Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

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Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

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Mario Sansoni 1987

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Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

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Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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Piero Becchetti, L’opera fotografica di Giacomo Caneva, di Ludovico Tuminello e di John Henry Parker in un prestigioso fondo romano, in Romano 1994, pp. 17- 31

 

Becchetti 2003

Piero Becchetti, “La natura stessa è fatta di sé medesima pittrice”. Quindici anni di vedute romane, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp. 10-38

 

Bernardi 1936

Marziano Bernardi, Vittorio Avondo, in Avondo 1936, pp.n.n.

 

Bernardi, Viale 1957

Marziano Bernardi, Vittorio Viale, Alfredo d’Andrade. La vita l’opera e l’arte. Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti: 1957

 

Bertelli, Bollati 1979

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Bertone 2001

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Biscarra 1870

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Biscarra 1878

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Bordini 1991

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La Borghesia allo specchio 2004

La Borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Calle, Nèagu 1988

Marie-Thérèse Calle, Philippe Nèagu, Photographies: Barbizon d’hier et aujourd’hui. Barbizon: Musée municipal de l’Ecole de Barbizon, 1988

 

La Campagna romana 2001

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Canestrini  2000

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Caneva  1855

Giacomo Caneva, Della Fotografia. Trattato pratico di Giacomo caneva pittore prospettico. Roma: Tipografia Tiberina, 1855 (ripr. facsimile Firenze: Alinari, 1985)

 

Caneva 1989

Giacomo Caneva e la Scuola Fotografica Romana (1847 / 1855), catalogo della mostra (Roma, 1989), a cura di Piero Becchetti. Firenze: Alinari, 1989

 

Carandini 1925

Francesco Carandini, La Rocca e il Borgo Medioevale eretti in Torino. La figura e l’opera di Alfredo De Andrade. Ivrea: 1925

 

Cartier-Bresson 2003

Anne Cartier-Bresson, “La méthode romaine: entre prospection et adaptation », in Roma 1850  2003, pp. 15-21

 

Cassanelli 1998a

Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Cassanelli 1998b

Robeto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, “Quaderni”, 8. Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, pp. 41-47

 

Castelli e cattedrali 1999

Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 1999), a cura di Clara Gelao, Gian Marco Jacobitti. Bari: Mario Adda Editore, 1999

 

Castello d’Issogne 1884

Castello d’Issogne in Val d’Aosta. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884]

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 107-125

 

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Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in Antichità ed Arte nel Biellese, atti del convegno (Biella 14-15 ottobre 1989), a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, n.s., XLIV, 1990-1991, pp. 199-216

 

Cavanna 1997a

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

Cavanna  1997b

Pierangelo Cavanna, Sketches of London, in Antonio Fontanesi 1818 – 1882, catalogo della mostra (Torino, 1997), a cura di Rosanna Maggio Serra. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 185-189

 

Cavanna 1999

Pierangelo Cavanna, Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, 1999). Aosta: Musumeci Editore, 1999

 

Cavanna 2000a

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Cavanna 2000b

Pierangelo Cavanna, Musei Civici di Torino. Il patrimonio fotografico. Analisi della consistenza, tipologia e stato di conservazione dei fondi, dattiloscritto

 

Cavanna 2003

Pierangelo Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858 – 1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837 – 1898, catalogo della mostra (Torino 2003 – 2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003, pp. 79-98

 

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Corot 1994

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Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

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Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

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  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Mario Gabinio, vita attraverso le immagini (1996)

in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35

 

 

“Prime prove con macchina da L.10 su carta albuminata, 1889? .

La ricostruzione dell’attività di Mario Gabinio si apre con questa sua nota autografa apposta in calce ad un piccolo gruppo di immagini realizzate in Valle di Aosta, al Gran San Bernardo, raccolte in uno dei tanti album che l’autore realizzerà nei decenni successivi.  Essa racchiude, come quasi sempre accade  in questa vicenda, informazioni dettagliate, precise, sulle quali sembra possibile costruire ipotesi biografiche e critiche non arbitrarie, e dubbi, incertezze difficili da districare. Di lui rimane l’opera, conservata quasi  integralmente nel Fondo omonimo della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ma scarse testimonianze documentali o indirette della sua biografia, rari e contraddittori elementi paratestuali che siano in grado di suggerire o indirizzare la decifrazione del lavoro di questo fotografo che, alla sua morte, ha attraversato l’esatta metà della breve storia della fotografia riflettendone i mutamenti continui ma conservando anche, intatta, una coerenza di fondo, una presa di posizione precisa per quanto sommessa, che costituisce per noi una scelta di campo, una implicita dichiarazione d’intenti a favore della “documentazione artistica”.

