Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Luigi Ghirri: seduzioni della differenza (1999)

in Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, Torre del Lebbroso, 3 Luglio – 3 Ottobre 1999). Aosta: Musumeci  Editore, 1999

 

Oh che bel castello…

 

“Quando sono chiamato a compiere un lavoro (…) il primo impatto risulta sempre problematico” scriveva Luigi Ghirri nel 1987[1] presentando alcune immagini eseguite su commissione. “Per prima cosa mi ritornano alla mente lavori analoghi svolti in altri luoghi, con modalità e finalità analoghe (…) poi comincio a rivedere e a ripensare a tutto quello che è già stato fatto negli stessi luoghi da altri fotografi e da fotografi di altre generazioni. (…) Non è sicuramente una novità riaffermare che ormai tutti i luoghi sono iper-descritti, raccontati, indagati, tanto che sembra impossibile ad ogni  nostro sguardo sfuggire da un deprimente deja-vu, se non allo stereotipo.”

Questa riflessione, nata in altri siti e occasioni, credo possa essersi affacciata alla mente di Ghirri anche nei momenti che hanno preceduto nel 1991 la realizzazione della campagna fotografica sui castelli valdostani, che qui presentiamo per la prima volta nella sua compiutezza, commissionata dalla Regione Valle d’Aosta nell’ambito di un progetto ideato da Gianfranco Maccaferri.

 

Tradizione iconografica e stereotipo sono in questo particolare contesto elementi specialmente marcati e pericolosamente incombenti: tra pittoresco e sublime l’interesse per le architetture castellane si sviluppa a partire dalla seconda metà del XIX secolo[2], mescolando istanze romantiche e  gusto troubadour con le prime attenzioni archeologiche per il patrimonio costruito che emergono in artisti come Federico Pastoris, il cui verismo “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[3] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni – pur non sistematiche[4] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico “piemontese” in cui si comprendeva allora anche la Valle d’Aosta.

Il primo viaggio di D’Andrade in valle, accompagnato da Pastoris e datato 1865, tocca oltre ad Aosta proprio i castelli di Fénis, Verrès e Issogne,  al quale già nel 1853 un altro artista torinese come Carlo Felice Biscarra aveva dedicato una serie di studi e disegni, mentre numerosi oggetti di provenienza valdostana entravano a far parte delle collezioni del neonato (1863) Museo Civico di Arti Applicate di Torino.[5] In questo contesto di interessi e passioni va collocato anche l’acquisto del castello di Issogne nel 1872 da parte di un altro esponente  della “scuola di Rivara”, Vittorio Avondo che ne affida il restauro proprio a D’Andrade in collaborazione con Pastoris ed i fratelli Pietro[6] e Giuseppe Giacosa[7], il quale nello stesso anno pubblica in “Nuova Antologia”, con dedica a Pastoris, Una partita a scacchi , poi rappresentata con scenografie di D’Andrade.

È a questo gruppo di artisti che si deve l’invenzione, tutta ottocentesca, dei castelli valdostani, prima assenti da una tradizione iconografica che semmai aveva privilegiato le antichità romane di Aosta. Questo processo di invenzione prenderà forma compiuta,  fascinosamente in bilico tra cura filologica e spettacolarizzazione didattica, nella campagna di studi e rilevamenti che porterà alla realizzazione del Borgo e Rocca Medievale al parco del Valentino per l’Esposizione generale italiana  che si tiene a Torino nel 1884[8], occasione in cui la Prima Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani auspica la formazione di quella  “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni [fotografiche] architettoniche di edifici nazionali” [9]che propone con largo anticipo il problema dei Musei documentari.

Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[10] operano sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fénis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[11],  per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[12]

 

Dal complesso progetto culturale che presiede all’invenzione del Borgo Medievale deriva quella necessità di realizzare una “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni”  delle diverse tipologie di costruzioni che sarebbero andate a costituire il Borgo,  raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità”[13], che testimonia di un percorso intellettuale contraddittorio e affascinante, poi tradotto magistralmente in progetto espositivo, nel quale è facile riconoscere il segno dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, analoghe e fungibili al reale. In questo senso esso rivela i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico di secondo Ottocento e investe una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è (considerato) autentico, vero  in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a rappresentare in modo tanto verosimile da divenire reale un soggetto inesistente in quella forma. Il gioco intellettuale e pittoresco della simulazione viene spinto fino alla messa in scena di una rappresentazione più vera del vero che prende forma nella commissione, fatta da Alfredo D’Andrade a Vittorio Ecclesia[14], di una serie di vedute del Borgo animate da figure in costume, che influenzeranno l’opera di un fotografo più giovane come Edoardo di Sambuy[15], titolare almeno dal 1898 di uno “Studio di riproduzioni artistiche” dopo una breve carriera di fotografo amateur.   In questo stesso anno anch’egli realizza una serie di immagini  della Valle d’Aosta (alcune dedicate ad Issogne) animate da personaggi in costume storico che – diversamente da quanto accadeva in Ecclesia – costituiscono  il soggetto principale e il centro di attenzione: il punto di vista si abbassa, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è trasformato in fondale scenografico. Queste fotografie rappresentano  per il Piemonte la prima traccia visibile del progressivo slittamento semantico del termine ‘artistico’ applicato alla fotografia: se fino ad allora (e per molti anche dopo, sempre) l’aggettivo qualificativo era riferito alle caratteristiche dell’oggetto fotografato (architettura, dipinto, insomma opera d’arte) qui esso inizia a essere riservato all’immagine in quanto tale,  in accordo a quel  passaggio dalla riproduzione alla fotografia “artistica” che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902 di cui lo stesso Di Sambuy fu responsabile.

