generali e particolari, per ogni aspetto, ogni angolo, ogni minuzia”[28] mostrando di non comprendere la novità dell’impostazione complessiva, anche uno studioso avveduto  come Guido Marangoni, nel suo studio sulla basilica di S. Andrea pubblicato nel 1909, si limita a sottolineare che gli studi di Romualdo Pasté  “dal punto di vista artistico nessuna novella  luce hanno portato sull’interessante argomento. Ed anche Federico Arborio Mella, dedicandosi nello stesso libro allo studio artistico dell’Abbazia e  della Chiesa, si è limitato a raccogliere le varie e disparate opinioni degli autori precedenti, racchiudendosi in poche, timide ed eccessivamente modeste osservazioni personali”[29] senza rilevare il ruolo svolto dai rilievi grafici e fotografici e soprattutto senza ricordare l’opera di Pietro Masoero di cui lui stesso si era avvalso in questa ed altre  occasioni.

Quando viene pubblicata in “Rassegna d’Arte” la prima parte dell’articolo di Marangoni la stampa locale ne dà immediata notizia definendolo “articolo splendidamente illustrato con fotografie in gran parte inedite del nostro Masoero”[30]; l’affermazione non corrisponde al vero, poiché le fotografie che corredano il testo sono le stesse già utilizzate per il volume del 1907, ma dimostra con evidenza (oltre ad un tocco di campanilismo) quale peso avesse assunto la documentazione fotografica nell’economia complessiva dello studio, ciò di cui era del resto ben cosciente lo stesso Marangoni che nella ristampa del 1910 non mancherà di ringraziare Masoero: ” alla sua nota eccellenza di fotografo devo il materiale illustrativo onde questo studio si fregia, al suo  colto e consapevole entusiasmo per i tesori dell’arte autoctona, vado debitore di preziose notizie e di validissimo aiuto “. Per Marangoni era l’impostazione stessa dello studio di Arborio Mella a non essere soddisfacente poiché questi si limitava ad esporre le opinioni precedenti, indulgendo soprattutto, sulla scia degli studi del nonno Carlo Emanuele, all’ipotesi di una matrice inglese per l’architettura del S. Andrea, fermamente confutata da Marangoni, insieme a quelle che proponevano  derivazioni francesi o tedesche, a tutto favore di una rivendicazione dei caratteri sostanzialmente autoctoni dell’opera, basata soprattutto sull’analisi degli apparati decorativi. A questo tipo di analisi è strettamente connessa la scelta dell’apparato illustrativo: assenti i rilievi grafici, anche le viste d’insieme si riducono all’essenziale mentre invece abbondano immagini di capitelli, cornici, pinnacoli a sottolineare la matrice lombarda di questa architettura.

 

 

È questo un uso dell’immagine fotografica decisamente meno interessante di quello rilevato nel volume del 1907; la fotografia diviene semplice illustrazione, la sequenza perde di compattezza e si sfalda, ponendosi all’assoluto servizio del testo. La completezza e la complessità di articolazione della documentazione fotografica verranno invece riutilizzate in una pubblicazione di poco successiva: esce nel 1910 il n. 13 della serie “Italia Monumentale – Collezione di monografie sotto il patronato della «Dante Alighieri» e del Touring Club Italiano” dedicato a Vercelli, in cui un breve testo introduttivo di Francesco Picco accompagna una serie di fotografie di Pietro Masoero prevalentemente dedicate alla basilica di S. Andrea.[31] Qui sono le stesse caratteristiche editoriali della pubblicazione a far prevalere l’apparato iconografico, ancora una volta coincidente con quello utilizzato nel 1907 ma trattato con diversa attenzione: non solo l’ordine della sequenza abbandona la logica architettonica, disciplinare, a favore di un percorso schiettamente percettivo che passa dalla visione del prospetto principale all’interno, articolando poi sulla cupola – cioè sull’elemento anche visivamente emergente – il ritorno all’esterno, ma anche la singola immagine si presenta in modo diverso: scomparsi i tagli e l’ingrandimento selettivo la lastra viene utilizzata nella sua interezza, perdendo in parte l’efficacia dell’analisi a favore di un approccio più descrittivo, didascalico. Sembra quindi che la documentazione prodotta da Masoero non possa essere assimilata ad una vera e propria opera di rilievo, ma che abbia assunto questa veste solo sotto la guida attenta di Federico Arborio Mella. Si pone così il problema di individuare i tempi ed i modi della  realizzazione delle immagini fotografiche.

L’unica fonte a noi nota è costituita dal fondo Masoero conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, costituito da lastre, diapositive ed autocromie prevalentemente dedicate al patrimonio artistico ed architettonico vercellese;[32] il corpus di immagini relative a S. Andrea comprende un centinaio di lastre alla gelatina­bromuro in formati diversi dal 9/12 al 24/30 e due diapositive,  un esterno ed un dettaglio del portale principale, che sembrano costituire l’unico resto del materiale da proiezione utilizzato da Masoero nel corso della conferenza da lui tenuta a Novara la sera del 25 aprile 1909, dedicata alla basilica. Dal confronto tra le lastre e le immagini utilizzate nelle varie pubblicazioni emerge immediatamente un dato interessante: le fotografie pubblicate nella maggior parte dei casi non corrispondono alle lastre a noi pervenute che, anzi, si presentano in più di un caso come prove non perfettamente riuscite delle riprese poi utilizzate in sede di pubblicazione. Il dato pone interrogativi inquietanti, a cui peraltro non sono ancora in grado di rispondere, soprattutto ricordando che per esplicita volontà dello stesso Masoero, prima amministratore e poi presidente del Museo Borgogna, tutto il suo fondo fotografico era stato donato al museo stesso, come ricordano esplicitamente anche i necrologi pubblicati alla sua morte, nel 1934. Il materiale conservato presso il Museo, prescindendo dalla discontinua qualità delle singole immagini, fornisce comunque dati di rilevante interesse, soprattutto perché molte delle lastre sono accompagnate da annotazioni autografe con indicazioni relative a data e tempi di ripresa. L’11 gennaio del 1890 Masoero fotografa per la prima volta la navata centrale e la navata destra, proseguendo poi fino ai primi di marzo con una attenzione particolare per gli interni o per i singoli elementi quali il confessionale del XVII secolo, la tomba dell’abate Tommaso Gallo (sec. XIII) ed il monumento ad Edoardo Arborio Mella del 1889, escludendo quasi del tutto le riprese in esterno che comprendono solo una serie di tre immagini del transetto e di parte della navata ripresi dal chiostro, interessanti soprattutto per ricostruire il suo modo di impostare la documentazione per aggiustamenti progressivi. Fanno parte di questa prima serie di immagini anche alcuni interni con figure in cui la ripresa architettonica lascia il posto ad annotazioni di costume. Non si può quindi ancora parlare di una intenzione chiara e coerentemente sviluppata (almeno a giudicare dal materiale disponibile) ma, come abbiamo ricordato, in questi anni a Vercelli non esistono esempi di documentazione fotografica dell’architettura a cui fare riferimento, certamente non favoriti dalla presenza di uno studioso come Edoardo Arborio Mella.

Le prime riprese di Masoero, all’epoca ancora direttore dello Studio Castellani, nascono da una iniziativa personale, connessa all’interesse nascente per il patrimonio architettonico ed artistico della città in cui risiedeva, e forse anche alla progressiva conoscenza dell’ opera di altri fotografi piemontesi. L’esempio di Secondo Pia, premiato nel 1890 per la sua opera di documentazione, dovette certamente indurlo a proseguire l’opera di documentazione, impostandola con nuovi criteri di organicità e completezza: nel giugno del 1892 Masoero apre il proprio studio in via Caserma di  Cavalleria al n. 1, dedicandosi soprattutto al ritratto, e circa un anno dopo, dal 20 marzo al 19 aprile del 1893, fotografa la chiesa con lastre 18/24 rilevandone prospetti, interni e dettagli, ritornando sui soggetti fotografati tre anni prima. I dati di ripresa scrupolosamente annotati (pratica del resto comune ad altri) mostrano la preoccupazione di produrre immagini prospetticamente corrette che rendano compiutamente la volumetria dell’intero complesso, fotografato più volte con obiettivi diversi, impiegando il grandangolare solo in casi eccezionali, quando le condizioni di ripresa non consentono alternative. La campagna fotografica del 1893 risulta essere la più completa (altre immagini vennero realizzate ancora nel 1896 e nel 1899 in modo certamente più occasionale e saltuario)[33], ma rimarrà inutilizzata ancora per molti anni e probabilmente sconosciuta  anche in ambito locale se l’unica immagine di S. Andrea presente nel già ricordato fascicolo di “Arte Sacra” del 1898 si deve a Giuseppe Costa. L’attività fotografica di Masoero, che pure in quegli anni riceverà una significativa serie di riconoscimenti, era caratterizzata dalle sue note capacità di ritrattista e, in ambito più strettamente professionale, dalle iniziative sostenute a favore della costituzione di scuole di fotografia, mentre si andava consolidando la sua fama di divulgatore e di studioso della scuola pittorica vercellese. La documentazione dell’architettura della basilica di S. Andrea, che pure per quasi vent’anni costituirà uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, viene lasciata in secondo piano, per essere ripresa solo nel 1907 quando, dietro lo stimolo di Federico Arborio Mella, Pietro Masoero tornerà per l’ultima volta  fotografare la chiesa, con lastre di grandi dimensioni (24/30), attento soprattutto ad “evitare un pericolo … di cadere nel manierato … Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni … L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità”.[34]  Per Masoero, appassionato studioso della pittura vercellese, la fotografia di architettura non era che un documento.

 

Note

 

 

[1] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907. In seguito citato come PMM.

 

[2] Daniela Biancolini,  Carlo Emanuele Arborio Mella (1783­1850), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980,  voI. III, p. 1387.

 

[3] Carlo Emanuele Arborio Mella, Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli. Torino: Lit. Giordana, 1856.

 

[4] Edoardo Arborio Mella, Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli. Torino: Stamperia Reale di G.B. Paravia e C.,1881.

 

[5] Anna Maria Rosso, Il fondo disegni di Edoardo Arborio Mella conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli,  in

Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti  – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 67-75.

 

[6] Lucetta Levi Momigliano, La Giunta di Antichità e Belle Arti,  in Cultura figurativa e architettonica 1980,  vol. 1, pp. 386-387.

 

[7] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1897 in Edoardo Arborio Mella 1985  pp. 149­-158.

 

[8] Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli, Pubblicità di fotografi. Il verso della carte de visite porta, oltre all’intestazione dello studio, una veduta della basilica di S. Andrea.

 

[9] Istituto di Belle Arti di Vercelli, Fondo Mella. Il fondo proviene dal lascito di Federico Arborio Mella: “Lascio pure al suddetto Istituto di Belle Arti tutta la raccolta di disegni del compianto mio padre, quella di riproduzioni fotografiche di monumenti, di quadri, di statue”,  cfr. A.M. Rosso, il fondo disegni, op. cit., p. 67.

 

[10] Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p. 55. A Vittorio Besso si deve anche lo splendido Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani” del 1868, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, che gli valse una medaglia all’Esposizione di Vienna del 1873.

 

[11] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura,  in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

[12] I Esposizione Italiana di Architettura: Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L. Roux e C., 1891, p. 49. Si veda anche Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981.

 

[13] Cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale, 1986. Una più ampia traduzione del brano di Ruskin è riportata a p. 16.

 

[14] Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p. 278. Non mancavano però le critiche rivolte all’uso indiscriminato della fotografia nella pratica architettonica. Si veda in proposito Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p. 18: ” non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano … Quello che riesce di maggiore giovamento all’ educazione artistica dell’architetto è il paziente e intelligente rilievo fatto sul sito”.

 

[15] Becchetti 1978, p. 126.

 

[16] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977 p. 27, Tav. XXIV.

 

[17] Françoise Heilbrun, Charles Nègre et la photographie d’architecture,  “Monuments historiques, Photographie et Architecture”, 1980, n. 110, p. 18. Per ulteriori informazioni sui rapporti tra tutela e documentazione fotografica in Francia si veda Françoise Bercé,  Les premiers travaux de la Commission des Monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

 

[18] Liliana Pittarello: La posizione di Edoardo Arborio Mella all’interno del dibattito ottocentesco sul restauro , in Cultura figurativa e architettonica 1980, vol. 2, p. 768.

 

[19] Luigi Bruzza: storia, epigrafia, archeologia a Vercelli nell’Ottocento, Guida alla mostra. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984.

 

[20] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero,1887, p.1.

 

[21] Esposizione Genera1e Italiana di Torino 1884: Arte contemporanea Catalogo Ufficiale. Torino: Unione Tipografica Torinese, 1884, p. 114. L’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria aveva presentato nel luglio del 1883 una memoria Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia poi pubblicata in “Atti della Società degli Ingegneri e degli Industriali di Torino”, 17 (1883). Torino: Tip. Salesiana, 1884, pp. 43-48, che viene unanimemente considerato il primo studio italiano di fotogrammetria. Gli interessi di Ferria non sembrano aver influito sulle opinioni di Federico Arborio Mella relative all’uso della documentazione fotografica dell’architettura; un riferimento più concreto, forse un modello, potrebbe invece essere individuato nella monumentale opera dedicata alla Basilica di S. Marco edita da Ferdinando Ongania a Venezia, di cui l’Istituto di Belle Arti di Vercelli possedeva una copia.

 

[22] “Arte Sacra”, Torino, n. 4, 1898, numero monografico dedicato a Vercelli.  La basilica di S. Andrea era già compresa nel catalogo Alinari. Cfr. Liguria, Piemonte, Lombardia. Vedute, bassorilievi, statue, quadri, affreschi ecc. Riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari.  Firenze: Tip. G. Barbera, 1899. Le immagini della basilica, nn. 15877-15881, comprendevano esterno, facciata, abside, interno, confessionale del XVII secolo.

 

[23] Antonio Taramelli, Per la diffusione della cultura artistica , “L’Arte”, 6 (1901), pp. 212-213: “Prima di lasciare il Piemonte debbo ricordare come alcuni studiosi abbiano cercato di aiutare la diffusione della cultura artistica col mezzo di conferenze illustrate da proiezioni di fotografie. Debbo ricordare a titolo d’onore, quella del sig. Masoero di Vercelli, che a Torino ed a Firenze, espose una brillante serie di sue fotografie illustranti la pittura de’ Vercellesi”. Si veda anche P. Cavanna: Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 19895), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano, , Milano, Electa, 1985, pp. 150-154.

 

[24] Romualdo Pastè, Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli nel periodo medioevale 1219-1466, “Miscellanea di Storia Italiana”, Serie III, Tomo VII. Torino: Bocca, 1902, pp. 345-458. Questo studio era stato recensito da Masoero in “La Sesia” del 17 settembre 1901.

 

[25] Federico Arborio Mella in PMM 1907, p. 439. L’affermazione richiama il concetto di “Documento/Monumento” espresso da Jacques Le Goff in anni recenti.

 

[26] Ivi, p. 489, sottolineatura nostra. Sono ormai lontani i tempi in cui Pietro Selvatico pensava che la fotografia offrisse “le esatte apparenze della forma”. Pietro Masoero, sempre molto attento ai problemi posti da un uso corretto della strumentazione fotografica, aveva redatto uno studio relativo a La dilatazione dei supporti positivi, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp. 74-78.

 

[27] “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 1 (1909), n. 3-4.

 

[28] “La Sesia”, 27 settembre 1908.