Le prime testimonianze coeve disponibili parlano di Gabinio quasi solo in relazione alla sua ‘curiosa’ figura di escursionista-fotografo, accentuandone i lati pittoreschi e forse un poco esibizionisti[1], e per averne un ritratto meno angusto si deve attendere il ricordo redatto dal nipote Ivan Alessio nel 1939[2], certo più ampio ed articolato, il solo  a fornire -seppure in modo incompleto- un piccolo ritratto di quella che definisce “caratteristica e simpatica figura di artista e di cultore appassionato e tenace della fotografia (…) Fotografo non per interesse ma per passione (…) Alla ricerca continua del ‘meglio’ eseguiva molte fotografie per un solo soggetto (…) Ed erano lunghe soste sotto il sole od al freddo; erano studi lunghissimi per ottenere negli interni di chiese, e di palazzi monumentali, il voluto ed a volte difficilissimo effetto, per superarsi e vincere le difficoltà di ambiente che rendevano a volte difficile, quasi impossibile l’eseguire la riproduzione quale lui la voleva, nobilitante le bellezze e i pregi e nascondente o quanto meno attenuante i difetti e le disarmonie. Erano studi che continuavano nella solitudine della sua casa, nella camera oscura per provare e riprovare le varie carte fotografiche, i vari ‘bagni’ e i vari viraggi. Erano somme ingenti spese per ottenere dei contrasti su carte speciali, per ottenere gli effetti che il suo occhio di artista aveva visto al vero. (…) Malgrado il suo alto sentimento artistico e grandi capacità era modesto come la vita che conduceva; arguto assai sapeva con una buona battuta accattivarsi le simpatie di (sic) persone e allontanarle magari dall’inquadratura della fotografia che non le richiedeva. È scomparso con lui, se non un fotografo di eccezione, certo un appassionato ed originalissimo cultore di quest’arte.”

Questa testimonianza affettuosa e sottotono conserva, preziosa, le sole labili tracce di un atteggiamento nei confronti della pratica fotografica che è nostro compito ricostruire in forma compiuta analizzandola criticamente, cercandone le ragioni  nelle vicende coeve, nelle culture fotografiche che ne hanno accompagnato il suo svolgimento.

Si tratta allora di intraprendere un lavoro interpretativo che si proponga di superare la distanza che ci separa (in termini di tempo, di cultura) dal corpus di testi figurativi che costituisce l’opera di Gabinio, mettendo in atto una interpretazione cosciente del suo proprio “intendere intenzionale”, che “segue un certo progetto, deriva da una certa  precomprensione, da un qualche necessario pregiudizio” (Volli, 1994, p.40).  Si tratterà insomma di riconoscere i “tre tipi di intenzioni” definiti da Umberto Eco (1990, pp.22-25)  nella rassegnata consapevolezza di una irrimediabile povertà di elementi in grado di testimoniare l’intentio auctoris, costretti a  mettere  in atto una operazione di riconoscimento  delle caratteristiche dell’opera, di ciò che essa comunica (intentio operis) attraverso la formulazione di una serie di congetture e la definizione di tattiche interpretative ed ipotesi critiche che determinano il nostro “atto di lettura [da intendersi come] una transazione difficile fra la competenza del lettore (la competenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica.”[3]

Lo strumento, il percorso, a cui siamo ricorsi in prima approssimazione è quello dell’analisi cronologica, scelta certo arbitraria e forse poco aderente al discorso di Gabinio se pensiamo che i suoi esempi di strutturazione del testo (gli album) hanno criteri di aggregazione che sono -piuttosto- tematici ma, appunto, una delle nostre congetture, dei nostri pre-giudizi, è la modificazione del lavoro fotografico di Gabinio in modo parzialmente lineare, traducibile  in cronologia, e la sua aderenza, in forme ogni volta diverse, allo spirito del proprio tempo.

 

 

Non conosciamo le ragioni precise o  le eventuali influenze che portarono Gabinio ad occuparsi di fotografia o -meglio- ad acquistare la prima macchina fotografica, ma certo negli anni in cui questo accade, intorno al 1890, l’evento non riveste più alcun carattere di eccezionalità per un giovane della piccola borghesia urbana, ormai dotato di una sua risicata disponibilità economica imposta dagli eventi.[4] Con le semplificazioni della tecnica fotografica che caratterizzano l’ultimo decennio del XIX secolo la fotografia entra  nella sua prima fase di grande diffusione fotoamatoriale, e si inaugura un periodo della sua breve storia ricco di contraddizioni e fermenti, durante il quale la fotografia si accompagna sovente ad altri fenomeni sociali propri dell’epoca, in particolare alle diverse forme di associazionismo turistico in cui, superato il meccanismo della cooptazione secondo criteri di  censo tipico dei club d’élite ottocenteschi, l’aggregazione si fonda sulla condivisione di un programma, supera i confini di classe, e costituisce in molti casi un elemento di forte integrazione sociale.[5]

Esempio tipico di questa connotazione nuova delle strutture  associative è la torinese Unione Escursionisti (U.E.T.), fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, ambedue impiegati delle Ferrovie dello Stato con la passione per la montagna, con lo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”[6] Il successo è tale che al 1898 -quando L’U.E.T. si presenta con una propria sezione nel padiglione della Didattica alla Esposizione Nazionale di Torino, il socio Ercole Bonardi illustrandone brevemente le vicende sul giornale dell’Esposizione può affermare orgogliosamente che “ormai fra gli Escursionisti c’è gente di tutte le condizioni, dal piccolo negoziante all’impiegato, al professionista, al Consigliere comunale, al Deputato”. [7]