 

L’influenza della realizzazione del Borgo Medievale  è però particolarmente rilevante sulle campagne documentarie dei fotografi piemontesi, poiché contribuisce a determinare quella “particolare e storica forma di traduzione dell’architettura in immagine. Immagine di una particolare concezione dell’architettura” [16] che si tradurrà progressivamente nella sedimentazione di quegli stereotipi visivi a cui faceva riferimento Ghirri nella riflessione posta in apertura.

Un riscontro immediato di questa influenza ci è dato dall’elenco dei soggetti presentati all’Esposizione del 1884 dagli studi fotografici che intrattenevano più stretti rapporti con la cerchia di d’Andrade quali Berra ed Ecclesia che espongono rispettivamente fotografie relative a S. Antonio di Ranverso e alla Sacra di S. Michele, ma anche  una nutrita serie di vedute dei castelli della Valle d’Aosta, tema che ritornerà ampiamente  anche nell’opera  di altri fotografi piemontesi come Vittorio Besso, per il quale un confronto tra i cataloghi del  1881 e del 1893 mostra un accrescimento  rilevante del repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti, e specialmente Secondo Pia che comprenderà molte di  queste architetture nella sua fondamentale ricognizione fotografica. A partire dalla fine del secolo i castelli valdostani -ormai entrati a far parte del patrimonio pubblico per iniziativa dello stesso D’Andrade che in veste di direttore dell’Ufficio regionale per  la conservazione dei monumenti ne aveva promosso l’acquisto (Verrès, 1894; Fénis, 1895; Issogne, 1907) –  costituiscono mete consolidate del nascente turismo associazionistico-culturale e la loro immagine diviene componente familiare delle prime guide a stampa ad alta tiratura, “abitati da Paggi Fernandi e da abati di Challant le cui regioni di provenienza sono chiaramente ben più quelle mitiche della letteratura che non quelle della realtà effettivamente vissuta.”[17]

 

 

Dichiarazioni autentiche in forma apocrifa

 

I castelli valdostani, allora, sono immagini immaginate, iperdeterminate da un itinerario di costruzione della loro visibilità tutto moderno, che nasce da quella cultura che “facendo della Fotografia, mortale, il testimone principale e come naturale di «ciò che è stato» (…)  ha rinunciato al Monumento. Paradosso: lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia” [18], ma anche il Restauro, connesso storicamente alla riscoperta e forse soprattutto alla reinvenzione del medioevo: dal gothic novel all’eclettismo storicistico su su fino al  cinema e al fumetto, al Luna Park e a Disneyland.

Qui lo stereotipo piuttosto che costituire l’esito di una proliferazione visuale anestetizzante marca in certa misura l’origine stessa della reimmissione dell’oggetto nel contesto culturale, per questo  solo “un tentativo semplice di ricostruire un sentimento di appartenenza e pacificazione, un «percorso possibile» all’interno dei territori da fotografare e raccontare”[19], può ancora consentire di scoprire “l’enorme potere di rivelazione che ogni nostro sguardo può contenere; [la necessità] di una visione che ci «riconsegni» i monumenti e le architetture grandi e piccole che compongono il nostro habitat, nonché i colori che lo determinano e lo definiscono. (…) quasi in un gioco di sottile dimenticanza, per lasciare all’esterno la possibilità di rivelarsi, o comunque cercare nella visione un punto di equilibrio tra la mia soggettività e i dati dell’esterno”[20]. “Penso che oggi bisogna (…) continuare a pensare alla fotografia come desiderio, immagine dialettica, e forse utopia, per mostrare all’altro il nostro stupore nei confronti del mondo (…) e che da questa semplice constatazione o progetto nascono il fare, le percezioni e i sentimenti”[21], perché “mai come oggi l’uomo è travolto dalle immagini, e mai come oggi queste gli dicono poco. L’uomo è talmente saturo che non sa più provare emozioni. La fotografia ha quindi un compito etico ancor prima che estetico.”[22]

 