 

[29] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli,  “Rassegna d’Arte”, 9 (1909), n. 7, pp. 122­126; n. 8/9, pp. 154-158; n. 11, pp. 180-186. I tre articoli vennero riediti in Guido Marangoni, Il bel Sant’Andrea di Vercelli Note ed appunti critici. Milano:  Alfieri & Lacroix, 1910. Il giudizio sul volume collettivo del 1907 è alla p. 12 di questa edizione. La volontà di compilare una semplice rassegna degli studi critici precedenti era stata palesemente espressa da Federico Arborio Mella: ” Mi asterrò nel mio scritto … da ogni giudizio mio personale; essendo unico mio scopo quello di mostrare il S. Andrea quale fu nei tempi passati e quale è oggi; illustrandolo coi giudizi e colle opinioni di quanti io conosco essersi proposto ad oggetto degli studi loro il nostro monumento” (Cfr., PMM, op. cit., p. 439). Ma in almeno un’occasione non può esimersi dal formulare la propria opinione, criticando proprio l’intervento del padre che nel 1850 aveva realizzato gli altari della cappella di S. Carlo e di S. Francesco di Sales “in uno stile archiacuto tedesco del secolo XIV” impiegando “un unico materiale bianco “. Ormai si sono fatta strada i nuovi concetti di restauro propugnati da Camillo Boito e da Alfredo d’Andrade e le teorie di Viollet-le-Duc sono state abbandonate. “Sarebbe stata certamente ottima cosa che il monumento ci fosse pervenuto integro anche in quelle parti, che dal punto di vista architettonico si possono ritenere accessorie … ” conclude amaramente Federico Arborio Mella (ivi, p. 487).

 

[30] “La Sesia”, 25 luglio 1909.

 

[31] Francesco Picco, Vercelli, con “Sessantaquattro illustrazioni fornite dallo Studio fotografico del Cav. Pietro Masoero/Vercelli”. Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[32] Il fondo fotografico, pervenuto al Museo Borgogna per lascito dello stesso Masoero, giace per ora scarsamente utilizzato ed in precarie condizioni di conservazione. Le lastre sono in parte conservate nelle loro confezioni originali, corredate da annotazioni autografe, ma prive di protezioni contro luce, polvere ed umidità, tanto che in numerosi casi l’emulsione tende a staccarsi dal supporto, soprattutto ai bordi. Una prima parziale schedatura del fondo, relativa alle riproduzioni delle opere di Bernardino Lanino, è stata realizzata in occasione della mostra del 1985. Cfr.  Laura Berardi, P. Cavanna, Elenco ragionato delle fotografie di Pietro Masoero relative all’opera di Bernardino Lanino. Per ulteriori notizie sulla storia e sulle importanti collezioni del museo si veda Laura Berardi: Il Civico Museo Borgogna ­Vercelli.  Milano: Federico Garolla, 1985.

 

[33] Pietro Masoero,  Il sepolcro dell’abate Gallo in S. Andrea. 14 gennaio 1899 dalle 11.40 alle 12.30, Lastre Orto Cap. [Ortocromatiche Cappelli] da 2 mesi almeno nel chassis, diafr., temo posa (7) “. Vercelli, Museo Borgogna, Fondo Masoero, Scatola 14, lastra 18/24.

 

[34] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171.

Andrea Tarchetti, fotografo dilettante (1990)

 in Andrea Tarchetti notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo  Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990, pp.   19-45

 

Fotografi a Vercelli

Il vercellese “Vessillo della libertà” nel numero del 27 settembre 1860 cita per la pri­ma volta lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, senza indicarne la localizzazione, mentre pochi anni dopo, nel 1863, lo stesso periodico riporta la notizia che il fotografo “ha aperto or ora un elegante e comodissimo laboratorio sull’ameno Viale dei Tigli”.[1] Sono queste le prime notizie relative alla presenza di uno studio fotografico in città, né pare che vi fossero presenze precedenti ora dimenticate se lo stesso “Vessillo”, nel ricordare l’apertura del nuovo studio, sottolinea come “non si senta più il bisogno di ricorrere al di fuori per avere ritratte le nostre sembianze o quelle delle persone che ci sono care”.

Mancano per Vercelli – almeno sino a questo momento ed in attesa che venga portata a termine l’indagine sui Fondi Fotografici Locali – indicazioni relative ai primi anni di diffusione della tecnica fotografica, in particolare della dagherrotipia, quali invece risultano disponibili ad esempio per Biella, dove già dai primi anni ’40 sono operosi alcuni dagherrotipisti, per ora anonimi, mentre nel decennio successivo si registra la presenza di autori quali Fortin, forse un fotografo itinerante di origine francese, Bernardi e infine Adolfo, attivo anche a Torino prima di trasferirsi a Roma nel 1848.[2] La ritrattistica risulta essere l’attività prevalente dei primi operatori, sia a Biella sia ­più tardi a Vercelli, e solo dai primi anni ’60 si registra la presenza di fotografi attivi anche nel campo della documentazione d’arte e di architettura: se a Biella emerge la figura di Vittorio Besso, che apre il proprio studio nel 1859, a Vercelli è Giuseppe Co­sta, titolare di uno “Studio di Pittura e Fotografia” aperto forse poco oltre il 1862, ad occuparsi per primo di documentazione del patrimonio artistico, alternando l’attività di fotografo a quella di titolare della cattedra di Elementi presso l’Istituto di Belle Arti, a cui si devono aggiungere alcune collaborazioni con Edoardo Arborio Mella quali, in particolare, la realizzazione delle parti a figura durante i restauri della chiesa di San Francesco nel 1868.[3]

Allo stesso Costa si deve anche la prima realizzazione di una campagna fotografica espressamente dedicata alla documentazione del patrimonio artistico, che porta alla realizzazione di un album Ricordo dell’inaugurazione della Cappella di S. Eusebio, realizzato nel 1882, recentemente ritrovato nei fondi della Biblioteca Civica di Vercel­li, che documenta il rifacimento dell’apparato decorativo della cappella del Duomo ad opera dei pittori Francesco Grandi e Carlo Costa, fratello del fotografo.

Alla documentazione della città si dedica invece Federico Castellani, titolare di un avviato studio ad Alessandria in collaborazione col padre Luigi, operoso anche a Vercelli a partire dai primi anni ’70, il quale realizza nel 1873 un Album delle principali ve­dute edifizi e monumenti della città di Vercelli che non comprende però alcuna docu­mentazione del patrimonio pittorico, come sottolinea un articolo del “Vessillo d’Ita­lia” del giugno dello stesso anno in cui l’articolista, rivolgendosi a Castellani, ricorda come “Le opere di Gaudenzio e quelle di Lanino sparse nella nostra città invitano al­tresì la vostra camera oscura: invocano anche quella del vostro valente collega e pittore Giuseppe Costa e voi provvedete ambedue ad appagare il desiderio.”[4] Il tono dell’ articolo lascia supporre una campagna di documentazione ormai in atto e parzialmente nota ma si deve rilevare come a tutt’ oggi non ne sia stata riscontrata traccia. Solo nel 1886 il fotografo Pietro Boeri (già titolare di uno” Studio di Fotografia e Pittu­ra”) realizza, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, un album dedicato agli “Af­freschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli”, realizzato ve­rosimilmente sulla scia delle celebrazioni del IV centenario della nascita dell’artista, che risulta localmente un esempio insuperato di documentazione e lettura fotografica di un ciclo pittorico.

Negli anni ’80 risultano quindi presenti a Vercelli gli studi di Giuseppe Costa, di Federico Castellani e la “Fotografia Nazionale” di Boeri-Valenzani; probabilmente chiuso è ormai lo studio di C. Fontana, mentre per ora non è possibile sapere se fossero ancora in attività l’antico studio di Pietro Mazzocca e quello di Giuseppe Ferrero dei quali per altro non si conosce la produzione. Proprio nel 1880, proveniente da Alessandria, giunge a Vercelli Pietro Masoero impiegato dapprima come apprendista e quindi come direttore dello studio Castellani, per cui lavorerà sino al 1892, anno in cui apre il pro­prio studio nella casa Tricerri. La figura di questo fotografo risulta ormai sufficiente­mente delineata[5] perché qui se ne debba ulteriormente definire il ruolo; resta da sot­tolineare però come al suo impegno pubblico in campo fotografico quale segretario del primo Congresso Fotografico Italiano (Torino, 1898) e poi membro dei Comitati orga­nizzatori dei due successivi congressi di Firenze (1899) e Roma (1911) si debba una rinnovata attenzione in sede locale per le problematiche connesse alla fotografia, che si traduce immediatamente in una notevole diffusione della pratica dilettantistica.

 

Il dilettante fotografo

Riprendendo in parte il titolo di un volume edito a Torino nel 1890, autore il marchese Dionigi Arborio di Gattinara, Masoero pubblica nel 1901 sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” il Decalogo del dilettante fotografo[6], tema a cui dedica anche la conferenza dal titolo Arte e beneficenza, tenuta al Teatro Civico di Vercelli il 26 aprile 1902, per la quale Ambrogio Alciati disegna il biglietto d’ingres­so, pubblicata l’anno successivo a Firenze da Salvatore Landi, il tipografo del “Bullet­tino”[7].

La conferenza, che significativamente cade nel periodo di apertura della Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica annessa alla Prima Esposizione di Arte Decorati­va e Moderna di Torino, precede la proiezione di centossessanta diapositive realizzate da numerosi dilettanti vercellesi, di cui il giornale “La Sesia” fornisce un elenco par­ziale: Virginio Locarni, Vittorio Petterino, Nerina Masoero (tutti presenti anche all’E­sposizione torinese), il marchese Arborio di Gattinara, Vincenzo Canetti, Secondo Gambarova, Giuseppe Tavallini, Giulio Cesare Faccio, Andrea Tarchetti ed altri. Le immagini che costituiscono la proiezione, non reperite, hanno titoli quali “ultime luci”, “tramonto”, “nubi vaganti”, “effetto di neve”, “pecorelle” e simili, propri della voga allora imperante della fotografia pittorica o artistica, “quella che sola me­rita il nome di “Arte”[8], fenomeno culturale multiforme e contraddittorio, rifiutato in blocco e quasi rimosso dalla critica e dalla storiografia. fotografica sino ad anni molto recenti[9], che ha invece costituito, seppure confusamente, la prima occasione, il primo momento di riflessione sullo specifico fotografico, sintetizzabile appunto nella questio­ne “se la fotografia sia un’arte o non sia”, secondo l’espressione usata da Enrico Tho­vez in uno degli articoli di commento alla Esposizione di Torino del 1898, in cui per la prima volta in Italia la fotografia artistica era ospitata in un’apposita criticatissima sezione.[10]

Al problema posto da Thovez, corredato da un’analisi molto attenta delle caratteristiche dell’immagine fotografica che gli consente di affermare che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero” e, in quanto tale, può fornire “non una riproduzione, ma una vera interpretazione, per quanto involontaria, della realtà” possiamo accostare le opinioni espresse nello stesso anno da Masoero[11], verosimilmente avendo in mente le stesse immagini che hanno stimolato le riflessioni di Thovez. Dopo aver riassunto sinteticamente i temi più consueti del dibattito, già a questa data ampiamente discussi e ripetuti, stancamente ripresi poi da numerosissimi autori per tutto il periodo precedente il primo conflitto mondiale, Masoero afferma risolutamente: “per parte mia la questione se la fotografia è un’arte o no, mi è sempre parsa di nessun valore [poiché] se la fotografia è suscettibile di afferrare e rendere gli aspetti della natu­ra con potenza e verità allorquando è con abilità maneggiata, non è per avere una natu­ra artistica in sé, ma perché risiede in chi di lei si serve; tanto è vero che per pretendere a delle forme artistiche è obbligata ad assumere delle apparenze che non sono sue . Essa è un’arte che deve evitare un pericolo, essa che è la manifestazione più pura del vero, di cadere nel manierato. E manierati, checchè si dica, sono tutti questi nuovi prodotti artistici, perché abbagliati dal mezzo, dalla forma dell’ opera, perdono di mira la parte principale del loro compito: il vero … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”.

Il rifiuto delle tecniche di manipolazione in stampa non potrebbe essere più netto, ma l’opinione di Masoero è in questi anni sostanzialmente isolata, povera di riscontri nella pratica fotografica corrente; ormai la Naturalistic Photography di Emerson si è trasfor­mata per i più in Fotografia Artistica[12] in cui come “in ogni opera d’arte, se tale vuo­le chiamarsi, è necessario che il carattere della mano dell’artefice si manifesti chiaro ed evidente … perché l’essere soggettiva è in aperto contrapposto coll’obbiettività in­trinseca generale della fotografia; … la macchina fotografica, se riproduce fedelmente le immagini che le sono dinanzi e spinge la sua esattezza scrupolosa nella ricerca di particolari che all’occhio sfuggono, non può riprodurre sempre quel sentimento pro­fondo che molte volte spira in un soggetto e che lo fa amare da chi lo riproduce … Ma quando l’immagine riprodotta riesce ad acquistare ed a trasfondere in chi la vede, quel sentimento che la rese cara all’operatore, allora realmente il fotografo può dire d’aver fatta arte colla fotografia … Se a questa riproduzione l’autore aggiunge la sapienza tec­nica del metodo di stampa, da accrescerne l’effetto voluto, sia usando procedimenti co­me la gomma, il carbone o la fotocollografia, oppure interponendo tele o veli fra la negativa e la carta o la lastra da stampare, allora egli potrà ottenere dei risultati che per grazia o sapore nulla avranno da invidiare a delle vere e proprie opere d’arte.”[13] La lunga citazione, che racchiude e riassume il nuovo credo estetico, porta la firma autorevole di Arturo Alinari, nipote del fondatore della più nota dinastia italiana di fo­tografi, e mostra chiaramente quale divario esistesse tra la pratica fotografica profes­sionale e l’attività dei dilettanti, i veri protagonisti di questa stagione del gusto fotogra­fico. “La fotografia artistica, s’intende, non può fare appello a un commerciante … dunque è ai dilettanti che essa si rivolge con tutte le sue risorse, con tutte le sue incogni­te, con tutte le sue promesse.”[14]

Con essa compare nella fotografia italiana, in modo massiccio, il motivo, la scena, l’immagine stereotipa mutuata dalla coeva produzione pittorica; se per tutto l’Ottocen­to è proprio nell’assenza del ‘motivo’ “la novità, anche se riduttiva e freddamente tecnica,della fotografia italiana, che non dipende dalla pittura, anzi se ne distingue net­tamente”[15], col nuovo secolo la situazione si ribalta e la ‘pittura’, intesa sinonimicamente come arte, diviene il modello indiscusso, il termine di paragone, la pratica di riferimento. In un confronto esplicito con essa si gioca la riflessione sull’ estetica fo­tografica, sebbene i commentatori più accorti neghino credito a quello che sarà poi de­finito “combattimento per un’immagine”. Mario Tamponi, in un articolo di data or­mai tarda (1909) pubblicato in “La Fotografia Artistica” che assume quasi il tono di una riflessione, di un riesame, afferma: “Noi non abbiamo voluto, come molti credo­no, rivaleggiare colla pittura e batterla, né abbiamo voluto imitarla sotto altro punto di vista che sotto quello del criterio artistico di chi lavora alla composizione del qua­dro … La fotografia artistica è dunque cosa ben diversa da ciò che si intende sotto il nome di fotografia; essa è quell’arte che mettendo a suo profitto alcune proprietà o pos­sibilità della fotografia, tende a fini artistici, cioè a dire, tende alla produzione di quadri o composizioni artistiche”[16].