Gabinio ne entra a far parte nel 1894 e durante alcune escursioni alpine realizza le sue prime fotografie di un certo interesse, segno ormai di una buona padronanza del mezzo come dimostra il Panorama in tre parti dalla vetta del Rocciamelone realizzato nel luglio di quell’anno forse seguendo le suggestioni di immagini analoghe viste alla “Esposizione Fotografica Alpina” che si era tenuta l’anno precedente nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, di Torino, dove sei dei ventotto autori  presenti esponevano appunto panorami.[8] Allo stesso 1894 risale anche una serie di fotografie affatto diversa: le 21 lastre relative alla “Regia Scuola Normale Femminile di Ginnastica in Torino” frequentata dalla sorella Ida; sono il primo esempio compiuto di serie organica di immagini nella produzione di Gabinio, verosimilmente realizzate su commissione per illustrare tutti gli aspetti della scuola,  dalle divise delle allieve, agli esercizi ginnici all’istruzione didattica.[9]

Questa realizzazione costituisce però un semplice intermezzo nella produzione di quegli anni: Gabinio è ancora -per quanto ci è dato di sapere- un fotografo occasionale, attivo per brevi periodi, sempre in estate e prevalentemente  in occasione di gite in montagna; in questo periodo l’attività  fotografica è sempre motivata dall’escursione e non viceversa, come risulta dalla stessa scelta dei soggetti: il paesaggio e la veduta sono ancora scarsamente presenti e l’attenzione è rivolta al rito sociale,  all’esperienza di gruppo della gita, con notazioni tra il celebrativo e l’ironico nella documentata conquista di cime sin troppo accessibili.  Solo durante le ascensioni realizza le prime, vere vedute alpine; qui la montagna è presentata quale entità geografica pura, spoglia di presenze umane, forzando la veduta al panorama in un tentativo di estrema oggettivizzazione. Questa alternanza è ben documentata nelle prime immagini pubblicate da Gabinio nella  Guida Reynaudi dedicata a Ceresole Reale, edita nel 1896[10], certo una opportunità importante che gli viene offerta, il primo riconoscimento dell’interesse del suo lavoro ed uno stimolo a proseguire in modo meno occasionale, maturando il proprio interesse per una attività condivisa con altri membri dell’Unione Escursionisti, quali Treves e Belli, le cui opere sono nel frattempo presentate all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895.[11]

Testimoniano questo nuovo impegno sia l’adozione di un formato maggiore (18 x 24) sia le sperimentazioni condotte  in fase di ripresa (ripetizione in diurna e notturna, utilizzazione del lampo di magnesio) ed in fase di stampa, mediante il ricorso a carte ed a viraggi differenti (A25/44), alla ricerca di una propria forma espressiva che si risolverà infine in un sostanziale rifiuto delle manipolazioni proprie della fotografia pittorica, per un’immagine che si presenti con un “aspetto armonico ed artistico” ma in grado di “dare tutti i dettagli”, così come viene teorizzata ad esempio  da Jules Brocherel[12] e proposta -almeno in quegli anni- da un nume tutelare come Sella;  una fotografia insomma che riesca a coniugare artisticità della composizione e ricchezza di informazione, qualità estetica e valore documentario, ricorrendo coscientemente a tutti gli elementi tecnici, e quindi linguistici, che ne costituiscono lo specifico. Al modello costituito dal fotografo biellese Gabinio fa esplicito riferimento in alcune immagini dei primi anni del secolo;  in particolare il confronto assume le caratteristiche di una vera e propria citazione nel caso  dell’immagine  di Pian della Mussa , nelle Valli di Lanzo (B123/1/30) visto da ovest con tre escursionisti di spalle in primo piano, datata 17 luglio 1900, che riprende esplicitamente Il Monte Rosa dal Monte Moro di Sella, datata 1895, presente nella collezione Gabinio[13]. La presenza di figure in primo piano è un motivo iconografico che ritorna più volte nella sua produzione, specialmente nella variante che prevede le figure in atteggiamento esplicitamente ostensivo, disposte in pose precise, realizzate con l’apparecchio di grande formato, nelle quali  il gesto esplicito dell’indice puntato,  del braccio teso,  non pare rivolto ai compagni presenti, non appartiene al  tempo della ripresa ma a quello della sua osservazione futura, è una comunicazione posticipata, un espediente narrativo, particolarmente evidente nelle vedute di ampio respiro (B122/2/42) e nei panorami.

Se i compagni di escursione sono sovente presenti nelle fotografie di montagna non altrettanto si può dire per le persone che in quelle valli vivono, riprese sempre in rigide pose e sovente ridotte al rango di “tipi”, con uno sguardo che oscilla tra il lombrosiano ed il pittoresco, condiviso con l’amico Reynaudi, lontanissimo in questo caso dall’esempio proposto da Sella e Vallino con l’album Monte Rosa e Gressoney, 1890,  in cui l’attenzione per “la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire (…) l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie, la fisionomia propria di questa popolazione” si traducono in “quadretti graziosissimi”, riconoscendo e ritrovando nelle vicende dei luoghi che si sarebbero aperti di li a poco al turismo una contraddizione che doveva essere in primo luogo loro, di cittadini, di estranei, di rappresentanti di quella imprenditoria illuminata che possedeva gli strumenti per comprendere e subire il fascino di una cultura altra, ma insieme anche la forza e la determinazione economica e politica per porre concretamente in atto quel progresso che l’avrebbe cancellata. L’atteggiamento di Gabinio riflette una minore  coscienza  di questa distanza, che pare piuttosto appartenere ai soggetti fotografati (A18/56), una curiosità senza dramma e senza pietas, piuttosto orientata verso la fotografia di genere (B125/49).[14]