In questo contesto si colloca il lavoro condotto da Ghirri sui castelli valdostani, lavoro che come molti altri realizzati  su commissione lo porta a confrontarsi coi monumenti,  coi luoghi notevoli, e comuni, di ciascun territorio, apparentemente lontano e in contraddizione coi suoi primi interessi, penso in particolare a In scala (1977-1978 ), ma in realtà tutto compreso all’interno di una riflessione più ampia e matura sui rapporti tra artificio e natura, sulla rappresentazione e  sul doppio, sul nostro essere culturale nella storia: produttori, consumatori e narratori di luoghi ridotti ad immagini;  nella consapevolezza che il rapporto col sito storico si dà sempre e comunque nel presente e nonostante l’appartenenza dell’icona castello al reame dell’immaginario, esiste ancora – e va mostrata – la sottile differenza che distingue Fénis, Issogne e Verrès da Disneyland e altri nonluoghi.[23] Abbandonata per un momento l’indagine sui margini (anche delle convenzioni rappresentative, non solo urbani o geografici) Ghirri si misura con temi compresi tra  Grand Tour e Touring Club (Abbazie, Campanili, Cappelle, Castelli, Centri storici, Chiese, Conventi, Fontane monumentali, Musei, Palazzi, Ponti, Teatri, Torri, Ville) , con spazi e luoghi cioè che non sono  stati “dimenticati dalla storia”. è proprio nell’interrogarsi sulla possibilità di narrare di nuovo questi luoghi facendo i conti con lo stereotipo per “squarciare il muro percettivo che ci accompagna”[24]  che risiede l’interesse alto e la grande qualità della riflessione di cui queste immagini  sono l’esito.

Il punto nodale è allora la comprensione – che determina poi le forme del narrare – del nostro rapporto con la storia, “alla ricerca di quell’originale [necessariamente] perduto” che non possiamo che riscoprire nella contemporaneità della nostra percezione. Ha ricordato Arturo Carlo Quintavalle ormai parecchi anni fa[25] che le foto di Ghirri dimostrano la consapevolezza di chi ha coscienza non solo di essere immerso in “una civiltà dove originale e copia non esistono perché tutto è ambiguamente duplicato, incerto tra realtà e immagine della realtà”,  ma anche esprimono  una “durata” che deriva dal “soffermarsi sulla dimensione della storia degli oggetti, ma una storia che è sempre dentro l’oggi, non documento di una storia staccata, lontana da noi”, trama di una esperienza in cui i  singoli elementi che costituiscono il manufatto storico “ci appaiono come brani di uno straordinario «Romanzo storico». Ed è così che si ha la sensazione che la storia possa essere condensata in questo «Castello in aria» [riferendosi alla Sacra di San Michele in Valle di Susa] dove tutto è sospeso, dove le nuvole in certi momenti nascondono il castello e dove in altri lo mostrano sospeso su loro stesse.”[26]  “Romanzo storico”, “Castello in aria” sono qui termini sin troppo chiaramente sintomatici di un modo di percepire e comprendere il monumento, la “permanenza” di rossiana memoria[27], che Ghirri mostra a partire dalla fine degli anni Ottanta: “Sentiamo che abbiamo abitato questi luoghi, una sintonia totale ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere al di là dei nostri sguardi”[28],   e ancora:  “è necessario recuperare una forma di umiltà di fronte al tempo e alla durata delle cose, e proporre un  punto di equilibrio fra artificio e natura, fra rilevazione e rivelazione. Quello che ci è dato di conoscere non è che una smagliatura. Eppure è qualcosa di irripetibile…”[29]. È in questo scarto che risiede la possibilità di rappresentare di nuovo, di  “osservare il mondo in uno stato adolescenziale, rinnova[ndo] quotidianamente lo stupore”[30], che coincide per Ghirri con la ragione stessa del fotografare.

È in questa “piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo” che si insinua lo sguardo del fotografo scoprendovi il solo spazio “che ci è dato di conoscere, raccontare e rappresentare”;  è qui che “si può spiegare l’aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono”  dove, richiamando le categorie di Roger Callois[31], ciò che emerge non è l’universo meraviglio  del fiabesco “che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza”,  ma quel fantastico che “rivela uno scandalo, una lacerazione, una irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale”[32].

Per questo, come aveva ben compreso Massimo  Mussini, “per Ghirri la fotografia non è «invenzione» nel senso tradizionale pittorico, ma inventio nel senso primo di ritrovamento, scoperta, e dunque disvelamento, della realtà fenomenica” [33] o, come ha detto lui stesso: “credo che la fotografia sia semplicemente la rappresentazione di come si percepisce la realtà”[34].

Qui, nell’accettazione del proprio rapporto dialettico col mondo che si fa immagine, risiede la possibilità per il fotografo di riconoscere il senso, la necessità del proprio ruolo, la sua funzione etica che lo porta a indicare, a suggerire possibili scenari di esistenza e comprensione affascinata delle cose. “So benissimo che l’immagine fotografica non è la realtà – dice Ghirri –  ma l’osservatore, nel momento in cui guarda una fotografia, inevitabilmente viene richiamato alla realtà fotografata: questo istantaneo e duplice sguardo determina la sottile fascinazione della fotografia, per questo non credo sia necessario aggiungere, trasformare, colorare ulteriormente la realtà  fotografata. (…) Io penso di agire e intendo lavorare con leggerezza e trasparenza”[35].