Se il confronto è con la pittura e se questa trova nella manualità il proprio strumento espressivo allora tutto quanto di meccanico risiede nel processo fotografico va posto in secondo piano, sminuito; la produzione di immagini “fotografiche” viene sottopo­sta ad una dissociazione schizoide, si instaura una cosciente dicotomia tra matrice ne­gativa, prodotto asettico di un processo ottico-chimico-meccanico, e stampa positiva, la sola a cui venga riconosciuto lo statuto di immagine, prodotto della creatività manua­le del fotografo artista. Ancora Tamponi sottolinea come “la negativa ben difficilmen­te è perfetta; vi è da togliere, da aggiungere, da oscurare, da illuminare, da tagliare, ma più di tutto da togliere … Una negativa racchiude quasi sempre pur troppo una nega­tiva artistica, cioè presenta troppi particolari; bisogna togliere le cose inutili, avvicina­re al centro l’oggetto a cui si vuole dare importanza, togliere troppi particolari che af­fievoliscono l’idea della suggestione artistica, e aggiungere qualche volta alcun’altra cosa che può essere necessaria. Tutto ciò, m’affretto a dirlo, quasi senza ricorrere al ritocco della negativa”[17].

Si riconoscono i segni, in queste riflessioni modeste, di un idealismo di maniera, che vive dei lontani riflessi di una concezione del fare artistico che affonda le proprie radici nella tradizione rinascimentale, incapace di analizzare compiutamente la novità costi­tuita dalla tecnica fotografica, modellato rigidamente sulle valutazioni espresse pochi anni prima dall’Estetica crociana, dove il filosofo riflette, marginalmente e senza offri­re contributi di rilievo, sull’eterna questione che aveva occupato pagine e pagine delle riviste fotografiche: “Persino la fotografia – afferma Croce – se ha alcunché di artisti­co, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere. E, se non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno inelimi­nabile e insubordinato: e infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? “[18]

Andrea Tarchetti

Poco sappiamo sino ad ora della sua vita: nasce a Stroppiana il 10 febbraio del 1854 da Giuseppe e Caterina Grignolio; la famiglia si trasferisce però ben presto a Vercelli, certo prima del 1864, anno in cui nasce la secondogenita Teodolinda, a cui seguiranno Luigi, Margherita e Giovanni. Il primogenito Andrea, seguendo le orme paterne ab­braccia la carriera notarile per entrare quindi in magistratura, divenendo Procuratore Capo al Tribunale Civile di Vercelli; “la sua voluta modestia che sempre lo tenne lon­tano dalla vita pubblica” come recita il necrologio pubblicato su “La Sesia” del 28 dicembre 1923, quattro giorni dopo la sua morte, impedisce di seguire più a lungo le tracce della sua vicenda biografica e di delineare meglio la sua figura, certo nota in città se le esequie celebrate il giorno di Santo Stefano risultano una “imponente mani­festazione funebre” a cui partecipa col proprio gonfalone anche la Congregazione di Carità, mentre l’orazione viene letta dall’avvocato Francesco Ferraris.

Ancora “La Sesia” ricorda che egli “fu anche animo di artista e come dilettante fotografo si ricordano di lui dei lavori, paesaggi, quadretti di genere, illustrazioni di avve­nimenti, documentazioni grafiche di antichi edifici scomparsi, che erano delle piccole opere d’arte”. La descrizione, per quanto sintetica, non si rivela un compito d’occasio­ne ed appare oggi precisa e circostanziata, segno di una buona diffusione almeno locale delle immagini del notaio Tarchetti, fotografo dilettante. Nulla risulta invece a proposi­to delle circostanze che hanno portato al deposito della maggior parte della sua produ­zione fotografica nei fondi del Museo Borgogna, sebbene si possa supporre che essa derivi da una precisa sua volontà, come dimostrerebbe la presenza sia delle stampe de­finitive sia dei negativi e di alcuni clichè tipografici da questi ricavati, mentre l’altro consistente fondo locale di immagini di Tarchetti, conservato alla Biblioteca Agnesia­na, proviene – come ricorda Mimmo Vetrò nel saggio in catalogo – da una donazione di Ernesto Gorini che le aveva acquistate dal fratello di Tarchetti, Giovanni, agli inizi degli anni ’60, ed è costituito da sole stampe fotografiche.

La sua attività di fotografo, almeno per quanto è possibile ricostruire sulla base dei ma­teriali conservati presso il Museo Borgogna, inizia negli ultimi anni del XIX secolo al­ternando immagini di paesaggio (Il lago di Viverone, la Valtournanche) ad occasioni maggiormente legate alla cronaca degli avvenimenti cittadini, ma certamente i temi che maggiormente lo affascinano, a cui dedicherà sin dal principio la sua attenzione, sono quelli propri della fotografia artistica, come risulta dalle due immagini comprese nella proiezione organizzata nel 1902 (verosimilmente la sua prima presenza pubblica) Ef­fetto di neve e Sant’ Andrea,  influenzata forse quest’ultima dalla campagna di rile­vamento del principale monumento vercellese che Pietro Masoero conduceva in quegli anni e che avrebbe portato nel 1907 all’edizione del volume dedicato alla basilica, rea­lizzato in collaborazione con Romualdo Pasté e Federico Arborio Mella.

Proprio a Masoero, che nel 1900 era stato delegato al Congresso Fotografico di Parigi con Rodolfo Namias, fondatore della rivista nel 1894, si deve forse la presenza delle opere di Tarchetti sulle pagine de “Il Progresso Fotografico / Rivista mensile di foto­grafia scientifica e pratica” che ancora oggi si pubblica a Milano sotto la direzione del figlio del fondatore, Gian Rodolfo Namias[19], presenza che permane costante per cir­ca un decennio e porta complessivamente alla pubblicazione di circa 100 immagini. Nel numero di dicembre dell’anno 1904 sono citate per la prima volta fotografie di Tar­chetti, non reperite, che saranno comprese nel supplemento” Arte Fotografica” per il 1905: Sulle rive del Sesia e Arriva il babbo stampate in fotocalcografia mentre Una partita interessante, fotografia di Tarchetti dipinta da Valeria Josz di Milano, viene stampata in tricromia, come accade anche l’anno successivo per una Marina. La presenza di proprie immagini sul prestigioso supplemento costituisce certo un rico­noscimento importante per il dilettante vercellese, di cui si riconosce che “i lavori … sono come sempre ispirati da un gran buon gusto e conformi alle esigenze della tec­nica. L’avv. Tarchetti è un gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce tal­volta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto. L’avv. Tarchetti ci ha inviato i suoi lavori fuori concorso avendo già avuto la prima onorifi­cenza lo scorso anno nel nostro concorso.”[20] Questo commento, datato 1906, forni­sce una prima messa a punto dell’attività di Tarchetti: i temi più frequenti sono costituiti dalle “scene di vita” , cioè da immagini che ricorrendo alle possibilità concesse dalle nuove emulsioni rapide al gelatino-bromuro d’argento, pretendono di essere “istanta­nee” pur non riuscendo ancora a nascondere, per imperizia, il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli “attori”. Ciononostante le fotografie di Tarchetti risultano vincitrici sia del concorso indetto dalla rivista sia di quello indetto dalla Ditta Fumagalli di Milano, editrice di cartoline in parte utilizzate anche da “Pro­gresso” quale servizio per i propri abbonati.[21]

L’organizzazione artificiosa degli attori in scena non risulta comunque così evidente come potrebbe apparire dalle osservazioni sopra riportate o meglio non caratterizza univocamente tutte le immagini: se alcune di quelle riprodotte in cartolina, oggi com­prese nella collezione Peraldo, non sfuggono a tale artificiosità, denunciata persino in titoli quali Partiamo!, Primi servizi o Nonna solerte, le fotografie pubblicate sulle pagine della rivista, certamente selezionate da un occhio esercitato e attento, co­stituiscono ormai delle prove soddisfacenti in cui l’indagine del mondo contadino sem­bra staccarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica per mettere a frutto almeno in parte le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico.

La fama acquisita sulle pagine della rivista milanese si riflette anche nell’ ambiente cit­tadino, come mostra il commento de “La Sesia”[22] alla sezione fotografica della Esposizione organizzata dall’ Associazione “Pro Emigratis” che si tiene nei locali del nuovo asilo Umberto I dal 19 al 29 maggio del 1906: tra i pochissimi fotografi presenti (“Non molto copiosa ma interessantissima la mostra fotografica”) al solo Tarchetti, autore di “una serie di istantanee e vedute panoramiche”, viene riconosciuta la “bella fama di dilettante valente”, di lì a poco impegnato – crediamo – in una revisione pro­fonda del proprio lavoro e soprattutto del proprio atteggiamento nei confronti degli “attori” con cui compone le “scene di vita”, protagonisti in quegli stessi giorni delle lotte per la conquista delle otto ore che dilagano in tutto il vercellese. Il 30 di maggio infatti “un altro gruppo (di mondine) con la bandiera bianca e rossa, ripeté la dimostrazione e si portò alla Camera del Lavoro … quindi al municipio e alla sottoprefettura”[23] ed il giorno successivo la cavalleria carica i dimostranti sulla strada per Olcenengo. Tarchetti dedica a questi avvenimenti una breve sequenza di tre imma­gini (Sciopero), mai pubblicate su alcuna rivista fotografica, in cui lo sguardo affa­scinato con cui riprende il corteo delle donne molto deve alla struttura iconografica de Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, esposto per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902.

Non sappiamo quanto profondamente, nella realtà, l’inattesa tra­sformazione degli umili contadini in gruppo sociale con una precisa coscienza di classe, abbia mutato la percezione del mondo rurale in un personaggio quale Tarchetti, ma è innegabile il riconoscimento di una trasformazione nel modo di scegliere i temi e comporre le immagini che caratterizza gli anni successivi al 1906, sebbene il quadro di riferimento complessivo continui ad essere costituito da una produzione tendenzial­mente ‘artistica’ che trova le proprie radici tematiche ed espressive nella tradizione pittorica del secondo Ottocento italiano. “Questo valentissimo dilettante – recita una nota critica del 1907 – ci ha ormai abituato ai paesaggi animati trattati da maestro e che strappano esclamazioni ammirative anche ai pittori. Come sempre anche questa volta, si distingue, per la rara abilità con cui sa cogliere i motivi della vita nelle città, nelle strade, nei campi, ottenendo sempre dei veri quadri, dimostrando quanto sia vi­vissimo in lui il desiderio di perfezionare il suo lavoro, tenendo conto delle nuove con­quiste senza giungere alle esagerazioni di certa arte fotografica che oggi per alcuni co­stituisce il non plus ultra, ma che si potrebbe chiamare incomprensibile per chi non è arrivato nell’arte a simile pretesa evoluzione.[24]

La polemica su “certa arte fotografica” che ricorre quasi esclusivamente alla stampa ai pigmenti, risulta essere decisamente pretestuosa sulle pagine di una pubblicazione quale “Il Progresso Fotografico” che propugna, per bocca del suo direttore Namias, il ricorso ai processi alla gomma bicromatata coi quali “si fa strada l’intervento del sentimento e gusto artistico dell’operatore nella produzione della copia positiva”[25] e sembra essere destinata ad aprire la polemica con “La Fotografia Artistica”, la nuova prestigiosa rivista internazionale pubblicata a Torino a partire dal 1904 da Annibale Cominetti, vercellese di origine[26], unanimemente considerata la pubbli­cazione culturalmente più avanzata del panorama fotografico italiano di quegli anni; la sola in grado di poter essere confrontata con la mitica “Camera Work” fondata da Stieglitz a New York l’anno precedente, a cui del resto la rivista torinese più o meno esplicitamente si rifaceva, propugnando la causa comune della “fotografia come stru­mento di espressione individuale”, di cui presenta almeno nei primissimi anni, un pa­norama ampio e variegato di autori e correnti anche profondamente diverse tra loro, che vanno dalle immagini di derivazione simbolista di Puyo, Demachy o Marchi per l’Italia, ai “quadri religiosi” di Riccardo Bettini, di cui il primo fascicolo del 1905 offre un allucinante La Trasfigurazione, alle stampe alla gomma di Luigi Cavadini, già presente ne “Il Progresso Fotografico” , che diviene uno dei più assidui collabora­tori della rivista sia come titolare della calcografia veronese da cui escono alcune delle tavole fuori testo che corredano la pubblicazione sia quale autore di immagini, special­mente vedute e paesaggi, marcate a volte da un sentimentalismo esasperato.[27]  Corredano questo variegato apparato fotografico, arricchito da riproduzioni delle ope­re esposte nelle più importanti mostre d’arte quali la Quadriennale di Torino e la Bien­nale di Venezia, articoli di diverso impegno e levatura, alcuni per così dire di carattere eminentemente teorico, di estetica, altri di taglio manualistico, dedicati all’analisi delle basi della fotografia artistica, nel tentativo di mettere a punto una tecnica dell’estetica in grado di per sé di garantire il raggiungimento di elevati traguardi artistici o forse ritenendo che il pubblico di dilettanti a cui essi sono rivolti sia sostanzialmente digiuno anche delle più elementari nozioni di tecnica fotografica, negando così implicitamente il carattere elitario che la rivista pretende di avere. Diversamente da quanto accade sulle pagine del periodico milanese le “scene di vita” pubblicate ne “La Fotografia Artistica” risultano molto più evidentemente costruite, con scelta accurata della posa, controllo minuzioso delle luci in ripresa e virtuosistico uso delle più varie tecniche di stampa, manifestazioni queste di un concreto ed evidente intervento dell’ autore che proprio nella sapienza delle manipolazioni mostra le proprie potenzialità espressive di artista, in grado di “modificare l’immagine secondo il pro­prio sentimento”. Poiché in realtà non sono certo i temi ed i soggetti prediletti a distin­guere gli autori presenti nelle pagine delle due riviste, che anzi – soprattutto a partire dal 1907 – diventano relativamente intercambiabili sino ad operare addirittura un ribal­tamento negli anni dopo il 1910, quando “Il Progresso Fotografico” apre le proprie pagine alle stampe alla gomma ed ai bromoli, mentre “La Fotografia Artistica”, che cessa le pubblicazioni nel 1916, abbandona gradualmente il filone delle immagini ‘simboliste’ per presentare una quieta sequenza di paesaggi, ritratti, animali e scene di genere.

Ciò che continua invece a differenziare le due testate è l’atteggiamento di fondo nei confronti della lettura dell’immagine; così nello stesso anno 1909 una immagine di Tarchetti compare quale Quiete campestre  sulle pagine di “Progresso” per assume­re ne “La Fotografia Artistica” il titolo più rarefatto e astratto di Nuages et rizières e dell’autore vercellese, indicato come uno dei più apprezzati ed assidui collaboratori della rivista sebbene la sua presenza sia sporadica e limitata a poche annate, si pubbli­cano significativamente quasi solo immagini di paesaggio, rifiutando di fatto la vasta produzione delle “Scene di vita e di lavoro” che tanta ospitalità trova sulle pagine della rivista milanese e nella produzione di cartoline.