Sembra di leggere qui  una traccia di quella  ritrosia che si intuisce dalla scarna biografia del fotografo, quel tenersi al margine che impedisce un confronto schietto con l’altro, con l’estraneo, il diverso, un atteggiamento che invece non ritroviamo quando col soggetto fotografato intercorrono rapporti di amicizia o di parentela, come accade nei numerosi gruppi realizzati in occasione delle gite dell’Unione Escursionisti (B123/2/35, B123/2/36, B123/2/64, A25/8)  ed in alcuni bellissimi ritratti che appartengono alla sua prima produzione, noti soltanto attraverso le lastre: si tratta di immagini di singoli o coppie (coniugi, sorelle o amiche) fotografati in esterni davanti ad un rozzo telo disteso al muro, nella migliore tradizione della fotografia ambulante e domiciliare, o di prove di ripresa effettuate nello spazio angusto del balconcino della casa di Corso San Martino, con la modella avvolta in un lungo mantello,  poggiata in precario equilibrio su di uno sgabello che consentisse migliore spazio all’inquadratura, ma anche affettuose riprese della sorella Ida mentre allatta il primo figlio, i gruppi di famiglia ed i ritratti della madre, alcuni dei quali conservati in album, di cui già aveva sottolineato il valore Giorgio Avigdor (1981), esempi tutti della qualità fotografica che il ritratto ottocentesco raggiunge tanto più quanto si allontana dalla pratica codificata, e presto sclerotizzata, della ripresa di studio,  come mostrano anche le opere di due altri dilettanti piemontesi delle generazioni precedenti Gabinio, quali Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Negri.

Ma i risultati più interessanti si ritrovano in immagini quali  il doppio ritratto di  C.Canavese e C. Varesi, 1900c.  (A23/23) in cui le figure rigidamente in posa, staccate l’una dall’altra, sembrano per sempre immobili, trasformate in caratteri, nei due tipi distinti del pedone e del velocipedista, pur mantenendo invariata la loro individualità, sottolineata dal titolo che ne riporta esplicitamente i nomi, ed ancora in quello di G.E Canale, 1900c.  (A23/26) in cui la figura del doppio rimanda invece al confronto tra i modi della rappresentazione, fotografica e pittorica, suggerendo un ambito di riflessione che non coinvolge tanto la questione della fotografia come arte  ma piuttosto quella del realismo e della possibilità delle due tecniche (dei due linguaggi) di affrontare il tema della verosimiglianza fisionomica, indagando contestualmente lo scarto tra produzione e riproduzione, accessibile solo a partire dalle possibilità metalinguistiche della fotografia.

Meno rilevanti quantitativamente ma altrettanto significative sono le immagini in cui la presenza umana  diviene elemento di lettura e di articolazione dello spazio restituito fotograficamente, come nelle vedute animate di alcune vie e piazze di Torino viste attraverso le quinte dei portici urbani, secondo  una soluzione ripresa da modelli riferibili al vedutismo  ottocentesco [15] che ritroviamo anche nella fotografia del Santuario di Santa Maria in Doblazio a Pont Canavese, 1907? (A36/50) in cui compare per la prima volta in Gabinio l’uso della disposizione scalare delle figure in relazione ai segni emergenti della scena, in un gioco di rimandi, un dialogo tra ‘emergenze’  a scale diverse tra le quali è destinato a muoversi lo sguardo dell’osservatore, attratto da un evento puramente visivo, in cui il dato di cronaca è bandito ed il soggetto è propriamente il tempo sospeso della fotografia, di quella fotografia, che concatena arbitrariamente e rende leggibili accadimenti altrimenti autonomi (A15/65, B90/5).

 