Questo non è un elogio ingenuo della “naturalezza” o della presunta obiettività dell’immagine fotografica; tutto il suo lavoro, inutile sottolinearlo,  si è svolto intorno al profilo problematico di questa presunzione ingenua e storicamente significante. La realtà mostrata non può che essere – da sempre – quella fotografata ma, dopo le ricerche degli anni ‘70, tale postulato non necessità più di essere ostentato, non marca esplicitamente l’esito formale di uno sguardo rivolto a scorci inconsueti per eccessiva normalità. Ora la rivelazione è più complessa e sottile, verificata in contesti più rischiosi, invischiati in una tradizione iconografica dalla quale è possibile liberarsi solo accettando di subire “il sottile fascino malefico della doppia visione che si ha quando si osserva una fotografia, seduzione della differenza che esiste tra la cosa e la cosa fotografata, lo scarto percettivo del doppio sguardo che continua a catturarci”[36].

è  l’esplicitazione della retorica della messa in scena, sottesa alla semplicità di uno sguardo che ormai non ha più bisogno di essere ironico, di segnare una distanza ulteriore e distinta da quella già insita nell’atto della trasformazione in immagine. Ciononostante il lavoro non giunge ad assumere posizioni di straniamento, non più almeno, ma anzi rivela la volontà di raggiungere  “la percezione della quotidianità degli spazi che compongono un paese come l’Italia”[37],  allargando il  Catalogo sino a “realizzare una specie di «legenda» italiana, legenda nel senso di cose da vedere in quanto sono dei modelli, come a dire degli archetipi, oppure un abbecedario.” (p. 305, 1991) nel quale – come sempre – “Le foto assumono senso dal loro essere dentro un «sistema», all’interno di un montaggio o discorso narrativo”, mentre la “rinnovata attenzione alla singola immagine”[38] appartiene al  superamento della fase più marcatamente programmatica di cui si diceva, in direzione di una più complessa condivisione di analiticità e sentimenti .

 

 

 

Teatri di luce e accoppiamenti giudiziosi

 

Per queste ragioni forse alle indagini tematiche più diverse, dai paesaggi padani all’atelier Morandi, ai singoli argomenti sembra essere sotteso un tema di fondo, vero soggetto della riflessione per immagini: il territorio “vastissimo e inesplorato” (1989) costituito da quella rappresentazione dello spazio che “è sempre stata all’interno della fotografia un problema esclusivamente formale mentre, a mio parere, è anche un problema che si lega al concetto di tempo”[39] e quindi di durata e, al limite, di storia. Esso si  traduce in termini di modalità narrative in quel “adoperare la luce per cancellare alcune cose anziché per rivelarle” che costituisce certo la cifra più affascinante e magistrale degli ultimi lavori di Ghirri, ben leggibile in molte delle immagini dedicate ai castelli valdostani. La luce come fondamento stesso della fotografia nella sua concezione aurorale evocata dal ricordo della camera obscura del castello di Fontanellato,  ma anche legata alle  suggestioni di quella “architettura fatta con le ombre (…) svelata dalla luce” di cui aveva parlato Etienne-Louis Boullée riletto da Aldo Rossi[40], luce come legame rivelatore tra atemporalità e durata, tra natura e storia.