Sono questi gli anni in cui più assidua è la presenza di Tarchetti: dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” mentre dal 1909 al 1912 ne compaiono dodici in “La Fotografia Artistica”; tra queste andranno collocate anche le sette fotografie presentate alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre ed il novembre del 1912 in occasione della Esposi­zione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione[28] a cui partecipano artisti quali Follini, Reycend, Allason, Morbelli e Mazzucchelli oltre ad una nutrita schiera di esponenti locali quali Alberto Ferrero, Francesco Bosso, Francesco Porzio, Attilio Gartmann ed altri.

L’iniziativa dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, impegnato negli stessi giorni a sostenere le nuove lotte dei lavoratori agricoli per la conquista delle otto ore[29], è invece seguita in ogni dettaglio dalle pagine de “La Se­sia” che commentando la sezione artistica ripropone tra le righe il conflitto tra produ­zione pittorica e immagine fotografica; dopo aver rilevato che “non tutte le opere che fanno parte della mostra … rispondono alle esigenze del programma compilato dai pro­motori”, parlando di uno degli artisti presenti, il vercellese Ferrero, rileva come egli certo non sia uno “di quei pittori, dei quali si sospetta qualche confidenza eccessiva con la prospettiva del tutto meccanica e artificiale della fotografia istantanea: prospetti­va non rispondente cioè alla visione fisiologica dell’occhio umano, e alle leggi della geometria descrittiva, di cui la prospettiva normale è appunto un ramo”. Al di là della confusione tra psicologia della percezione e strutture rappresentative fortemente codifi­cate, si ritrova in queste righe una eco dei dettami imposti dalla pittura impressionista con il lavoro en plein air ma anche, e forse più prossimo, un ricordo delle riflessioni di P. H. Emerson che nel suo testo del 1889 si era soffermato a riflettere proprio sul contrasto, sulla contraddizione si potrebbe dire, tra fisiologia dello sguardo e visione fotografica, rilevando lo scarto che esiste tra la precisione indifferenziata con cui la lastra registra l’immagine e la selezione dei piani e delle relazioni prospettiche operata fisiologicamente dal sistema visivo, per giungere infine a proporre un uso attento di alcuni espedienti quali la messa a fuoco selettiva (che si trasformerà nella pratica corren­te dei decenni successivi in un uso sfrenato del flou) proprio per simulare un livello “naturalistico” di percezione e costruzione dell’immagine, rifiutando quindi le specifi­cità della visione fotografica, considerate allora pressoché unanimemente prive di po­tenzialità artistiche.

Sono queste le opinioni condivise anche dall’anonimo recensore de “La Sesia” che chiude “la rivista degli artisti vercellesi con un cenno alla magnifica raccolta esposta dall’ avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del calore [è da intendersi ovviamente colore, cioè autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore. Tanto la raccolta di Tarchetti quanto quella del Tournon, hanno un alto significato tecnico e artistico, poiché indicano fino a che alto grado di interpretazione del vero possa giungere la fotografia, quando la si utilizzi con piena scienza dei suoi mezzi materiali e con elevati intenti d’arte.”[30]

La presenza di questi due autori, a cui si aggiunge nella mostra il solo G. Bertucci di cui nulla ci è noto, risulta particolarmente significativa nell’ambito di questa manifesta­zione, e non solo in termini di storia della fotografia locale: sia l’ingegnere Tournon, che sarà presidente della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, sia Tarchetti, il cui fratello Giovanni è agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettigné presso Santhià, so­no legati a filo doppio alla grande proprietà terriera che esprime in quegli anni, partico­larmente a Vercelli, tutti gli esponenti di maggior rilievo della classe dirigente, econo­mica e politica; fortemente connotata da una precisa volontà di difesa dei valori rurali intesi quale fondamento etico ed economico, e quindi culturale, dei rapporti sociali, in cui la città, salvata dai pericoli dell’industrializzazione, è intesa ancora quale appen­dice gestionale di un territorio agricolo, in un rapporto sostanzialmente non dissimile da quello che connette il nucleo rurale della grande cascina a corte al proprio tenimen­to, alla terra; dove alle nascenti rivendicazioni del socialismo si contrappone quello che Castronovo ha definito “patriarcato georgico”, intriso di paternalismo sociale, che si manifesta nelle associazioni benefiche e di carità quali la già ricordata “Pro Emigra­tis” o la Congregazione di Carità ma anche, con declinazioni diverse, nelle associazio­ni di mutuo soccorso. Ecco allora che le due presenze sono in sintonia col carattere celebrativo dell’Esposizione, che cade in un momento di forte conflitto sociale; le im­magini dei due autori si prestano ancora al processo, ormai sempre più anacronistico, di mitizzazione del mondo rurale, alla celebrazione di un orizzonte sociale bloccato che rifiuta ogni industrializzazione che non sia subordinata allo sviluppo dell’agricoltura e vive le nascenti manifestazioni dei conflitti di classe in modo quasi prepolitico, come rottura di un equilibrio che è culturale ancor prima che economico.

Scene di vita e di lavoro

La produzione fotografica di Tarchetti è dedicata a due grandi temi, il paesaggio e le scene di vita e di lavoro, suddivise queste ultime, come vedremo, in ulteriori, successi­ve categorie che corrispondono all’ordinamento dato dallo stesso autore alle proprie stampe. La cronologia ricostruita a partire dalle immagini pubblicate sulle diverse riviste mo­stra come tutti questi temi siano da subito compresenti e permangano per tutto l’arco della sua produzione, variando però anche sensibilmente nel trattamento, ciò che si tra­duce in scelte diverse di composizione dell’immagine e dell’inquadratura e nella scelta di particolari condizioni di luce, senza ricorrere mai a manipolazioni né a tecniche par­ticolari quali le stampe ai pigmenti, fedele in questo alla lezione sopra ricordata di Ma­soero; unica concessione esplicita al modello pittorico è costituita, in alcuni casi, dall’impaginazione della stampa definitiva, sovente tagliata per essere riportata a propor­zioni tra i lati estranee ai moduli fotografici, prediligendo in particolare gli schemi for­temente orizzontali, ottenuti eliminando drasticamente ampie porzioni di cielo, utiliz­zati sia per scene urbane – quali i mercati in piazza Mazzini – sia per le immagini di greggi e mandrie in cui il richiamo alla produzione pittorica coeva assume le forme di una ripresa quasi letterale, del resto riscontrabile anche in esempi apparentemente meno diretti come accade in Lavori campestri (1907 c.), di cui si conosce una ripro­duzione non datata, da porre in confronto con opere quali Primavera, di Clemente Pugliese-Levi, del 1882, o Prateria presso Vercelli, dello stesso autore, presentata all’Esposizione d’Arte Vercellese Moderna del 1922.[31]

I richiami alla pittura piemontese del secondo Ottocento sono evidentemente molto for­ti e, nel caso degli epigoni, si può parlare tranquillamente di sorprendenti coincidenze in cui risulta difficile valutare a quale delle due parti assegnare il debito; ma certo i confronti si fanno coi maggiori e così “In certi effetti ricordava il Fontanesi” dice Masoero commentando le fotografie di Virginio Locarni presenti all’Esposizione di Torino del 1902, e l’artista costituisce certamente uno dei termini di riferimento ricor­renti insieme a Lorenzo Delleani, quest’ultimo presente numerose volte in giurie di concorsi ed esposizioni fotografiche, senza troppo sottilizzare sulle differenze o meglio ricorrendo di volta in volta al modello che più si presta all’occasione. Così in Tarchetti gli “Studi di piante” successivi al 1905, (nei precedenti si registra la presenza della figura umana quale misura del paesaggio secondo una consuetudine fotografica ancora fortemente ottocentesca), richiamano con evidenza le atmosfere del paesaggismo natu­ralistico velato di romanticismo, in parte mitigato qui da una perfezionistica ricerca del vero che lo porta ad utilizzare per questi soggetti solo lastre di grande formato (18/24) da cui trarre prevalentemente stampe per contatto, in grado di restituire al massimo li­vello la ricchezza di dettagli e di toni della scena.

Come accade anche in Francesco Negri e in numerosi altri autori contemporanei, scarse sono le vedute di ampio respiro, i paesaggi aperti della pianura; la ripresa si dedica al dettaglio (“Boschi e piante” e “Piante e acqua”), il centro di interesse è costituito dalla configurazione ambientale complessiva, priva di singoli elementi emergenti, pre­feribilmente illuminata da luci diffuse, date da cieli coperti. La prevalenza del dato at­mosferico, sottolineato da contrasti di luce, cieli nuvolosi e tramonti si ritrova invece in alcune immagini del 1909-1911: le marine (Poesia del mare, Maestosa tranquil­lità), le vedute del Sesia (Pescatore, Dopo il temporale) e alcune immagini di montagna quali Il Mucrone e Il castello di Ussel, a cui forse possono essere accostate cronologicamente le vedute di Vercelli dal campanile del Duomo, non datate, che Tarchetti intitola significativamente “Cieli”. Ancora un forte interesse per il dato atmosferico si ritrova nella serie intitolata “Inverno” (1908-1912) in cui il centro di attenzione è costituito dal fenomeno nel suo svolgersi e non semplicemente dalle possi­bilità pittoriche che l’immagine della città coperta dalla coltre di neve può offrire. Qui il riferimento è prevalentemente fotografico e richiama in particolare le opere di Alfred Stieglitz, note in Italia per essere state presentate fin dal 1894 alla Esposizione Fotogra­fica di Milano e poi ancora, negli anni successivi, a Firenze (1898) e Torino (1902).[32] Il richiamo a Lorenzo Delleani ed al bozzettismo della scuola biellese è invece partico­larmente evidente in immagini quali La locomotiva, pubblicata in “La Fotografia Artistica” del 1912, e nelle serie dedicate agli animali, realizzate dopo il 1908 (Pa­scolo, Dopo il pascolo, Ritorno dal pascolo) in cui comunque si riscontrano rimandi precisi, in termini di struttura compositiva, anche alla già citata Prateria presso Vercelli di Pugliese-Levi. Queste immagini, che Tarchetti classifica come “Varie: vacche, pecore, ragazzi, casolari, polli”, comportano anche, in alcuni casi la presenza di figure e rientrano nella più vasta categoria delle “scene di vita e di lavo­ro”, titolazione quasi certamente non autografa, dovuta forse ai redattori di “Progres­so” come sembra indicare sia la presenza di titoli diversi per la stessa immagine a se­conda che sia pubblicata come illustrazione del periodico o edita come cartolina sia la ricorrenza dello stesso titolo a corredo di immagini di autori diversi, culturalmente an­che molto lontani da Tarchetti, quali Wilhelm von Gloeden.

All’interno di questa grande categoria tematica compaiono immagini di soggetto diverso (bambini, lavori agricoli, scene di strada) ma tutte legate alla documentazione del mondo rurale, sebbene di questo venga fornita un’immagine assolutamente parziale, privilegiando quali soggetti le occupazioni marginali come il taglio del bosco, la rac­colta di fascine, la spigolatura, il “ritorno dalla fonte”. Se si esclude un’immagine di mondine (Il lavoro nelle risaie del 1911) la risicoltura, il più importante ciclo pro­duttivo dell’agricoltura vercellese, base pressoché esclusiva dell’economia locale, non rientra tra i temi maggiormente frequentati da Tarchetti che privilegia invece soggetti legati alla coltura del grano (Falciatori, presente anche in cartolina, L’aratura ed altre) e questa scelta, se può trovare qualche fondamento nella biografia dell’autore, che riprende molte di queste immagini proprio nei pressi della tenuta di Vettigné di cui il fratello era agente, risulta essere soprattutto di tipo culturale, una scelta di non coinvolgimento, che consente di mantenere una distanza netta nei confronti del sogget­to, ciò che ne permette ancora, appunto, una lettura mitologica, finalizzata alla compo­sizione del quadro, della scena, sebbene alcune scelte espressive quali l’uso molto pre­ciso e calibrato dell’inquadratura, in cui la presenza umana risulta sempre privilegiata e dominante, inserita in un ambiente che la connota, e la tecnica dell’istantanea, definitivamente padroneggiata da Tarchetti dopo i primissimi anni, possano suggerire anche ipotesi meno univoche, un approccio fotografico al tema sempre in bilico tra bozzetti­smo e documentazione.[33]

Che tale fosse ormai il suo modo di operare lo dimostra la presenza di numerose varianti, corrispondenti a momenti successivi della stessa situazione, che risulta quindi documentata mediante una sequenza successiva di scatti, secondo un modo di operare allora proprio di pochi fotografi (si pensi, in un ambito diverso, a Primoli), che diverrà pratica corrente solo dopo l’introduzione della pellicola in rullo perforato, di piccolo formato. L’interesse per la sequenza in fase di ripresa (mai però riproposta in stampa) è evidente anche nelle due immagini di giochi di bimbi presentate in catalogo, mentre una variante dello stesso procedimento, finalizzata però alla ricerca di costanti compor­tamentali o tipologiche si rileva sia in altre immagini di giochi in cui il soggetto è sem­pre il “girotondo” (Giochi felici, Nell’ora del riposo) sia nella serie dedicata ai carri, costituita dalla documentazione esaustiva di tutte le varianti tipologiche locali di questo mezzo di trasporto.

Anche le scene di ambiente urbano hanno una loro cifra singolare, un poco passatista: se escludiamo la cronaca, che costituisce una produzione minore e d’occasione, Tar­chetti rivolge prevalentemente la propria attenzione a mestieri o modi di vita già allora in declino, e questa potrebbe essere letta come manifestazione di una sensibilità acuta se non fosse, più probabilmente, ancora una volta il sintomo di un rifiuto più o meno esplicito dell’industrializzazione. Certo anche qui la qualità delle immagini è general­mente notevole, la realtà viene indagata senza apparenti infingimenti e costruzioni arti­ficiose, ma l’occhio del fotografo opera distinzioni drastiche, e le assenze risultano si­gnificative; l’attenzione principale non è rivolta alla città che cambia, alla “città che sale”, ma a quella che resiste al cambiamento, che è ancora legata alla tradizione. Non immagini di manifatture e opifici, non di operai né di borghesi. Anche nelle scene urbane la città è vista solo in relazione alla campagna circostante: il ritorno dai campi, i venditori ambulanti, ma – soprattutto – i mercati, il momento dello scambio, uno dei nodi fondamentali del sistema di relazione tra centro e territorio, a cui Tarchetti dedica una splendida serie di immagini, mai pubblicate su rivista, alcune edite in cartolina. Altre cartoline ancora, tutte edite dalla ditta Larizzate di Vercelli, sono poi dedicate alla illustrazione dell’immagine della città, di cui si sottolineano prevalentemente le permanenze medievali, indagata sia negli aspetti monumentali (Sant’Andrea, il Brolet­to, le torri) sia negli angoli minori (il passaggio di Rialto, la cosiddetta Casa degli Ele­fanti), in cui rispunta in parte il tema del pittoresco (“Vercelli che scompare”). Sono, tutte, immagini anomale; lontane per impostazione e gusto dalla produzione consueta di questo autore, e solo l’inequivocabile indicazione sul verso ci convince ad attribuirle al notaio Tarchetti, dilettante fotografo, che qui fa sfoggio di una consumata abilità tec­nica nell’uso di macchine fotografiche decentrabili e basculabili, indispensabili ad otte­nere un perfetto controllo dei parallelismi, che sale ai primi piani delle case più prossi­me per riprendere le torri o la Piazza Cavour, costruendo immagini assolutamente indi­stinguibili dalla produzione corrente di soggetto simile realizzate in ogni parte d’Italia, applicando alla lettera i moduli canonici di impaginazione dell’immagine e di ripresa che erano stati messi a punto e di fatto codificati nella vastissima produzione dei grandi studi fotografici che si dedicavano alla documentazione, primi fra tutti gli Alinari. Per concludere la rassegna delle opere di Tarchetti o, meglio, per esaurire la serie dei temi da lui affrontati non rimane che parlare delle immagini che hanno per soggetto i bambini; serie vastissima, presente come una costante lungo tutto l’arco della sua pro­duzione a noi nota, che compare sia sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” sia in numerosissime cartoline. Se escludiamo una delle prime fotografie realizzate, scatta­ta a Roma e pubblicata nel 1905, anomala rispetto alla produzione successiva e stretta­mente legata all’occasione[34], tutte queste immagini si servono del soggetto infantile per costruire piacevoli quadretti di genere, segnati da uno sguardo affettuoso, in cui il sentimento idilliaco non è mai sfiorato dal sospetto dell’ironia, corredati di opportuni titoli (Passatempi infantili, L’età felice, Senza pensieri, Ore d’ozio e simi­li) che non fanno che sottolineare retoricamente il contenuto dell’immagine, rafforzan­do l’idea di una visione pacificata, bucolica appunto, del mondo rurale, in cui la pover­tà delle condizioni materiali di vita -che pure emerge evidente- è riscattata nella visio­ne dell’autore da una condizione aurorale di innocente felicità. La stessa quiete dei la­vori campestri, dei buoi all’aratro, delle schiene ricurve dei falciatori sotto i grandi orizzonti padani, dei piccoli gesti calmi, consueti, della vita sulle aie dei cascinali in cui, ancora, ad accentuare l’intimismo della scena sono quasi sempre presenti i bambini.