Un uso meno palesemente orchestrato, più diretto, della presenza umana lo ritroviamo in alcune delle immagini di quello che è certamente il lavoro di Gabinio all’epoca più noto, realizzato nei primi mesi del 1900 e presentato, sotto l’egida dell’Unione Escursionisti, alla I Esposizione Internazionale promossa dalla Società Fotografica Subalpina che si tiene dall’11 febbraio al 19 marzo nei locali della Società Promotrice di Belle Arti,  in via della Zecca 25[16] . Per l’occasione il Comune di Torino  bandisce un concorso dedicato alla “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente” (Brayda, 1900) che Gabinio si aggiudica con la serie dedicata a Torino che scompare (A14/ –), realizzata non “appena bandito il concorso del Municipio, vale a dire nella prima quindicina di gennaio p.p. in condizioni d’ambiente e di luce difficilissime.(…) Con quel senso artistico che lo distingue [Gabinio] ha saputo fissare un centinaio di impressioni curiose, tipiche, interessantissime, rivelando certi angoli ignorati della nostra Torino che, poco ancora, non avremmo conosciuto più” (Fiori, 1900, p.4). Il lavoro, costituito da un centinaio di riprese su lastra 9×12 dalle quali vengono ricavate 84 stampe, prende forma ed è realizzato in pochi giorni, segno di una raggiunta padronanza tecnica e di una maturità espressiva che deriva da precedenti esperienze, sulle quali occorrerà ritornare.  Per la scelta  dei soggetti, l’esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituisce una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana, piuttosto propensa alle realizzazioni di tono celebrativo[17]. Le vedute dei canali nella zona del Balôn si alternano ai tetri cortili delle case a ballatoio di via Porta Palatina, vuoti di presenze, alle vedute urbane della “città quadrata”, riprese in tagli verticali che sottolineano lo spazio angusto di “quella parte della città che si stende tra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città -nelle parole di  Edmondo De Amicis- invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s’intrica, si fa povera e malinconica. (…) Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz’uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione”[18];  la scena è più ariosa ma le condizioni generali non certo migliori nelle altre zone documentate, i cosiddetti “orti delle Benne” nella zona delle Basse di Dora, le case delle lavandaie al Borgo Rubatto, sulla sponda destra del Po, ed il ghetto di Borgo San Salvario;  qui la presenza umana all’interno dell’immagine è accettata piuttosto che cercata, quale ulteriore elemento di connotazione del luogo. Sono fotografie che è giusto definire dirette, senza compiacimenti o cadute nel pittoresco, prive di nostalgia; immagini che si propongono quali puri documenti di una condizione urbana in via di auspicata trasformazione, per opera  di quel “piccone demolitore” che compare nel titolo di una veduta di via Genova (A14/101, attuale via San Francesco d’Assisi), lo stesso a cui farà riferimento Pietro Gribaudi nel 1908 analizzando quella fase del rinnovamento urbano torinese (Comoli Mandracci, 1983, p. 215). La consonanza tra la lettura che ne offre Gabinio e l’opinione diffusa negli ambienti culturali torinesi è ben documentata, oltre che dalla assegnazione del premio di duecento lire da parte del Comune di Torino, anche dalla accoglienza favorevole che la stampa locale riserva a questo lavoro rilevandone l’importanza “come ricordo di luoghi cari che più non rivedremo e come studio di monumenti e linee architettoniche” (Fadilla, 1900) poiché “interessanti e belle per ora, queste fotografie saranno preziose più tardi, quando le cose fotografate saranno cancellate dalla memoria”[19]. Ma il riconoscimento più importante viene certamente da Riccardo Brayda che sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” pubblica in due puntate l’articolo Torino che scompare. (Da fotografie del signor M.Gabinio), che costituisce una analisi dettagliata dell’opera e l’occasione per una riflessione sulle perdite provocate da una politica urbanistica poco attenta al patrimonio architettonico: “Fra queste fotografie non mancano i quadretti assai originali, come taluni che riproducono i canali e le modeste abitazioni che in essi si rispecchiano (…) Questi soggetti ricordano un motivo che i torinesi hanno veduto riprodotto parecchie volte nelle passate Esposizioni di Belle Arti: “l’Adigetto di Verona”. A chi non conosce quella remota regione di Torino, pare impossibile che possano trovarsi colà tanti soggetti pittorici, i quali dovrebbero invogliare molti artisti del pennello a riprodurli. Colpite con assai buon gusto sono certe scene del Mercato degli stracci in quel sobborgo, e pittoresche le riproduzioni dei modesti casolari che si trovano tuttora nelle regioni di San Salvario e nel Lungo Po, edifizi dei quali non è lontana la demolizione. Il Gabinio, compreso nell’importanza del suo concorso, non volle soltanto limitare il suo studio alla riproduzione di motivi pittorici; ma con molta cura, e superando non poche difficoltà tecniche, ci lascia memoria di antiche costruzioni e di particolari architettonici, i quali, malgrado abbiano carattere storico ed artistico, dovranno sparire per causa degli sventramenti e degli allargamenti di alcune vie di Torino. Degne di nota sono le riproduzioni degli avanzi del Cisternone della Cittadella [fotografato nel 1896-97], della casa del Vescovo [fotografata nel dicembre del 1898], e, tra le costruzioni medioevali, quella di via Sant’Agostino (…). Fra  le costruzioni del settecento, è notevole una minuscola cappella accanto al vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, opera d’arte non priva di merito artistico, ma che fu lasciata in completo abbandono, e che presto, per la comodità della circolazione, dovrà essere abbattuta. Alcune fotografie riproducono molto chiaramente i particolari del cortile del palazzo (…) situato in quella parte di via Genova che è compresa tra la ex-piazzetta di S. Martiniano e la chiesa di S. Francesco, è assai modesto nella sua architettura esterna, ma è dotato all’interno di un cortile originale, che rivela quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche del settecento e che difficilmente riescono ad ottenere i moderni architetti. Originali sono gli archi poligonali invece che in curva, sovrastanti allo spazio tra le colonne binate del piano terreno, grandiose le logge del piano superiore, che fortunatamente ci furono conservate intatte. (…) Ho parlato volontieri di questo edifizio, come altra volta ebbi a descrivere il distrutto palazzo Gibellini, pure in via Genova, perché troppo soventi ho udito ripetere che a Torino non c’è nulla da vedere”[20]. L’aderenza del testo al progetto fotografico di Gabinio non mostra semplicemente una consonanza di sentire ma  ci permette di riconoscere in questo tracce più che evidenti della presenza fattiva di Brayda, un risultato visibile, concreto, di quell’opera di “inarrivabile volgarizzatore dei fasti piemontesi” (Barraja, 1912) che l’ingegnere conduce da alcuni anni anche nell’ambito dell’Unione Escursionisti, con la quale collabora a partire dal 1898, guidando gli associati in  quelle gite artistiche che costituivano uno degli scopi del sodalizio,  in un ruolo che era stato sostenuto precedentemente dall’architetto Gottardo Gussoni e dal professore Ercole Bonardi. Le mete corrispondono puntualmente agli interessi di Brayda e toccano molti  dei luoghi canonici della riscoperta del medioevo piemontese, da Avigliana a Vezzolano, da Asti a Verres, da Bussoleno e Susa a Villarbasse, alla torinese Casa del Vescovo, tutti puntualmente ripresi da Gabinio con una attenzione specifica per i valori documentali ed architettonici, in immagini in cui non prevale mai -come accade nelle coeve fotografie di montagna- il semplice ricordo della gita, la foto di gruppo con l’architettura a fare da sfondo.[21] La presenza di Brayda  risulta determinante per la formazione del fotografo, ed in particolare per la maturazione di quell’interesse per le architetture storiche che si svilupperà  pienamente nel corso degli anni Venti, ma la sua egemonia all’interno dell’associazione solleva forti perplessità, manifestate pubblicamente con una lettera aperta del presidente Fiori, pubblicata sul numero di maggio 1902 del bollettino sociale “L’Escursionista”, in cui -dopo gli apprezzamenti di rito- viene evidenziato il rischio che le troppe gite artistiche snaturino la fisionomia originaria dell’Unione: “Per qualcuno cessammo proprio completamente d’essere escursionisti [diventando] un’associazione di artisti; ed è appunto questo concetto che crediamo sia poco opportuno (…) [noi siamo] amici dei monumenti (dico amici e non studiosi)”[22]. Se la rete di relazioni istituite all’interno di questo sodalizio -in particolare le presenze di Ceradini e Gussoni oltre a Brayda- risulta un elemento fondamentale per la formazione di Gabinio non va però dimenticata l’importanza del panorama fotografico torinese coevo, ricco di figure rilevanti e particolarmente attive proprio nell’ambito della documentazione ingegneristica e del patrimonio artistico ed architettonico, primo fra tutti Secondo Pia che proprio pochi anni prima, nel 1890,  riceve una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” [23] in occasione della Esposizione Italiana di Architettura di Torino diventando di fatto un modello per il giovane Gabinio,  allora agli esordi, e certo la sua emozione dovette essere forte quando, al banchetto conclusivo  dell’Esposizione del 1900  Edoardo di Sambuy, – di fronte a Pia ed ai rappresentanti più noti della Società Fotografica Subalpina di cui è presidente – elogia le fotografie di Gabinio “da esse traendo occasione per lanciare l’idea della fondazione di un archivio fotografico”.[24] Il tema della raccolta fotografica documentaria, che attraversa tutta la fotografia ottocentesca, diviene di particolare interesse negli anni a cavallo dei due secoli e costituisce oggetto di riflessioni ed esperienze diverse in ambito internazionale e italiano. Nel 1892 era stato istituito a Roma, per iniziativa dell’ingegnere Giovanni B. Gargiolli quello che diventerà il Gabinetto Fotografico Nazionale, iniziativa legata a filo doppio al nascente problema della tutela, come viene esplicitamente dichiarato nel contestatissimo Regio Decreto del 1893 relativo all’obbligo da parte dei fotografi di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche “per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”. Lo stesso Congresso Internazionale di Fotografia che si tiene a Parigi nel 1900 (23-28 luglio) affronta il tema, specialmente per iniziativa di G. Moreau ed Alfred Liégard, contribuendo a meglio definire culturalmente e metodologicamente i termini della questione, poi ripresi in Italia da Corrado Ricci e Pietro Toesca in due interventi del 1904, da confrontare con le riflessioni coeve di Giovanni Santoponte, il quale affrontando la questione dal punto di vista dello specifico fotografico esplicita la differenza tra  museo fotografico, da intendersi quale raccolta eterogenea di immagini, e archivio, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti  riferentesi ad una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”.[25] Anche l’Unione Escursionisti partecipa di questo clima e nei primi mesi del 1901 il nuovo presidente Anselmo Giusta propone l’istituzione di un museo  presso la sede sociale individuando nella fotografia, da buon dilettante, “il mezzo più semplice, più spiccio e maggiormente alla portata dei soci per illustrare quanto si riscontra in fatto di monumenti, chiese, cappelle, castelli torri, ecc.ecc. sia antiche che moderne;  ed è quello che abbiamo scelto di preferenza, senza escludere di proposito gli altri. (…) Oltre alla fotografia dell’insieme si dovrà aver cura di riprodurre anche i particolari delle costruzioni e  delle decorazioni, gli interni degli edifici, i loro arredi ecc.” (Giusta, 1901) Si associano qui, come in decine di altri casi simili, l’ansia catalografica e la fiducia, tutta positivista, ottocentesca, nella fotografia come schermo trasparente, come strumento principe per la riappropriazione sistematica della realtà, semplicemente ridotta ad immagine, impronta reale del vero,   ma si riconosce anche,  qui come nelle riflessioni di Brocherel e Masoero, nell’opera di Pia, l’ansia di una parte del mondo fotografico di costruire e vedere riconosciuto un proprio ruolo, una propria funzione sociale e culturale che altri, nello stesso ambito e negli stessi anni, perseguono attraverso il confronto ingenuo e sovente superficiale con le retroguardie del mondo dell’Arte.