Proprio questo sapiente riconoscimento del ruolo costruttivo della luce  impedisce di collocare, ma non siamo certo i primi a riconoscerlo, il lavoro di Ghirri nella tradizione canonica della fotografia di architettura, rivelando un’altra delle sottili questioni del fare e del parlare fotografia, quella dei generi: non è sufficiente che il manufatto architettonico costituisca il soggetto della ripresa perché questa possa essere conseguentemente definita di architettura. Basterebbe il confronto, per questa serie sui castelli e specialmente su Issogne, tra le soluzioni adottate da Ghirri e quelle messe in atto da Vittorio Ecclesia più di cent’anni prima, nobile avvio di una discendenza sempre più sciatta e approssimativa. Non è questione, banalmente, dello scarto culturale tra momenti cronologicamente lontani, non è neppure un problema di inquadrature diversamente sapienti: è una diversa intenzione poetica e narrativa. Scopo dichiarato del fotografo ottocentesco è la restituzione perfetta ed equilibrata della percettibilità dell’insieme, la riduzione intenzionalmente neutrale di uno spazio a tre dimensioni immerso in una luce che tutto lega e distingue; a questa “precisione” Ghirri contrappone un desiderio di “profondità” che si traduce in invenzione dell’ombra, soluzione tutta interna certo al suo universo intellettuale e poetico, ma anche possibile risposta alle affermazioni di chi, come Bruno Zevi, ha sostenuto da sempre l’impossibilità della restituzione fotografica dello spazio architettonico. Qui, nella porzione mantenuta in ombra si colloca il punto (fisico) in cui all’osservatore è consentito di dar vita alla sua propria percezione. L’ombra è scarto e smagliatura intenzionale dell’immagine, offerta per superare la barriera della restituzione piana di uno spazio a quattro dimensioni. Questa assenza densa che è l’ombra traduce in figura quel “sentimento di indicibilità che accompagna per sempre ogni visione. Un misterioso silenzio (…) sembra diventare il modo più evidente e plausibile per costruire un racconto di fronte all’inesauribilità del mondo esterno” [41]. Ma l’ombra introduce anche una distanza, una memoria che consente di mostrare il reale come citazione di sé stesso; essa porta a  fotografare l’oggetto come se fosse memoria di quell’oggetto  stesso, che ormai non può più essere visto che attraverso una trama di rimandi e relazioni, sogni e suggestioni. Impossibili da vedere in sé, il paesaggio, l’architettura,  le cose rivelano un senso solo se ne accettiamo la loro modalità di esistenza attuale,  e per questo più ricca, mitica nel senso che a questo termine dava Aldo Rossi: “Sempre più amo le citazioni o i frammenti del passato, anche i frammenti materiali, le ricostruzioni, tutto ciò che assume un significato nuovo nel contesto (…) Mi sembra che le cose riappaiono con la permanenza del mito e che quindi noi traduciamo sempre un disegno antico.”[42]

 

Questo tradurre nuovamente dà forma a tutto il lavoro di Ghirri sui castelli valdostani, assumendo di volta in volta modalità diverse che nascono, pur nell’unitarietà della realizzazione complessiva, dalla definizione dei problemi che pongono le singole architetture fotografate, vissute essenzialmente come interni, come spazi della rappresentazione piuttosto che come figure rappresentate inserite in un contesto ambientale che non è mai dato di vedere. Certo questo è stato per Ghirri – credo – un modo per sfuggire alle insidie di una tradizione iconografica di matrice “romantica” e turneriana (accettata ad esempio nel lavoro di poco precedente dedicato alla Sacra di San Michele),  ma anche l’esito di un letterale  spaesamento, che lo obbliga a dedicare al paesaggio dei castelli pochissime immagini, poi non selezionate, in cui lo sforzo è di adattare, di “tradurre in piano” se non in pianura l’orografia che li circonda. Né gli importa ormai più di riflettere sull’identità e sul ruolo dei frequentatori turistici di questi luoghi, essi non sono più soggetto sociologico o specchio inquieto della presenza del fotografo, ma puro componente delle fenomenologia di percezione dei siti, presenza indifferente e in perenne movimento, secondo una soluzione formale di cui si ricorderà Thomas Struth nella sua serie sui Musei.

Il problema è quindi – ormai lo abbiamo capito – quello che possiamo definire del rappresentare come rappresentazione: mostrare l’artificio in modo naturale, far sì che il sedimento e la stratificazione che formano la nostra esperienza del mondo siano trasformati in figure non forzosamente retoriche, insistite lasciando “agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo”[43] segnato dalla memoria.

Ecco allora il senso profondo di queste immagini che appaiono  “teatrini che danno il senso di un mondo osservato”, come ha detto Ermanno Cavazzoni[44], dove – come in alcuni interni di Issogne – il letto a baldacchino è proscenio, aperto da cortine  vermeriane. La ripresa è esplicitamente in soggettiva: noi abitiamo l’alcova e osserviamo il mondo, affascinati e protetti, disposti ad accogliere il fantastico; ma il letto è anche spazio nello spazio, luogo misterioso e letteralmente oscuro, per accadimenti privati, teatro segreto del mondo di fronte al quale il visitatore è invitato  a passare senza far rumore, attratto dalla doppia fuga prospettica che si apre sul fondo; apertura su spazi discordi, doppia possibilità di prosecuzione del racconto, tra raccoglimento e azione dinamica, per indicare la complessità e l’articolazione dell’organismo architettonico che vive nel tempo: forma, volume e luce, il colore della luce. Doppie aperture e riquadrature come scatole ottiche  compaiono anche  in molte altre immagini, organizzate in composizioni nelle quali i ritmi neoplastici riemergono come sorprendente reperto antico, e costituiscono la soluzione felice ad un problema sottile e complesso, quello di rendere ragione, di restituire fotograficamente spazi concepiti prima del “paradigma” prospettico, per i quali risulterebbe improprio e inadeguato il ricorso alla frontalità della prospettiva centrale insita nella stessa concezione dell’apparato ottico utilizzato.[45] Ecco allora che l’asse centrale dell’immagine risulta sovente occupato da un elemento sordo e piano, che ha lo scopo di suddividere e raddoppiare l’inquadratura distribuendo lo sguardo su fughe diagonali, a volte con effetti caleidoscopici.  Lo si vede bene nella serie dedicata a Fénis in cui, fin dall’ingresso, la visione è mediata dai fornici degli archi, improvvisamente vuoti e silenziosi dopo il passaggio dei visitatori, mentre l’avvicinarsi allo scalone è progressivo e lievemente obliquo. Poi,  lo sguardo si muove lungo i ballatoi ai diversi piani, fermandosi a definire inquadrature in cui la sottolineatura di una fuga prospettica, raddoppiata ancora da un’apertura finale, è riequilibrata dalla sovrapposizione per piani di più fondali distinti, ciascuno corrispondente ad un differente elemento di articolazione dello spazio del castello, con aggiustamenti progressivi del punto di ripresa che generano sottili ed eloquenti differenze nell’articolazione dell’immagine finale. Il ricorso al codice prospettico che si trasforma in linguaggio e forma della narrazione ritorna ancora negli interni di Verrès,  specie nella sequenza relativa all’antica cucina padronale, dove gli allineamenti ottici informano palesemente e virtuosisticamente lo spazio, mostrandone chiara la sua caratteristica essenziale di “cosa fotografata.”