Il migliore dei mondi possibili? Uno sforzo sovrumano per guardare e non vedere? Nulla può essere escluso, ma alcuni indizi lasciano affiorare una possibilità di lettura meno semplicistica, che consente di riconoscere, in un quadro complessivo fortemente segnato dalle tematiche della fotografia artistica, elementi diversi e in parte divergen­ti, in un equilibrio precario che oscilla tra l’aneddotica delle immagini di bimbi e la “riproduzione del vero” dei paesaggi, avendo al proprio centro la vastissima produ­zione delle “scene di vita e di lavoro”, cioè tutte quelle immagini che vanno a compor­re un affresco complesso del mondo rurale delle campagne vercellesi d’inizio secolo, in cui il documento si mescola con la scena di genere ed a volte emerge a fatica da essa ma non è mai definitivamente escluso, negato, e non solo per l’incapacità struttura­le dell’immagine fotografica di staccarsi dal reale.

Una conferma in tal senso ci viene dall’analisi del suo proprio modo di organizzare le copie fotografiche, modo che riflette immediatamente il percorso di analisi dei sog­getti e di selezione delle immagini da proporre alle riviste. Circa trenta sono le classi in cui Tarchetti suddivide i propri soggetti, rilevabili dalle scritte autografe che segna­no ciascuno dei raccoglitori (buste, cartelline, faldoni) in cui le stampe sono conserva­te; scompaiono qui i titoli dal sentimentalismo facile, e le “Scene di vita e di lavoro” ritornano ad essere indicate quali “Agricoltura”, “Fiere e mercati”, “Carri”, “Vac­che e pecore”, “Ragazzi”, “Dintorni di Vercelli”, “Sesia” ed altri. Ciascuna di que­ste classi, che corrisponde ad uno o più contenitori, certamente impoveriti rispetto alla loro consistenza iniziale, comprende numerose immagini, a volte decine, altre centi­naia, che sono risultato del lavoro condotto sul tema, ripetutamente indagato, appro­fondito mediante la registrazione di numerose varianti non semplicemente iconografi­che, cronologicamente anche distanti tra loro. Lo si vede nelle minute scene di vita ru­rale ma anche altre serie, apparentemente meno significative, quali le già ricordate im­magini di carri da traino animale, in cui la varietà di mezzi e situazioni documentate è tale da poter essere letta quale vera e propria indagine tipologica, compiutamente do­cumentaria. Non è possibile credere che questa cospicua produzione, queste ampie se­rie tematiche, fossero destinate solo a costituire un repertorio di prove fotografiche a cui attingere per la realizzazione della bella immagine finale, di una ‘fotografia arti­stica’, sebbene esista una obiettiva coincidenza di temi, di soggetti, che lo accomuna a molti rappresentanti di questo filone, di cui del resto Tarchetti è stato uno degli esponenti più noti, come dimostra il grandissimo numero di sue immagini pubblicate nel primo decennio del secolo, testimonianza di una consonanza di gusto ampiamente dif­fusa e consolidata.

Ma forse la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica è solo apparente; una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[35], per uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, ”l’art et le document peuvent, et même doivent, s’ entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[36] Certo le contraddizioni sono molte e la ventilata possibi­lità di ricorrere a “saggi di ricostruzione storica” o all’inserimento di personaggi (ve­rosimilmente in costume) – che porta alla mente un certo filone della cultura torinese che va dalla realizzazione del Borgo Medievale nel Parco del Valentino alle fotografie di Edoardo di Sambuy e poi di Guido Rey – può sembrare forse una concessione ecces­siva, un prezzo troppo alto da pagare alla possibilità di raccogliere, comunque, per quanto disturbate da impropri rumori di fondo, delle prove documentarie sotto forma di immagini, ma questo atteggiamento potrebbe rivelare anche una concezione molto avanzata del concetto di documento e l’appello finale, il valore anche civile della pro­posta, forse potrebbe essere stato sottoscritto da Tarchetti; l’impegno di conservare al­meno in immagine alcune testimonianze della storia locale (compito che in Masoero assume la forma di un progetto finalizzato), dimostrato indirettamente anche dalla deci­sione finale di donarle al Museo Borgogna, ci consente oggi di ricorrere ad esse quale fonte documentaria relativa alle condizioni materiali di vita delle popolazioni dell’agro vercellese di inizio secolo, e di riconoscere lo sguardo con cui la borghesia urbana le osservava.

Note

 

[1]  “Il Vessillo della Liberta”, Vercelli, 27 settembre 1860 e 30 aprile 1863. La data del 1863 è indicata anche in Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Edizioni Quasar, 1978, p. 126.

 

[2] Per le notizie relative ai dagherrotipisti biellesi cfr. Becchetti 1978,  p. 55-56 ed anche Michele Falzone del Barbarò, Schede, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 2 , pp. 903- 942.

 

[3] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1887, in Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa,  catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 149-158.  Per Giuseppe Costa cfr. Claudia Cassio, a cura di, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980,  pp. 212-214. Giusep­pe Costa risulta ancora presente all’ Esposizione del 1906 con un ritratto ad olio del barone  Vincenzo Cesati, cfr. L’Inaugurazione dell ‘Esposizione “Pro Emigratis” all’Asilo Um­berto I, “La Sesia”, 36 (1906), n. 61,  22 maggio .

 

[4] C. Cassio 1980, p. 202.

 

[5] Il primo studio relativo a Masoero si deve a Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973,. Per altri saggi sulla produzione di questo fotografo, in particolare sulle campagne di documentazione del patrimonio artistico ed ar­chitettonico vercellese cfr. LINK MASOERO 1985 . Cfr. anche LINK MASOERO 1986.

 

[6] Dionigi Arborio di Gattinara, Carnet del Dilettante Fotografo. Torino: Tipografia Editrice C. Candeletti, 1890;  Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901 quindi nel “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167.

 

[7] Cfr. Marcone 1973, p. 28. Per il testo della conferenza cfr. Pietro Masoero, Arte e Beneficenza. Firenze: Tipografia di Salvatore Landi, 1903. Nei primi anni del secolo ri­sulta a Vercelli una notevole presenza di studi fotografici, di cui si presenta qui un primo elenco in attesa di completare le ricerche tuttora in corso sui Fondi Fotografici Vercellesi, condotte, per incarico dell’Assessorato per la Cultura del Comune di Vercelli, da chi scri­ve in collaborazione con Domenico Vetrò. Oltre ai noti studi fotografici di Boeri, Castellani, Costa, Masoero e Valenzani risultano presenti anche E. Rosetta, già collaboratore di G. Costa, G. Orlandi, R. Vercellino , S. Gambarova, che passa al professionismo dopo le prime prove da dilettante, M. Pozzi, G. Borghello e L. Corona, il solo fotografo vercellese presente all’Esposizione di Torino del 1911, cfr. Esposizione Internazionale di Torino 1911: Catalogo Ufficiale Illustrato del­l’Esposizione e del Concorso Internazionale di Fotografia. Torino: Tipografia Momo, 1911.

 

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, pp. 4-5.

 

[9] Marina Miraglia, La fotografia pittorica, in Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979,  pp. 9-15.

 

[10] Enrico Thovez, Poesia fotografica,  “L’Arte all’Esposizione del 1898”, n. 9, pp. 67-70, ripubblicato in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 277-281.

 

[11] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171. L’opinione di Masoero viene ripresa quasi letteralmente in un articolo di Albert che compare più di dieci anni dopo: “L’arte fotografica deve restare nettamente fotografica. È solo a questa condizione assoluta che essa può esse­re ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare né il pastello, né lo sfumino, né la matita, né l’acquarello: è necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può visibilmente ottenere che con mezzi puramente fotografici”; Armand Albert, Cosa intendo per fotografia artistica, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), n. 10, pp. 292-95, citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2, pp. 421-544 (503-504).

 

[12] Il termine “fotografia pittorica” a cui si fa comunemente ricorso in Italia per indicare questo fenomeno è in realtà una definizione piuttosto recente; al momento della sua massi­ma diffusione tale fenomeno fotografico era comunemente noto come “fotografia artisti­ca”. Si veda a questo proposito la precisazione contenuta nel già citato testo di Tam­poni del 1909 (cfr. nota 8): “L’appellativo di “Pictorial” che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione. Risulta evidente credo che non si tratta di una semplice precisazione filologica ma di una diversa concezione critica; per l’autore il termine “pittorica” sancisce una dipen­denza dalle “arti maggiori” che egli non è disposto a condividere.

 

[13] Arturo Alinari, Le Fotografie Artistiche. Appunti critici, “La Fotografia Artistica”, 3 (  1906),  n. 2,  pp. 25-26.

 

[14] Tamponi 1909, p. 4.

 

[15] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in  Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979,  p. 67.

 

[16] Tamponi 1909, p. 4.

 

[17] Ibidem. È necessario ricordare che in quegli anni non sempre risultava in modo così netto la distinzione tra fotografia artistica e documentaria. Anche per la fotografia di guerra “volendo copie fotografiche di bell’ effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimen­to, si farà ricorso al processo al pigmento o ancor meglio al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra,  “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915),  n. 6, pp. 161-166.

 

[18] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale. Bari: Laterza, 1902. Il brano è citato in numerose storie della fotografia italiana e riportato in Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia. Bari: Laterza, 1982, p. 147.

 

[19] Colgo l’occasione per ringraziare il dotto Gian Rodolfo Namias che mi ha consentito di consultare le preziosissime annate della rivista che fanno parte della sua collezione priva­ta, fonte indispensabile per determinare, seppure approssimativamente, la cronologia delle opere di Tarchetti e per ricostruire il dibattito che si è svolto in quegli anni intorno alle valenze espressive dell’immagine fotografica.

 

[20] “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10,  p. 145.

 

[21] “II Progresso Fotografico”, 12 , (1905), n. 3. Le sole cartoline di Tarchetti sinora note sono conservate nella collezione vercellese di Giorgio Peraldo, che ringrazio. Già nel giugno del 1901 sulle pagine della rivista si annunciava la pubblicazione di cartoline, utilizzate quali immagini fuori testo, che saranno inviate separatamente agli abbonati. Nella stessa occasione si an­nuncia anche la pubblicazione, presso lo stesso editore, del periodico “La Cartolina”. L’anno successivo il reparto di fotocollografia di “Progresso” viene messo a disposizione degli abbonati per la stampa a pagamento di cartoline tratte da loro fotografie, cfr. “Il Progresso Fotografico”, 8 (1901),  n. 6:  9 (1902), n. 1. Oggi (2022) una significativa scelta di quelle cartoline, appartenenti all’Archivio Fornacca di Candelo (BI), è visibile all’indirizzo https://frafor.com/fotografo-tarchetti/.

 

[22] “La Sesia”, 36 (1906),  n. 64, 29 maggio. Alla sezione fotografica della mostra, intitolata” Arte e beneficenza” rifacendosi all’iniziativa promossa nel 1902 da Masoero, che risulta nel Comitato Ordinatore col pittore Ferdinando Rossaro e lo scultore France­sco Porzio, partecipano solo sette fotografi (Aldo Guallini, Luigi Caberti, Pietro Bellone, Carlo Gastaldi, Andrea Tarchetti, Cesare Grosso, “un intelligente operaio che si diletta di fotografia” e Ugo Graneri). Come si vede, a questa data Tarchetti è il solo rimasto del folto gruppo di dilettanti presentati da Masoero nella precedente proiezione del 1902.

 

[23] L’agitazione agraria nel Vercellese, “La Sesia”, 36 (1906),  n. 65, 1giugno 1906.

 

[24] “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), p. 163; 15 (1908), p. 329.

 

[25] Il Congresso Nazionale delle Arti Grafiche, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), pp. 156-157.

 

[26] Non è per ora possibile stabilire se esistessero legami di parentela tra Annibale e Giuseppe Cominetti, che nasce a Salasco (VC) il28 ottobre del 1882. Per Annibale Cominetti non sono state sinora effettuate indagini esaurienti, basti però ricordare che la madre, la nobil­donna Paola Cominetti era nativa di Vercelli, come si ricorda nel necrologio pubblicato in “La Fotografia Artistica”, 1913. Vercellese era anche Guido Momo, titolare dello sta­bilimento tipografico torinese che stampava la rivista. Anche Momo muore nello stesso anno, in febbraio, a seguito di un incidente occorsogli a Parigi.

 

[27] Per Luigi Cavadini cfr. La Fotografia Pittorica 1979, pp. 31-34, scheda a cura di Alberto Prandi.

 

[28] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione Mostra d’arte della campagna irrigua. Catalogo delle opere esposte, Vercelli, Gallardi e Ugo, s.d. (1912). Per i com­menti alla Mostra cfr. “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

 

[29] Inaugurando l’Esposizione Risicola, “La Risaia”,  13 (1912), n. 44, 26 ottobre: “L’Esposi­zione è dunque dei poveri e dei lavoratori e giova ai ricchi, ma non è forse così sempre?” Ed ancora: “il discorso del ministro Nitti” fu la glorificazione del grande assente, del lavoro, che era altrove e non lo ascoltava.”

 

[30] Cfr. “La Sesia” 1912. Le fotogra­fie a colori ricordate dall’articolista, più correttamente definite “diapositive” nel catalogo della Mostra, corrispondono verosimilmente alle autocromie oggi conservate alla Fondazione Sella di Biella, due delle quali sono state pubblicate in Miraglia 1981,  tavv. 679-680. A sottolineare il preciso interesse di Tournon per la fotografia occorre ricordare che nella Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tiene nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911, alcune delle pubblicazioni esposte, relative al primo periodo della storia della fotografia, sono appunto di proprietà del Tournon. Egli non compare invece tra i fotografi selezionati per il Concorso Interna­zionale di Fotografia che si tiene nella stessa occasione, mentre risultano presenti Vittorio Sella, nella sezione del CAI, Roberto Mosca ed il vercellese Luigi Corona. Cfr. Esposi­zione Internazionale di Torino, 1911. Catalogo.