In questo clima si colloca la ricca serie di fotografie di architetture storiche piemontesi, prevalentemente  medievali, realizzata da Gabinio a partire dal 1897-1898, in cui la composizione risulta articolata e complessa, tesa ad indagare il rapporto tra lo  spazio urbano dei piccoli centri  e la presenza incombente, il segno forte di un elemento come la Sacra di San Michele  (A42/32, A37/96) o la coerenza compatta del tessuto edilizio di un centro storico, restituita nei suoi aspetti di fascinazione spaziale e architettonica mediante l’uso del grande formato, che consente l’emergere del dettaglio ed il suo apprezzamento (A21/9); ed ancora l’interesse per la città in trasformazione, in cui la documentazione si traduce in  composizioni di più ampio respiro, formalmente dotate di una propria autonomia che deriva da una sapiente distribuzione degli elementi di attenzione tra i diversi piani, come accade nella  veduta del Ponte in ferro [ponte Maria Teresa] al primo inizio dei lavori/ pel nuovo ponte, 1903 (A22/16). Ma il suo interesse non si limita al patrimonio storico; se l’influenza della cultura storicistica torinese è determinante essa comunque non esaurisce l’orizzonte di interessi di Gabinio che anzi si cimenta con le architetture effimere dei padiglioni della Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album) realizzato forse su sollecitazione dell’amico  Mario Ceradini, in cui mostra di aver raggiunto ormai una padronanza tecnica ed espressiva assolute, producendo immagini in grado di competere vittoriosamente con quelle realizzate da Remo Lovazzano, fotografo ufficiale della manifestazione.[26] Appartiene allo stesso periodo anche la bella serie sui “Periodi di costruzione di un gasometro della Soc.ta’ It.na [Società Italiana Gas] – Torino” a Borgo Dora, 1898,(A17/13, 14) realizzata -crediamo- a partire da una committenza legata alla sua frequentazione nello stesso anno del corso di Meccanica presso le Scuole Tecniche Operaie San Carlo[27] e l’interessante documentazione del cantiere di ampliamento della Conceria Fiorio a Torino su progetto di Pietro Fenoglio, tra i primi esempi di applicazione del cemento armato in una architettura industriale.[28]