Quando lo spazio è più ristretto e pieno, come nel punto nodale del loggiato al secondo piano di Issogne, Ghirri procede per direzioni tra loro ortogonali, per mostrare l’addensarsi dei diversi elementi,  avvolti in una luce calda e morbida che riporta alla memoria le architetture fotografate da Frederick Evans. Cunicoli, passaggi e porte,  arcate,  ciascuno di questi costituisce elemento di articolazione e di raccordo, ma specialmente le scale, nelle differenti tipologie e forme, assumono un valore e un ruolo particolare in questo racconto poiché suggeriscono un al di là dello spazio rappresentato, sino a divenire, specialmente per Issogne (guardate attraverso il filtro di suggestioni costruttiviste), elemento strutturale della narrazione, ordito del racconto di cui la sequenza di sguardi costituisce la trama, filo conduttore ed elemento di congiunzione narrativa, suggerimento e anticipazione, ma anche elemento dinamico in grado di muovere lo spazio con espansioni e compressioni che dipendono dalla direzione dello sguardo.

Intrecciati e disseminati lungo il racconto di questo viaggio nei castelli valdostani incontriamo poi segnali e memorie di altri luoghi e di altri sguardi: i toni caldi degli intonaci della Certosa di Capri e delle case emiliane, le ombre rivelatrici dell’Interno di Villa Sorra, le scenografie e i teatrini di Rossi, i graffiti e i monocromi dell’Atelier Morandi, le finestre a crociera di Versailles e quelle della scuola di Fagnano Olona, ancora di Rossi: sono sintomi della forte autoreferenzialità del progetto visionario di Ghirri. Il riemergere di rimandi e analogie, di memorie visuali che suggeriscono autocitazioni consente di  ribadire con leggerezza determinata le ragioni del mostrare;  per ricordare sempre non solo “il fascino malefico della doppia visione”,  ma anche che ciò che si sta progressivamente compiendo davanti ai nostri occhi non può essere altro che la costruzione di un autoritratto per immagini.

 

Note

 

 

[1] Luigi Ghirri, Luigi Ghirri, in Il museo diffuso. Beni culturali e didattica a Cesena, catalogo della mostra (Cesena, Galleria Comunale d’Arte – Palazzo del Ridotto, 4 luglio – 13 settembre 1987). Milano: Mazzotta, 1987, pp.19-20, ora in Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte. Torino: SEI, 1997, pp.125-126. A questa fondamentale raccolta di scritti (d’ora in poi NASS ) si rimanda per i dati editoriali delle fonti bibliografiche citate di seguito, per le quali si forniranno qui solo, titolo, data di  prima pubblicazione e riferimento alle pagine della raccolta.

 

[2] Data al 1869 l’album La Vallée d’Aoste  monumentale photographiée et annotée historiquement di Meuta e Riva, pubblicato a Ivrea dalla Tipografia Garda,  che costituisce sinora  il primo esempio noto di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio culturale della Valle.

 

[3]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326.

 

[4]Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

 

[5]Bruno Orlandoni, Architettura in Valle d’Aosta. III. Dalla Riforma al XX secolo. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1996, p.354

 

[6] “Questi giovani artisti traversavano la Val d’Aosta nei più fantastici costumi, il cappello ornato di piume, cantando e ridendo” – ricorderà Pietro Giacosa molti anni dopo, ed ancora: “Non so se fu nel 1872 o nel 1873 [in occasione di un Natale] Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro.”, Pietro Giacosa, Il Castello di Issogne, con fotografie di Augusto Pedrini. Verona: Stamperia Valdonega, 1968, p.4 passim.