 

[31] Per Clemente Pugliese-Levi cfr. Esposizione d’Arte Vercellese Moderna. Vercelli: Gal­lardi e Ugo, 1922. Angela Ottino Della Chiesa, Clemente Pugliese-Levi (1855-1936).  Mi­lano: Mondial Gallery, 1961.

 

[32] Per Francesco Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969. Sebbene una certa uniformità nel trattamento delle immagini di paesaggio fosse co­mune a molti dei dilettanti fotografi di inizio secolo (“vi sono nei paesaggi inanimati ca­ratteri di somiglianza anche se eseguiti da autori diversi in località diverse” rileva un arti­colo redazionale dedicato a L’esito del Concorso per le illustrazioni del “Progresso Foto­grafico” nel 1908 , “Il Progresso Fotografico” , 14 (1907), p. 162) il riferimento a Francesco Negri risulta, per i fotografi vercellesi, quasi obbligato. Le sue immagini so­no conosciute a Vercelli sia per il tramite delle proiezioni organizzate da Masoero, di cui Negri era intimo amico, sia per la sua presenza diretta in numerose occasioni quali la con­ferenza da lui tenuta alla Unione Eusebiana la sera del 27 gennaio 1906, dedicata alla illu­strazione storico artistica del Santuario di Crea, cfr. “La Sesia”, 36 (1906),  n. 13, 30 gennaio.

Per l’influenza di Stieglitz sulla fotografia italiana cfr. il saggio già citato di Miraglia 1981 e anche Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica. In Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 545-586.  Si veda in particolare la fotogra­fia di Federico Tensi, L’abreuvoir alla tav. 737 in cui, seguendo la lezione del grande fotografo americano, ciò che costituisce il soggetto della scena è la sua connotazione com­plessiva sottolineata dai dati atmosferici.

 

[33] Una attenzione per il mondo contadino sempre in bilico tra documentazione e scena di genere si riscontra già in molta produzione fotografica ottocentesca. Si vedano a questo proposito alcune delle immagini contenute in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979; Marina Mira­glia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bolletti­no d’Arte”, 70 (1985), serie VI, n. 33/34, settembre/dicembre, pp. 199-206; Bertelli,. Bollati 1979, tavv. nn. 32-33 ed anche, per un sommario panorama della produzione internazionale, Françoise Heilbrun, Philippe Néagù, Musée d’Orsay. Chefs-d’oeuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers- RMN, 1986. Ciò che cambia in Tarchet­ti, ed in altri fotografi dilettanti a lui prossimi, quali Giovanni Sanvitale di Parma, l’avvocato Umberto Beccuti di Moncalvo o il biellese Franco Bogge, è la modalità di approccio al tema, che in questi autori è programmaticamente quello dell’istantanea, di una tecnica cioè in cui costruzione della struttura compositiva dell’immagine (che porta tendenzialmente alla posa) e scelta dell’attimo fuggente (che è specifica delle possibilità tecnico-espressive della fotografia) faticosamente convivono.

 

[34] L’immagine viene pubblicata in “Il Progresso Fotografico”, 12 (1905), n. 5, luglio, col titolo  errato  Ciociari sulla scalinata del Campidoglio a Roma. Si tratta invece, come è facile verificare, della scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna. Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini, 1956, p. 246, commentando un’immagine di soggetto simile, dovuta a Giuseppe Primoli e datata circa il 1890, ricorda che i ciociari “veniva­no in particolare da Anticoli Corrado e Saracinesco. L’uso di star ad aspettare ingaggio [come modelli] sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui gradini della chiesa dei Greci, cominciò con la pittura di genere e finì con la prima guerra mondiale”.

 

[35] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n. 2, febbraio, p. 30.

 

[36] Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese (1985)

in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

 

“lo non ho che un rimpianto, ed è che la fotogra­fia non sia ancora giunta a fermare sulla lastra i colori, per poter presentare queste opere in tutto il fulgore della loro bellezza.”[1] Così si esprimeva Masoero illustrando al pubblico della Società Artistica di Milano la sua confe­renza sulla Scuola pittorica vercellese, già presentata nei primi mesi del 1900 nell’aula della scuola di anatomia della Accademia Albertina di Torino, per la serie di conferenze in­dette dalla Società Fotografica Subalpina[2]. Erano questi gli anni di maggiore impegno per Pietro Masoero, il cui attivismo in campo fotografico veniva riconosciuto ufficialmente dap­prima col conferimento di una “Grande meda­glia d’argento data dal Ministero della Pubbli­ca Istruzione”[3] per le sue speciali benemerenze verso l’arte fotografica, quindi con la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Furono questi riconoscimenti a coronare il suo impegno de­cennale di protagonista del dibattito fotografi­co italiano ed a segnare il suo definitivo ricono­scimento a livello nazionale, insieme ad altri, pochi, nomi di fotografi piemontesi: Francesco Negri, Secondo Pia, Vittorio Sella; ciò che forse stupirà chi si occupa di storia della fotografia italiana, poiché il nome di Masoero è a tutt’og­gi, a fronte di quelli appena citati, quello di uno sconosciuto.

L’attività di Masoero, nato ad Alessandria nel 1863, inizia a Vercelli, dove dal 1880 è impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio Ca­stellani. L’apprendistato in questo studio non è senza conseguenze per la sua formazione: Fe­derico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli, presentando nel 1873 il suo Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, si qualificava qua­le “membro dell’Accademia artistica Raffaello – Socio Onorario dell’Istituto di Belle Arti del­le Marche … “, dimostrando un interesse per il mondo dell’arte che certo non passò inosserva­to al giovane aiuto, così come si deve presumi­bilmente sempre ai Castellani se Masoero ri­sulta, al 1892, con Teresa Castellani (vedova di Luigi, morto nel 1890) Felice Alman, Carlo Mar­setti e Vittorio Sella uno dei pochissimi abbo­nati piemontesi al “Bullettino della Società Fo­tografica Italiana”, allora e per molto tempo ancora il più qualificato organo a stampa del mondo fotografico italiano.[4]

Il 1890 segna il passaggio alla attività in pro­prio. Masoero apre in giugno il suo studio, ma la sua emancipazione risale a qualche tempo prima quando – ancora direttore dello studio Castellani – illustra il numero unico de «La Se­sia» dedicato alla inaugurazione del monumento a Garibaldi. Alcuni anni dopo illustrerà un altro numero unico, dedicato all’ossario di Pa­lestro, fotografando sia i luoghi della battaglia che i progetti dell’ossario e lo stesso architetto Sommaruga.[5] Nascono questi incarichi dal consolidamento della sua fama locale e dai suoi rapporti con l’ambiente vercellese di matrice liberal-progressista, iniziati alcuni anni prima quando, nell’ambito della Associazione Gene­rale degli Operai per mutuo soccorso ed istru­zione, di cui è presidente, entra in contatto con Antonio Borgogna e quindi con Cesare Faccio, cui si deve forse l’incarico a Masoero per la do­cumentazione dell’ossario.

Ancora nel 1898 il n. 4 di “Arte Sacra”, dedicato a Vercelli, conterrà numerose fotografie di Ma­soero, tra cui la Madonna degli aranci di Gau­denzio Ferrari in San Cristoforo e la Madonna della Grazia in San Paolo, immagine che illu­stra un breve testo dallo stesso titolo, siglato P.M., verosimilmente da attribuire a Masoero stesso, che costituisce il primo documento no­to del suo interesse per il patrimonio artistico vercellese. Da sottolineare come si debba ascri­vere alla capacità di Masoero di costruire e consolidare da un lato relazioni sociali qualifi­cate e dall’altro di superare il ruolo di fotogra­fo per dedicarsi alla pubblicistica di divulga­zione culturale, il progressivo e rapido consoli­damento del suo ruolo di documentatore del patrimonio architettonico e artistico vercelle­se che in precedenza era stato svolto da Castel­lani e soprattutto da Pietro Boeri, il quale con l’album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella Chiesa di San Cristofo­ro a Vercelli, edito nel 1886, aveva fornito un ec­cellente esempio, mai superato a livello locale, di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico.[6]

Agli impegni locali si affiancano a partire dal 1898 le attività più specificamente connesse al­la professione fotografica che lo vedono impe­gnato sia nel campo della qualificazione pro­fessionale – sua è la prima proposta di istitu­zione di una scuola di fotografia[7] – sia nella ri­flessione teorica sullo specifico fotografico: “La fotografia – si chiede Masoero – è un’arte o no ? .. nel nostro lavoro vi è una parte scientifi­ca ed una artistica … L’arte interviene nella de­terminazione della posa, e la migliore esposi­zione è un’ispirazione … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotogra­fia e non incisione, o pastello o altro”.[8]

A questa lucidità corrisponde un altrettanto chiaro impegno morale: “L’arte fotografica de­ve avere un compito, un mandato: lo studio del­la natura in modo vero, perfetto, sia nell’insieme sia nel particolare. L’arte fotografica deve avere un’ispirazione: di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte con le sue potenti verità.”[9]

Le riflessioni di carattere teorico sono seguite da interventi più puntuali, in cui l’uso dello strumento fotografico è analizzato nelle sue possibilità e difficoltà tecnico-espressive; così, riflettendo sui problemi della fotografia di do­cumentazione artistica, Masoero affronta il problema delle conseguenze della dilatazione dei supporti positivi per cui la “dilatazione del­la carta non meno nocumento porta alle linee architettoniche di un monumento, facendo pa­rere più larghi o più acuti certi archi in cui un’i­nezia può far perdere assai della loro grazia, così pure un disegno, particolarmente di piani e sezioni, e di quadri.”[10]

Con questi presupposti ci si potrebbe attende­re una specializzazione professionale nel cam­po della documentazione del patrimonio arti­stico ed architettonico, ma ciò non avviene. L’ampliarsi della sua fama è dovuto alle quali­tà di ritrattista, per le quali riceve, a partire dal 1893 alla Esposizione di Ginevra, una messe di premi, ed al suo impegno di organizzatore e di divulgatore a livello nazionale ed internaziona­le che lo vede tra i segretari dei primi due con­gressi fotografici italiani (Torino 1898, Firen­ze 1899), quindi rappresentante con Rodolfo Namias della Società Fotografica Italiana al Congresso di Parigi del luglio 1900 e autore di quel Decalogo del dilettante fotografo, pubbli­cato per la prima volta nel 1900, che divenne immediatamente il suo testo più noto e celebra­to.[11] Non è questa la sede per indagare a fondo le motivazioni che lo portarono invece ad inte­ressarsi, a titolo personale, del patrimonio arti­stico, motivazioni che nascono da una serie complessa di rapporti e riferimenti, costituiti dalla presenza in ambito locale di personaggi quali Camillo Leone e Antonio Borgogna e dal ruolo svolto da quelle singolari figure di foto­grafi piemontesi che sono Francesco Negri e Secondo Pia, con cui Masoero era in contatto, che certo gli furono esempio e termine di riferi­mento per la sua attività di uomo di cultura che usa le possibilità nuove offerte dalla fotografia per realizzare quel processo di promozione cul­turale che era il fine ultimo della sua azione. “Il Pia dona alla storia futura – dice Masoero – quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo la­voro è l’elemento più prezioso per chi studia”.[12] In questo breve giudizio, che è anche una dichiarazione di intenti, si legge con chia­rezza la posizione del fotografo che individua nell’obiettivo della commercializzazione il li­mite culturalmente negativo delle campagne fotografiche dei grandi stabilimenti, a favore di un progetto che si vuole caratterizzare inve­ce quale operazione culturale e strumento di conoscenza. Da qui l’attenzione per la fotogra­fia come mezzo che ci viene suggerita dalla con­ferenza presentata a Parigi al Congresso Foto­grafico Internazionale su L’applicazione della fotografia allo studio dell’arte[13], di cui non ci è pervenuto il testo, che indica fin dal titolo il ruolo strumentale assegnato alla nuova tecni­ca, senza che per questo ne venga misconosciu­to il valore autonomo, che anzi si fonda proprio sul riconoscimento dello specifico codice lin­guistico connesso all’uso coerente delle parti­colari qualità di traduzione.[14] Né si può dimen­ticare che questo progetto si inseriva coerente­mente in quella ampia corrente di opinioni e comportamenti che Ando Gilardi ha definito “socialismo fotografico”, ben sintetizzata nelle parole di Paolo Mantegazza: “… come il Cristo nel Vangelo, che moltiplicava i pani e i pesci per sfamare le moltitudini, essa [la fotografia] moltiplica le opere d’arte e concede anche ai di­seredati della fortuna, il possedere una dome­stica galleria dei quadri più insigni dei sommi artisti”.[15]

L’iperbole retorica del brano può forse scon­certare e risultare oggi per certi versi non com­prensibile e artificiosa, ma offre esattamente la misura del tempo trascorso e la distanza che ci separa dallo spirito di quelle iniziative in cui l’uso delle scoperte e invenzioni più recenti ve­niva posto al servizio di un progetto politico­ culturale preciso.[16]

La fotografia di documentazione quindi non tanto e non solo quale ausilio dello studioso e merce da offrire al turismo colto dell’epoca, ma anche strumento di definizione di varie identità culturali che nelle radici locali cerca­no le basi per un riconoscimento paritetico a li­vello nazionale, e in questo senso il caso vercel­lese mi pare sintomatico, e ancora, ausilio di­dattico, strumento di realizzazione del pro­gramma che abbiamo ricordato.

Questi temi e problemi convergono e si concretizzano nella serie di conferenze tenute da Pie­tro Masoero: Arte e fotografia[17]  ampia e do­cumentata rassegna sulle principali tendenze fotografiche nazionali ed internazionali e La scuola pittorica vercellese, che cercheremo di presentare in modo più dettagliato.

“Le conferenze con proiezioni rappresentano la forma migliore che presentemente si usa nei grandi centri per illustrare l’arte (…) le proiezioni sono indispensabili, imperocché nessuna parola, per quanto viva e colorita essa sia, riuscirà mai, neanche lontanamente, in un tempo lun­ghissimo, quello che la proiezione in un attimo stampa indelebilmente nella mente dell’ascol­tatore”.[18] Il testo della conferenza, di circa ot­tanta pagine compilate a mezza colonna, corre­dato da 78 diapositive (90 in una prima redazio­ne) si suddivide in due parti: la prima, che si apre con una breve descrizione delle vicende storico-politiche del Piemonte e del Vercellese, passa in rassegna quelli che vengono indicati quali precursori della scuola vercellese (Boni­forte Oldoni, Eusebio Ferrari da Pezzana, Mar­tino Spanzotti, Defendente Ferrari, Stefano Scotto) e si conclude con una lunga analisi delle opere di Gaudenzio Ferrari (pp. 20-45) da cui qui importa estrarre e riconoscere le moti­vazioni di fondo, riferibili a tutto il fenomeno, che hanno spinto Masoero a studiare e divulga­re le opere di questi pittori, ben sintetizzate nel brano dedicato alla Madonna degli aranci:  “Basterebbe questa sola opera per dare ad un artista gloria imperitura (…) Eppure quanti la co­noscono? Pochissimi, ed il silente coro della chiesa, che tale tesoro accoglie, rare volte sente interrotta la sua pace claustrale dal bisbiglio di ammirazione dei visitatori; ed il più sovente, questa, non è espressa in italica favella”.[19] Ecco allora la necessità di divulgare, di far co­noscere, come avviene anche per Bernardino Lanino per il quale “una delle cause per cui (…) fu troppo dimenticato è quella che pochissimi suoi lavori sono noti e visitati”.