 

La montagna resta però, in questi anni, il tema maggiormente frequentato ed il soggetto utilizzato per condurre le Prove su carte diverse poi raccolte nell’Album n.25. Molte di queste immagini tendono alla oggettivazione del soggetto, isolato dall’inquadratura e descritto in sé, nelle sue componenti orografiche e geologiche,  senza relazioni che ne suggeriscano la collocazione geografica; la cima o il panorama alpino come assoluto o come pretesto – in contraddizione solo apparente- per la confezione di composizioni gradevoli, graziose, sovente a profilo centinato, che guardano in particolare alla produzione pittorica del paesaggismo piemontese di primo Novecento, ad Angelo Morbelli per indicare un nome.[29] Più frequenti sono però le immagini in cui risulta leggibile, coinvolta, la presenza del fotografo alpinista, la sua esperienza del luogo, la sua percezione dell’oggetto fotografato: in alcune ciò che prevale è il senso della distanza, la separazione tra punto di osservazione e oggetto dello sguardo, tra veduta e fotografia (A39/41) mentre altre, all’opposto,  sono giocate sul senso di prossimità, di accessibilità del sito, e allora la ripresa si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo piano all’orizzonte, rimanda al percorso necessario da compiere per raggiungere la vetta (B123/1/37). Il fotografo mostra di essere nel paesaggio specialmente nelle vedute di bassa valle (A1/130, A1/132) che raccontano di spazi densi, in cui l’elemento naturale quasi sommerge i segni dell’antropizzazione, la strada, le baite; spazi letti come sistemi complessi e privi di gerarchie, restituiti in modo efficacemente preciso, analitico, sovente inseriti in un vero e proprio resoconto per immagini che descrive l’intero percorso dalla pianura alle vette, con quell’alternarsi mirato di inquadrature orizzontali e verticali che abbiamo visto utilizzato anche in Torino che scompare.

Le precise intenzioni descrittive, analitiche, si accompagnano qui alle prime evidenti preoccupazioni formali, compositive e tonali, che risentono in parte dei modelli coevi della fotografia artistica, come accade per la Cascatella sotto la Sacra di S. Michele, del 1899 (CN/4), riquadrata in stampa ad accentuarne le proporzioni verticali ed il calligrafismo, o in alcuni paesaggi più tardi (1905-1910) venati di un romanticismo mai lezioso, dove l’atto del guardare è retoricamente sottolineato dalla presenza di quinte poste in primo piano a delimitare la scena (A15/41); né finestra né specchio ma palese rappresentazione. Ciò che invece segna la distanza da quei modelli è l’assenza di flou e di manipolazioni in fase di stampa,  la ricchezza di dettaglio consentita dalla copia a contatto su carte ad annerimento diretto, per le quali anche i viraggi assumono una semplice funzione conservativa e di stabilizzazione del tono.