 

[7]Il volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898, offerto da “La Stampa” quale strenna ai propri abbonati, sancirà definitivamente la fortuna turistica di questi luoghi. Lo stesso Giacosa aveva firmato l’introduzione all’album  Il castello di Issogne in Val d’Aosta: Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884], con diciotto tavole fotografiche di Vittorio Ecclesia, destinate a “invogliare gli studiosi ad uno studio speciale intorno a questo singolarissimo edificio.” (p.II). Alcune di queste tavole, tradotte in litografia da Carlo Chessa, verrano utilizzate per illustrare il volume del 1898 ma erano già state ripubblicate da Robert Forrer, Spätgothische Wohnraume und Wandmalereien aus Schloss Issogne.  Strassburg: Schlesier,  1896, con una inspiegabile attribuzione all’editore Manias & Co.

 

[8]Per la ricostruzione delle vicende che portarono alla realizzazione del Borgo cfr. Rosanna Maggio  Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43. L’operazione di riscrittura apparentemente oggettiva  sottesa alla realizzazione di questo complesso è stata accuratamente studiata da Carla Bartolozzi,  L’invenzione della Rocca e del Borgo Medievale di Torino, in Id., a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995, pp.21-46. Su questi temi si veda ora anche Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

Che non fosse il puro interesse archeologico a costituire il nucleo forte dell’interesse di questo circolo intellettuale ed artistico per  il passato, e quindi anche per le architetture medievali valdostane e per la loro riproposizione, è dimostrato dal clima giocoso in cui si svolse il banchetto offerto ad Alfredo d’Andrade in occasione della stessa Esposizione,  a cui l’ospite d’onore  intervenne “travestito da Ercole [con] in mano una clava ed in testa il gibus”, secondo un gusto della messa in scena che lo aveva visto di volta in volta indossare, col suo ristretto gruppo di amici, costumi medievali o rinascimentali, cfr. nota  6.  Lo stesso Camillo Boito celebrerà il fascino romantico di queste costruzioni ricordando che “Un castello antico è bello al lume di luna, quando gli  sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido che le fa parere fantasmi giganteschi;  quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che  vi  sta a lato, si avviticchia a voi, stretta, tremando.”, cfr.Torino e l’Esposizione Generale Italiana 1884. Cronaca illustrata dell’Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale – F.lli Treves, 1884, p.67 e p.334.

 

[9]Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

 

[10]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra; apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977; Alfredo d’Andrade, op.cit.

 

[11]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna   Maggio  Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte, op.cit., pp.17-20. Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, Anno Accademico 1993-1994 e Simona  Paggetti, a.a. 1994-1995.

 

[12] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, “Ruskin e il dagherrotipo”, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

 

[13]Giuseppe  Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884, Catalogo ufficiale della sezione Storia dell’Arte. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p.9.

 

[14]La corrispondenza di queste fotografie all’immaginario collettivo di argomento castellano fu tale  che vennero ripubblicate ne “La Fotografia Artistica” ( giugno-luglio 1911, pp.98 ss.) e quindi riprese in parte, anonime, nel volume di Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello Medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino:  Tipografia Carlo Accame, 1934.

 

[15] Sulla figura e il ruolo del Di Sambuy cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; Id., Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Rosanna Maggio Serra, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

 

[16]Gaddo Morpurgo, L’architettura fra le immagini di se stessa, in Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria comunale d’Arte moderna, gennaio – febbraio 1980), a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier. Bologna: Grafis, 1980,  pp.9-38 (35).

 

[17]Bruno Orlandoni, op.cit., p.333;  ad ulteriore testimonianza e conferma della connotazione di questo patrimonio architettonico derivata da un medioevo immaginario l’autore richiama il caso del castello di Saint Pierre, ‘restaurato’ nel 1881 da Camillo Boggio adottando “l’infelice soluzione delle quattro torrette angolari pensili che costituiscono una delle icone più vendute dell’odierna Valle d’Aosta turistica.” (p.358). La formazione dell’iconografia della Valle è stata ricostruita da Marco Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine. Bari: Laterza, 1994, dedicando però scarsa attenzione a quello che lui stesso definisce il “secondo mito, la Valle d’Aosta dei castelli”, p.190; per quanto riguarda la fortuna  fotografica di questo tema va ricordato che già nel 1898 Mario Sansoni, operatore degli Alinari, documenta Fénis, Verrès e Issogne, che compariranno nel n.39 della collana “Italia monumentale” dedicato a La Valle d’Aosta. Firenze: IDEA/Alinari, 1922, con un testo dell’architetto Cesare Bollea. Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,   “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925]; Domenico Prola, Vittor Pisani, a cura di, La Valle d’Aosta si affaccia al nuovo secolo. Archivi Alinari 1892/1930. Firenze: Edizioni Alinari, 1979, con immagini Alinari e Anderson.

 

[18]Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi,  1980,  pp.86-94, corsivi dell’autore.

 

[19] Una luce sul muro, 1991, in  NASS, p.166.

 

[20]  Il museo diffuso, 1987, in  NASS, p.125-126.