L’opera del Lanino è presa in esame nella se­conda parte della conferenza che iniziando da una breve disamina della nascita dell’interesse per la scuola pittorica vercellese e del costituir­si di una storiografia specifica, individuati nel­l’opera di Roberto d’Azeglio e degli “studiosi di patrie glorie (che) andarono alla ricerca delle opere dei maestri vercellesi”, prosegue con gli anni della formazione del Sodoma per passare quindi ad analizzare l’opera di Gerolamo Gio­venone e Bernardino Lanino e concludersi con gli anni della decadenza, che Masoero fa coinci­dere con la morte del Lanino stesso, mentre “gli eredi della fama e delle ricchezze delle tre fami­glie (Oldoni, Giovenone, Lanino) che fondarono nutrirono e formarono la scuola, la più bella gloria artistica di tutto il Piemonte, si adagia­rono nella agiatezza e nella facilità connesse ad un bel nome, e non si scossero più”. La produ­zione laniniana viene descritta ed analizzata nel suo svolgimento cronologico e nella sua evoluzione stilistica a partire dagli affreschi del Duomo di Novara, ora collocati ad una data più tarda, di cui presenta la Fuga in Egitto “frammento di vaste composizioni, trasportato nella sacrestia (…) allorché si demolì l’antica chiesa, in cui furono dipinte da questo artista quando ancora sentiva tutta l’influenza del suo maestro Gaudenzio Ferrari”[20], per giungere si­no alla Madonna della Grazia in San Paolo, con­siderata “la tavola più importante del maestro [che] tuttavia è affatto sconosciuta”.

Se escludiamo il ciclo di affreschi novaresi il percorso visivo laniniano suggerito da Masoe­ro è tutto interno alle opere vercellesi (ricordia­mo che la conferenza si tenne anche a Milano) e comprende oltre ai lavori già citati parte degli affreschi del ciclo delle Storie di Santa Cateri­na, a proposito dei quali, correggendo un giudi­zio dell’abate Lanzi che diceva il Lanino “nato come il Ferrari per grandi istorie”, ricorda che “troppo spesso si inspirò alle composizioni del maestro suo e non seppe opporsi alla tendenza dei figli, che badarono piuttosto a fare molto che bene”, lo stendardo della Confraternita di Sant’Anna, l’affresco nel coro della chiesa di San Bernardino “un saggio delle composizioni drammatiche del maestro vercellese”, il Com­pianto sul Cristo morto a San Giuliano, la Depo­sizione dipinta per la chiesa di San Lorenzo e la Madonna col Bambino e Santi, entrambe alla Sabauda, la Madonna del cane del museo Bor­gogna e la Pala Olgiati a San Paolo. Risulta dal­l’elenco l’assenza totale di opere anche molto note come quelle biellesi, all’ epoca già fotogra­fate da Secondo Pia; il dato mi pare interessan­te: esclusa l’ipotesi della non conoscenza, è Ma­soero stesso a ricordare che Lanino “lavorò as­sai in tutta la provincia vercellese, nella Valse­sia e nel Novarese risalendo su per la valle del­l’Olona fino a Saronno”, l’assenza di queste opere sembra connessa alla pratica di volonta­rismo assoluto quindi di difficoltà a documen­tare quei lavori che per la loro ubicazione ren­devano molto onerosa la realizzazione delle ri­prese.

Dall’elenco di opere presentate nel corso della conferenza abbiamo omesso la Madonna con due Sante, già appartenente ai marchesi di Gat­tinara, ora ubicazione ignota, che Masoero as­segna alla maturità del Lanino e che ora viene attribuita a Giuseppe Giovenone il giovane; è questo – insieme all’affresco in San Bernardi­no oggi attribuito al Moncalvo – uno dei non molti casi di attribuzione errata, tra i quali si segnala la Madonna col Bambino e Santi dell’O­spedale Maggiore di Vercelli per la quale la stampa fotografica (n. 14584) dà una attribuzio­ne a Bernardino Lanino, mentre lo stesso Ma­soero, presentandola nel corso della conferen­za, segnalava “la scritta, indubbiamente apocrifa, Bernardino Lanino 1574” e proseguiva: “Porta lo stemma dei Volpi”. Fu attribuita an­che ad Ottaviano Cane, ma più probabilmente è di Cesare Lanino, primo figlio di Bernardino. Conforta la supposizione l’aver i figli di Lanino molto lavorato in Lomellina ed i Volpi erano di quella regione”. Il non aver reperito il negativo corrispondente impedisce per ora di stabilire una datazione della stampa stessa e di verifica­re quindi la successione delle attribuzioni; ma ciò che ne fa un caso interessante è la successi­va osservazione, sempre di Masoero: “Fu, que­sta tavola, anche molto ritoccata e la fotogra­fia, nel riprodurla svelò tutta la parte più re­cente della pittura, che non era ben visibile al­l’occhio umano”. Riemerge qui la cultura speci­fica del fotografo, in grado di usare al meglio le caratteristiche tecniche degli strumenti a sua disposizione, di sfruttare anzi positivamente gli stessi limiti, determinati in questo caso dal­la incapacità delle emulsioni fotografiche di re­gistrare i colori in modo costante ed indifferen­ziato; la scarsa resa tonale della gamma croma­tica propria delle emulsioni ortocromatiche, che pure avevano costituito già un grande pas­so avanti, è qui sfruttata per ricavare il massi­mo di informazione possibile, secondo il ricor­dato principio della fotografia quale “docu­mento inspiratore e coadiuvatore dell’arte”. L’impegno di divulgatore prosegue con la con­ferenza dedicata a Il Rinascimento della pittu­ra in Piemonte, tenuta ad Alba nel 1902[21],  men­tre si estendono i suoi contatti con le più note personalità del mondo della cultura quali Al­fredo d’Andrade, per il quale fotografa alcuni interventi di restauro a Orta ed Arona[22], e Gu­stavo Frizzoni il quale, in occasione del minac­ciato abbattimento del chiostro di Santa Maria delle Grazie a Varallo scrive ad Antonio Massa­ra richiamandosi alla autorevole opinione espressa “dall’egregio fotografo Masoero”[23]. La documentazione del patrimonio architetto­nico, iniziata già sullo scadere del secolo, si concretizza nel 1907 con la realizzazione del vo­lume dedicato alla basilica di Sant’Andrea, per il quale fornisce l’apparato iconografico a cor­redo dei rilievi del Mella, proseguendo poi con le illustrazioni per l’articolo di Guido Maran­goni Il Sant’Andrea di Vercelli, pubblicato in “Rassegna d’Arte” nel corso del 1909[24] e quindi col tredicesimo volume della serie “Italia Monu­mentale” del 1910, in cui ad un breve testo intro­duttivo di Francesco Picco fanno seguito 64 ta­vole fotografiche realizzate dallo Studio Masoero[25].

Il 25 ottobre 1908 si costituisce a Vercelli un Comitato per le celebrazioni del IV centenario della nascita di Lanino; Masoero, che fa parte della Giunta esecutiva, riprende per l’occasio­ne il tema affrontato alcuni anni prima ed ese­gue una documentazione a tappeto, seppure non esaustiva, delle opere della scuola pittori­ca vercellese ed in particolare del Lanino. Anche in questa occasione la competenza professionale ed il costante aggiornamento danno i loro frutti: sebbene manchino dati certi in proposito, alcuni indizi fanno supporre che Ma­soero abbia riprodotto contemporaneamente le opere sia in negativo, utilizzando lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21/27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare con­temporaneamente la duplice esigenza di larga diffusione – erano infatti diapositive da proie­zione – e di restituzione della gamma cromati­ca, realizzando il desiderio espresso nel corso della conferenza del 1901.

Una parte di queste autocromie, per le quali si rimanda all’elenco ragionato, viene utilizzata la sera del 22 settembre 1910, al Politeama Fac­chinetti, per illustrare la conferenza sulla Scuola pittorica vercellese tenuta da Luigi Cesare Faccio, “promossa dal Municipio e dalla locale Società di cultura” in onore dei parteci­panti al XIII Congresso Storico Subalpino che si tiene a Vercelli.[26]

Diversamente da quanto era accaduto nel 1901 e per ovvie ragioni, l’attenzione maggiore è ri­servata al Lanino, cui sono dedicate 103 auto­cromie su 242, comprendendo anche numero­sissime opere non vercellesi: Borgosesia, Casa­le, Tortona, Valduggia ecc.; da notare ancora una volta l’assenza delle opere biellesi mentre è presente – forse grazie agli stretti rapporti esi­stenti tra i due – il ciclo di affreschi nella chie­sa di San Magno a Legnano, reso noto nell’Ago­sto dello stesso anno da Guido Marangoni[27]. L’opera di documentazione legata al ciclo di ce­lebrazioni laniniane chiude la serie delle cam­pagne fotografiche di Pietro Masoero, il cui fondo, ormai noto ed esposto pubblicamente al Borgogna[28], verrà più volte utilizzato da autori quali Weber (1927) Brizio (1935) Jacini (1938). Masoero stesso pubblicherà in forma ridotta nel volume collettivo Vercelli nella storia e nel­l’arte il suo saggio sulla “Scuola vercellese”, corredato da alcune fotografie, modesta con­clusione del suo lungo impegno.[29]

 

 

Laura Berardi, Pierangelo Cavanna,  Elenco ragionato delle fotografie  di Pietro Masoero relative all’ opera di Bernardino Lanino

 

 

L’indagine è stata condotta sui fondi fotografi­ci del Museo Borgogna di Vercelli, fondo Ma­soero (MB/M), in cui sono conservati i negativi su lastra, le autocromie e alcune stampe; sul fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (MCT/R); sul fondo Bickley della Fondazione Sella di Biella (FS/B) e nelle fototeche dell’Isti­tuto di Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino (ISA), del Kunsthisto­risches Institut di Firenze e del Gabinetto Fo­tografico Nazionale di Roma. La consultazio­ne ha consentito di rilevare una diffusione a carattere regionale delle immagini relative al­le opere laniniane, mentre l’altro importante ciclo documentario di Masoero, relativo alla basilica di Sant’Andrea di Vercelli, è presente in parte anche presso il Gabinetto Fotografico Nazionale. Per la datazione dei materiali rile­vati, costituiti – salvo diversa indicazione ­da negativi su lastra di 21/27 cm, da stampe al citrato e alla gelatina bromuro d’argento da questi ricavate per contatto e da autocromie Lumière di 9/13 cm, essa va riferita complessi­vamente agli anni 1909-1910.

Non sono state reperite sino ad ora le diaposi­tive da proiezione utilizzate negli anni 1900­-1901 per illustrare le due conferenze Arte e fotografia e La scuola pittorica vercellese, forse perdute.

 

L’elenco, organizzato topograficamente, regi­stra per ogni soggetto la presenza di negativi, positivi e autocromie; il numero che segue questa specifica ne indica la quantità, mentre in parentesi sono registrati i numeri di identi­ficazione apposti da Masoero, generalmente a doppia numerazione per le autocromie. Segue la collocazione: mentre per negativi e diaposi­tivi (autocromie), conservati solo al Museo Borgogna, questa è costituita dal solo riferi­mento interno, provvisorio, in attesa del defi­nitivo riordino del fondo stesso, per i positivi è indicato anche il fondo di provenienza, iden­tificato con le sigle precedentemente indicate. Si è preferito in questa occasione non com­prendere nell’elenco le numerose stampe con­servate nei diversi fondi, presumibilmente di Masoero ma prive di identificazione, in attesa che la ristampa dei negativi originali consenta più puntuali riscontri.

 

Borgosesia, Parrocchiale

Madonna col Bambino e Santi Negativo: gen. 3 (23, s.i.); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (58/70), part. 3 (16/-, 51/72, 60/71) fratturata la 16/-; coll. 85/1.

 

Casale Monferrato, Oratorio del Gesù

Circoncisione e Angelo con carti­glio

Negativo: gen. 2 (39, s.i.), part. 1 (38); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (15/74), part. 3 (16/75,17/77,18/76); coll. 85/2.

 

Legnano, Chiesa di San Magno

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

 

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 1 (28); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (19/82) frattu­ra angolare; coll. 85/3

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (29); coll. 5/85

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (30); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (12/79) frattu­rata; coll. 85/3

Circoncisione

Negativo: gen. 1 (31); coll. 5/85

Adorazione dei pastori

Negativo: gen. 1 (32); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (8/80) due frat­ture; coll. 85/3

Visitazione

Negativo: gen. 1 (33); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (4/81); coll. 85/3

San Rocco

Negativo: gen. 1 (34); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (45/84) frattu­ra centrale; coll. 85/3

San Sebastiano

Negativo: gen. 1 (35); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (42/85); coll. 85/3

Cristo coi simboli della Passione

Negativo: gen. 1 (36); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (43/87); coll. 85/3

Santo Vescovo

Negativo: gen. 1 (37); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (44/86); coll. 85/3

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (22/83); coll. 85/3

Disputa al tempio

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (23/78) ampia perdita di pigmento colorato; coll. 85/3

 

Mortara, Chiesa di Santa Croce

Adorazione dei Magi, all’epoca conservata presso la chiesa di “Santa Trinitates”

Negativo: gen. 2 (41, s.i.); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.) due copie; coll. MCT/R Se. 21; MB/M n. 41

Autocromia: gen. 1 (13/67), part. 2 (13/68, 15/-); coll. 85/4

 

Novara, Duomo

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 2 (35, s.i.); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (20/89); coll. 85/5

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (40); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (11/90); coll. 85/5

Visitazione

Negativo: gen. 1 (42); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (5/92); coll. 85/5

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (43); coll. 6/85

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (44); coll. 6/85 Autocromia: gen. 1 (7/91) frattura centrale; coll. 85/5

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (47); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (1/93) piccola frattura d’angolo; coll. 85/5

 

Occimiano, Parrocchiale

Madonna col Bambino, Sante e devote, ‘Pala di Sant’Orsola”

Negativo: gen. 1 (“=6=N. 26”); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (62/39), part. 7 (63/102, 64/104, 65/40, 66/106, 67/107, 68/41, -/103); coll. 85/6

 

Oleggio, Chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

 

Tortona, Palazzo Vescovile

San Paolo

Negativo: gen. 1 (40); coll. 3/85

 

Positivo: gen. 1 (s.i.); MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (54/100); coll. 85/7

 

Valduggia, Parrocchiale

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (58); coll. 7/85

Polittico

Negativo: gen. 2 (24, s.i.) spezzata la 24, con mascheratura rossa per evidenziare la cornice, part. 1 (24); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (69/94), part. 5 (-/95, 70/96, -/97, -/98, -/99); coll. 85/8

 

Vercelli, Palazzo Arcivescovile

Assunzione della Vergine

Positivo: gen. 1 (14610) in due co­pie; coll. MCT/R Se. 21, MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/55), part. 2 (30/56, -/57) frattura d’angolo la 30/56; coll. 85/10

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (14589); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/46), part. 1 (-/47); coll. 85/10

Martirio di Santa Margherita (bottega di Giuseppe Giovenone il Giovane).

già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14604); coll. MB/ M

 

Vercelli, Basilica di Sant’Andrea, Sala Capitolare

Angeli musicanti

Autocromia: gen. 1 (35/66) con piccola frattura d’angolo; coll. 85/16

Madonna col Bambino, già con attribuzione a Gaudenzio Ferrari

Autocromia: gen. 1 (-/109); coll. 85/16

 

Vercelli, Chiesa di Sant’Antonio

Crocefissione

Negativo: gen. 1 (92); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (92) in due copie; coll. MCT/R  Se. 21, MB/M

 

Vercelli, Chiesa di Santa Cateri­na, Oratorio

Ciclo di affreschi con le Storie di Santa Caterina

Martirio di Santa Caterina Negativo: gen. 1 (15); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (53/91); coll. 85/15

Conversione di Santa Caterina Autocromia: gen. 1 (-/26); coll. 85/15

Gruppo di figure con Santa Cate­rina, attualmente non visibile

Negativo: gen. 1 (17); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/37); coll. 85/15

 

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/32, -/33, -/34, -/35, -/36); coll. 85/15

Corona di angeli

Autocromia: part. 2 (-/90, 34/-); coll. 85/15

 

Non appartenente al ciclo

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (16) spaccata; coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (16); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/38); coll. 85/15

 

Vercelli, Chiesa di San Giuliano

Compianto sul Cristo morto

Negativo: gen. 1 (s.i. formato 13 X 18); coll. 1/85

Positivo: gen. 2 (14587 in tre co­pie+ una s.i. in formato 9x 13), part. 1 (s.i. in formato 9x 13); coll. FS/B. MCT/R Se. 21. MB/M, ISA.

Autocromia: gen. 1 (24/-) con frat­tura, part. 5 (25/49, 26/50, 27/51, 28/?8, 29/52) frattura d’angolo al­la 25/49; coll. 85/12

 

Vercelli, Chiesa di San Michele

Sacra Famiglia con Sant’Anna

Negativo: gen. 1 (13); coll. 1/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (-/64); coll. 85/13

 

Vercelli, Chiesa di San Paolo

Adorazione del Bambino

Autocromia: gen. 1 (9/46); coll. 85/14

Madonna della Grazia

Negativo: part. 11(18, 19, 20, 21, 22, altri s.i.) spaccata la 21; coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (14585); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (71/42), part. 5 (36/43, 72/44, 73/44, 38/45, 74/45);

coll. 85/14

 

Vercelli, Museo  Borgogna

Madonna col Bambino e i Santi Bernardino e Francesco. “Madon­na del cane”

Positivo: gen. 1 (s.i.) montato su cartone  verde con scritte in oro; coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (?/37), part. 1 (54/38); coll. 85/9

Stendardo della Confraternita di Sant’Anna, all’epoca conservato presso l’istituto di Belle Arti

Positivo: gen. 1 (14591); due copie coll. FS/B, ISA

Autocromia: gen. 1 (-/61); coll. 85/9

Adorazione del Bambino (Mae­stro vercellese, circa 1600), all’e­poca conservata presso Palazzo Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Negativo: gen. 1 (14); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (14); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/65); coll. 85/9

Madonna col Bambino, Santi e angeli musicanti, già con attribu­zione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 3 (52, altre s.i.); coll. 3/85

Autocromia: gen. 1 (-/115) con frattura; coll. 85/9

Annunciazione, all’epoca conser­vata presso l’Istituto di Belle Arti

Negativo: gen. 1 (69); coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (69); coll. MB/M

 

Dal ciclo di affreschi con le Sto­rie di Santa Caterina nell’Orato­rio della chiesa omonima, all’epo­ca conservati presso il Museo Leone

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/1, -/2,32/3, -/ 4, 31/5) fratturata la -/4; coll. 85/9

Battesimo di Santa Caterina

Positivo: gen. 1 (14582); due copie coll. FS/B,  ISA

Autocromia: gen. 1 (46/35), part. 2 (48/36, 49/18); coll. 85/9

Santa Caterina presenta i confra­telli alla Madonna

Positivo: gen. 1 (14583); due co­pie; con. MCT/R Se. 21, ISA

Autocromia: part. 2 (47/23?, 51/48); coll. 85/9

Incoronazione di Santa Caterina

Negativo: gen. 1 (9) spezzata; coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/24); coll. 85/9

 

Ciclo di affreschi dalla chiesa di San Francesco ora Sant’Agnese (Gerolamo e Pietro Francesco La­nino?), all’epoca conservati pres­so il Museo Leone, già con attri­buzione a Bernardino Lanino

Angeli musicanti, otto vele

Negativo: gen. 8 (1-8) spezzata la1; coll. 4/85

Autocromia: gen. 8 (-17, -/8, -/9, 38/10,41/11, -/12, -/13, 40/14); coll. 85/9

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (lO); coll. 4/85

Autocromia: gen. 1 (2/15), part. 1 (3/16) con ampie perdite del pig­mento colorato; coll. 85/9

Fregi

Autocromia: gen. 1 (-/25); coll. 85/ 9

Angelo che sorregge un finto ocu­lo

Autocromia: gen. 1 (-/60?) con lie­ve frattura; coll. 85/9

 

Vercelli, Museo Leone

Adorazione del Bambino (Gerola­mo Giovenone), all’epoca conser­vata presso la chiesa di San Cri­stoforo con attribuzione a Ber­nardino Lanino

Autocromia: gen. 1 (16/62); coll. 85/11

Adorazione del Bambino (bottega di Gerolamo Giovenone), all’epo­ca conservata presso l’Orfanatro­fio con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (12); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/63); coll. 85/

 

Vercelli, Ospedale

Madonna con Bambino e Santi , già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14584); coll. MB/ M

 

Collocazione ignota

Cristo alla colonna, Madonna col Bambino, all’epoca conservata presso Palazzo Gattinara con at­tribuzione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 1 (52); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (52); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/110) con frattura angolare, part. 2 (-/111, -/ 112); coll. 85/00

 

Collocazione ignota

Madonna col Bambino e due San­te (Giuseppe Giovenone il Giova­ne), all’epoca in collezione priva­ta, forse Marchese di Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (17162?) in due co­pie; coll. MB/M, FSIB

 

 

Note

 

[1] Pietro Masoero, La scuola pittorica vercellese, 1901. Il testo, manoscritto, inedi­to, che costituisce lo studio più approfondito svolto da Masoero sul tema, mi è stato gentilmente fornito da Pino Marcone, che rin­grazio, a cui si deve anche il pri­mo studio sul fotografo vercelle­se: Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973, da cui sono tratte tutte le indicazioni biogra­fiche non altrimenti indicate.

[2] Marcone, 1973, p. 21.

 

[3] “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p.  231.

 

[4] “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 4 (1892). Gli altri fotografi piemontesi entrarono in contatto con la S.F.I. solo in occa­sione del Congresso di Torino del 1898.

 

[5] Palestro: inaugurandosi l’ossario pei caduti del 30-31 maggio 1859. Vercelli: Gallardi & Ugo, 1893, Le fotografie vennero tradotte in incisione da A. Colombo, Angerer e Goschl di Vienna e P. Carlevaris.

 

[6] Boeri-Valenzani, Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, 1886;  con un breve testo introduttivo tratto dalla Vita e opere di Gaudenzio Ferrari pittore, pubblicato a Torino nel 1881 da padre Giuseppe Colombo, con sessantaquattro grandi stampe all’albumina da negativi al collodio. Le foto­grafie che corredano il volume, firmato dai due titolari dello stu­dio, vennero realizzate dal solo Pie­tro Boeri.

 

[7] Nella seduta del 21 ottobre 1898 Masoero presenta per la pri­ma volta la sua proposta di costi­tuzione di una scuola di fotogra­fia, approvata dal Congresso, di­battuta poi, sempre senza succes­so, nel corso dei successivi incon­tri almeno fino al Congresso di Roma del 1911. Solo nel 1909 ven­ne instituita a Torino la prima scuola di fotografia italiana, ma su iniziativa del locale Photo­Club: Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, p. 82.

 

[8] Pietro  Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).

 

[9] Ibid.

 

[10] Pietro  Masoero, La dilatazione dei supporti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78. Il problema tecni­co-metodologico connesso alla realizzazione, conservazione e utilizzazione del materiale foto­grafico documentario sarà af­frontato con grande lucidità e competenza negli anni successivi da Giovanni Santoponte.

 

[11] Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901. Il testo, edito per la prima volta nel­la Breve raccolta pubblicata dal­la Società Fotografica Subalpina quale strenna sociale per il 1900, venne ripreso dal “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167, e ristampa­to alcuni anni orsono nel “Noti­ziario” n. 13, del Museo Naziona­le del Cinema di Torino, 1970.

 

[12] Pietro  Masoero, l’Esposizione fo­tografica di Torino. Note e appunti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.129-134 . Ricordia­mo che Masoero si era già occu­pato di Secondo Pia in Rassegna del mese – Annotazioni, “Rivista Scientifico-Artistica di Fotografia: Bollettino mensi­le del Circolo Fotografico Lom­bardo” 7 (1898), pp. 132-133,177.

 

[13] Pietro  Masoero, Congresso foto­grafico internazionale di Parigi, prima parte, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.429-439. Il Congresso fotografico Internazio­nale si tenne a Parigi dal 23 al 28 luglio 1900 in concomitanza dell’Esposizione Universale. La con­ferenza di Masoero, forse corre­data da 29 diapositive di opere di Gaudenzio Ferrari, programmata in un primo tempo per la sera del 25 venne rimandata al 28 luglio e chiuse i lavori del Congresso.

 

[14] Si veda a questo proposito Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930), in “Storia dell’arte italiana”, I**, L’artista e il pubblico. Torino: Einaudi, 1979, pp.417.484, ed in particolare le affermazioni di Adolfo Venturi qui riportate, ricavate dalla Pre­messa al Catalogo dello stabili­mento fotografico Adolphe Braun del 1887, p. 471, riconfermate venti­cinque anni dopo dallo stesso Venturi nell’intervista rilasciata a Bragaglia: “debbo riconoscere che se questa [la storia dell’arte] sorta tra le ultime, si è affermata e ha progredito così rapidamen­te, lo è appunto in grazia della fo­tografia che permette gli studi di comparazione con maggiore faci­lità ed efficacia (…) come il migliore mezzo di riproduzione che di­strugge la ragione d’essere del­l’incisione e della calcografia”, Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. 17-19, 55-57, 71-73 (p. 18).

 

[15] Paolo Mantegazza, Introduzione, in Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia : appunti pratici per chi posa.  Firenze: pei tipi di Salvadore Landi, 1895, p. 12. Mantegazza, fondatore e diretto­re del Museo Antropologico Etno­grafico di Firenze, era il presi­dente della Società Fotografica Italiana. Il brano citato riprende il tema della fotografia quale strumento democratico a lui ca­ro, che costituiva anche il nucleo centrale del discorso inaugurale della Società stessa, tenuto a Fi­renze il 20 Maggio 1889, cfr. Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976, pp. 199-214.

 

[16] Inutile ricordare che il riscat­to sociale compreso in questo progetto aveva limiti grandi e ben definiti che è facile riscontra­re anche nell’operato di Masoero: nonostante i suoi trascorsi di pre­sidente delle associazioni operaie vercellesi e di promotore della Scuola Professionale il suo nome non compare tra i sostenitori de­gli scioperanti del 1906 che lotta­vano per le otto ore lavorative, anzi la sua appartenenza alla As­sociazione Costituzionale Demo­cratica, nelle cui liste fu eletto nel 1909 assumendo poi l’incari­co di assessore alla Pubblica Istruzione, lascia chiaramente in­tendere a quale schieramento fos­se legato.

 

[17] La conferenza venne tenuta una prima volta a Torino nei pri­mi mesi del 1901 quindi ripetuta a Vercelli, Novara e Lodi; era cor­redata da più di 250 diapositive, tra cui erano comprese, e furono molto ammirate, le prime tricro­mie realizzate da Francesco Ne­gri. Le immagini erano il più del­le volte fornite direttamente da­gli autori stessi, come si ricava dal carteggio Masoero-Sella che si riferisce appunto a questa oc­casione: Archivio Sella, San Gero­lamo, Biella: Fondo Vittorio, car­teggio. Il testo della conferenza, non pervenuto, doveva forse cor­rispondere all’articolo dallo stes­so titolo pubblicato sul “Bulletti­no”, cfr. nota 8.

 

[18] Pietro Masoero, Il Rinascimento, 1902. Il testo mi è stato cortese­mente fornito da Pino Marcone. Anche l’attività professionale del­lo studio Masoero è in questi anni segnata da questa particolare at­tività, tanto che le inserzioni pub­blicitarie riportano: “Masoero Cav. Pietro. Studio fotografico. Diapositive da proiezione, per contatto, ridotte da negativi o tratte da positivi”,  Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, supplemento, p. 23.

 

[19] Pietro Masoero, La scuola, 1901, p. 33 passim; lo scrupolo di prepa­razione e di ricerca è testimonia­to anche dalla consistenza della bibliografia usata da Masoero che comprende ben 20 titoli. In alcune occasioni è anche riporta­to il giudizio di Gustavo Frizzoni, sebbene suoi testi non siano com­presi in bibliografia, ciò che fa­rebbe supporre una frequentazio­ne diretta già in quegli anni.

 

[20] Per la datazione degli affre­schi novaresi cfr. Giovanna Galante Gar­rone, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino,  Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-maggio 1982), a cura di Giovanni Romano. Torino: Accademia Albertina Belle Arti, 1982.

 

[21] Cfr. nota 18.

 

[22] Cristina Mossetti, Interventi di tutela sul patrimonio artistico del novarese, in Alfredo D’Andrade: tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana  Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, p. 342.

 

[23] Cronaca dell’agitazio­ne per la conservazione del convento di santa Maria delle Grazie in Varallo, in Il chiostro di santa Maria delle Grazie in Varallo.  Novara, s.e.,  1905, p. 13.

 

[24] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli, “Rassegna d’arte”, 9 (1909), n. 7, pp.122-126; n.  8-9, pp. 154-158; n.  11, pp. 180-186; le tre parti avevano come sottotito­lo rispettivamente “Intorno alle asserite sue origini inglesi,” “Le ipotesi sulle origini francesi” e “Prevalenza dei caratteri naziona­li”.

 

[25] Francesc Picco, Vercelli.  Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[26] Atti del XIII Congresso storico subalpino,  “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, 16 (1911), p. 193.

 

[27] Guido Marangoni, Bernardino Lanino a Legnano, “Rassegna d’arte”, 10 (1910), pp.114-121. Le imma­gini che corredano l’articolo ­senza indicazione dell’autore ­non sembrano essere di Masoero, ma sarà necessario un confronto diretto con le lastre conservate al Museo Borgogna per stabilirlo in modo più preciso.

 

[28] Nella seduta del consiglio di Amministrazione del Museo Bor­gogna del 18 Dicembre 1920 Ma­soero propone che vengano espo­ste periodicamente le “incisioni, disegni e fotografie che numero­se ed importanti sono possedute dal Museo (…) per concorrere all’e­ducazione artistica del popolo” (Archivio del Museo Borgogna, Verbali). Dal necrologio di Masoe­ro, morto il 2 giugno 1934, pub­blicato su “L’Eusebiano” sappia­mo anche che le immagini di Ma­soero erano pubblicamente espo­ste (“le cui diapositive possiamo ammirare nel Museo Borgogna”).

 

[29] Pietro Masoero, La scuola vercel­lese, in Vercelli nella storia e nell’arte: guida artistica illustrata.  Vercelli: Gallardi,  1930,

pp.39-50.