 

[21] Pensando a un’immagine necessaria, 1987,  in  NASS, p.119.

 

[22] Collezionista di attimi, 1991, in  NASS, p.304.

 

[23]Marc Augé, Disneyland e altri non luoghi. Torino: Bollati Boringhieri, 1999.

 

[24]  Paesaggio e rivelazione, 1990,  in  NASS, p.299.

 

[25]Arturo Carlo Quintavalle, Luigi Ghirri, 1982, ora in Id., Messa a fuoco. Milano: Feltrinelli, 1983, p.445-447

 

[26]Luigi Ghirri, Il romanzo della Sacra, in Giovanni Romano, a cura di, La Sacra di San Michele. Torino: SEAT, 1990, p.353

 

[27]Le “permanenze [sono] un passato che sperimentiamo ancora”,  Aldo Rossi, L’architettura della città.  Marsilio: Padova, 1973 (I ed., 1966), p.51.  Il  rapporto Ghirri Rossi è stato studiato da Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi. Cose che sono solo se stesse.  Milano – Montréal: Electa – CCA, 1996.

 

[28] Il paesaggio impossibile,1989,  in  NASS, p.155.

 

[29]  Paesaggio e rivelazione,1990, in  NASS, p.300.

 

[30] Un canto della terra, 1989, in  NASS,p.296.

 

[31]La citazione tratta dal saggio di Callois Dalla fiaba alla fantascienza che Ghirri richiama per definire la propria idea di paesaggio (Niente di antico sotto il sole, 1988,  in NASS, p.138) era stata da lui utilizzata l’anno precedente (Il punto di scomparsa, 1987, in NASS, p. 98) per definire l’opera dei New Topographers Egglestone, Shore, Baltz, Gossage e Adams, presentati in  Nuovo paesaggio americano. Dialectical landscape, catalogo della mostra (Venezia, Museo Fortuny,  aprile 1987), a cura  di  Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola.  Milano: Electa, 1987, e costituisce quindi una indiretta ma nettissima dichiarazione di consonanza se non il riconoscimento di una appartenenza.

 

[32] Niente di antico sotto il sole, 1988, in  NASS, p.138.

 

[33]Massimo Mussini, Luigi Ghirri – «Vera fotografia», in Luigi Ghirri. Parma – Milano: CSAC – Feltrinelli, 1979, pp.9-31 (23)

 

[34] Un canto della terra, 1989, in  NASS, p.298.

 

[35] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.313.

 

[36] L’enigma fotografia, 1987, in  NASS, p.122.

 

[37] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.308.

 

[38] Ivi, p.307.

 

[39] Ivi, p.308.

 

[40]Aldo Rossi, Introduzione a Boullée, in Etienne-Louis Boullée, Architettura: Saggio sull’arte. Padova: Marsilio, 1967, citato in Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi, op.cit., p.26.

 

[41] Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, 1988, in  NASS, p.133.

 

[42]Aldo Rossi, Premessa: Altre voci, altre stanze,  in Alberto Ferlenga, Aldo Rossi. Architetture 1988-1992.  Milano: Electa, 1992, pp.7-8, apparato fotografico di Luigi Ghirri e Daniele de Lonti.

 

[43]Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, 1985, in NASS,  pp.70-71. Le parole che Ghirri dedica ad Evans possono essere lette come un viatico alla sua stessa produzione, specialmente quando riconosce la necessità di queste immagini in cui “tutto sembra naturale” e dall’assenza di “contraddizione tra il naturale e l’artificiale” nasce una “sensazione di unità e sintonia.”

 

[44]Citato da Gianni Celati, Commento su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano. Milano: Feltrinelli, 1989, p.n.n.

 

[45]La questione della coerenza culturale, se non ideologica, tra tradizione rinascimentale e apparato fotografico – ormai da tempo oggetto di riflessioni non sempre concordi – è ben sintetizzata da Rudolf  Wittkower: “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani.”, citato in Carlo Bertelli,  La fotografia come critica visiva dell’architettura,  “Rassegna”, 6 (1984), n.20/4, dicembre, pp.6-13. Le implicazioni  di carattere non tanto simbolico quanto paradigmatico della prospettiva sono state discusse da Hubert Damisch, L’Origine de la perspective. Paris: Flammarion 1987 (trad.it., L’origine della prospettiva. Napoli: Guida Editori, 1992). La consapevolezza di questo ordine di problemi apparteneva naturalmente anche al bagaglio culturale e alla sensibilità di Ghirri, come ha ricordato Gianni Celati, op.cit.: “Ghirri dice che una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca, perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua.”  Gli accorgimenti “prospettici” adottati nella costruzione di Fènis sono stati analizzati da Domenico Prola, Ipotesi di lettura simbolica, in Bruno Orlandoni, Domenico Prola, Il castello di Fenis. Aosta: Musumeci Editore, 1982, pp.3-38 (in particolare alle pp.17-20).