Il distacco risulta ancora più netto nella serie realizzata intorno al 1900 “Al Valentino – presso il ponte in ferro” (A22/1), in cui di un gruppo di alberi ripresi in controluce netto viene restituito il puro grafismo dell’intreccio dei rami, una massa intricata di segni contro il chiarore del cielo; immagini di cui è difficile trovare l’analogo nella produzione dei fotografi coevi, specialmente piemontesi. Qui la fotografia abbandona esplicitamente ogni intenzione di riproduzione per non documentare altro che se stessa e la fascinazione da cui è nata.  Questa serie costituisce il presupposto necessario per comprendere la successiva maturazione delle ricerche di Gabinio relative al tema del paesaggio, che si manifesta compiutamente intorno alla  prima metà degli anni Dieci, quando si allontana, per ragioni non note, dal gruppo dell’Unione Escursionisti, guadagnando l’indipendenza, la libertà di operare al di là di esigenze più o meno esplicite espresse o imposte  dall’appartenenza ad un gruppo. Si veda la Cascata secca (A41/21) del 1914, dove  la padronanza tecnica ed espressiva  di un linguaggio fotografico di derivazione ottocentesca gli consente di produrre un’immagine di grandissima qualità,  che supera di fatto ogni questione relativa alla fotografia pittorica; questa resta sullo sfondo, una suggestione forse non eliminabile per chi opera all’inizio del secolo con una formazione da autodidatta, ed emerge soltanto in alcuni elementi, nel modo di inquadrare certi soggetti, come nel  Paesaggio invernale al Frais (A42/7), 1910c., da confrontare con A Snow Track di Will A. Cady, presentata a Torino all’Esposizione del 1902, [30] o nella volontà esplicita di comporre il “quadretto” tipicamente grazioso ma senza osare poi il salto pittorialista ed anzi ibridando quella matrice con interventi strettamente connessi alle possibilità analitiche proprie del mezzo fotografico, confidando quindi tutto nel suo specifico: e sono le riprese scandite diacronicamente conservando meticolosamente immutato il punto di vista, dalla notte al giorno, dall’estate all’inverno. Uno strumento d’indagine, “un’opera fotografica, forse tecnicamente perfetta, o per qualche motivo speciale interessante, e che pur trovasi agli antipodi dell’opera d’arte”, per riprendere le distinzioni introdotte da Edoardo Di Sambuy per la  presentazione della manifestazione torinese, “evento cruciale per le vicende della cultura fotografica del nostro paese” (Costantini, 1994, p.95) che Gabinio visita il giorno 25 maggio sotto la guida dell’onnipresente Brayda, lasciando però nella sua opera tracce relativamente modeste. Quali possono essere le ragioni, le resistenze forse, che fanno sì che un dilettante attivo a Torino in questi anni non risulti segnato, profondamente, da questi celebrati modelli? Possiamo provare a definire il problema cercando di leggere le intenzioni dell’autore non solo attraverso l’opera ma anche utilizzando il filtro di alcuni dati, o indizi, legati alla sua biografia: il primo elemento da rilevare è la sua marginalità rispetto al mondo fotografico torinese, espresso in quegli anni da quella Società Fotografica Subalpina che nella preparazione della mostra del 1902 si rivolge a “pochi, ma valentissimi cultori”  ed ancora nel 1933 si riconoscerà “nata aristocratica”; [31] ed inoltre la formazione di Gabinio, l’ambito da cui proviene, ed al quale è ancora legato -quello dell’associazionismo alpinistico- non ha pretese di “modernità” e per quanto riguarda la fotografia si propone altri intendimenti e quindi si esprime con linguaggi differenti; riconosce i propri valori nei “dettagli” propugnati da Jules Brocherel e nelle dichiarazioni di Pietro Masoero a proposito dell’ “arte fotografica [che] deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”, [32] riconoscendo nel suo specifico quella modernità di linguaggio che altri cercavano altrove. Sarà per queste ragioni che il suo modo di fotografare non viene apprezzato dai critici dell’epoca così che, quando partecipa all’esposizione di fotografia organizzata dall’Unione Escursionisti nel 1906, il notista de “La Fotografia Artistica” lo segnala solo in quanto organizzatore della manifestazione, senza citare alcuna delle sue opere.[33] È  questa modesta occasione la sola esposizione a cui Gabinio partecipa prima degli anni Trenta né risulta che sia mai stato coinvolto in altre particolari realizzazioni collettive, quali le diverse iniziative legate agli aiuti per i terremotati di Reggio Calabria e Messina nel 1908.[34]

A  Torino si susseguono in questo lasso di tempo l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata nel 1907 da “La Fotografia Artistica”, con la partecipazione di 391 autori provenienti da 16 paesi diversi, in particolare Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e quindi la Mostra Fotografica organizzata in occasione  dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, promossa nel 1911 nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, che vede 250 espositori con circa 2000 opere suddivise nelle due sezioni di “Fotografia artistica, industriale, illustrativa” e “Applicazioni della fotografia”, a cui va aggiunta l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino Italiano e curata da Guido Rey.[35] Le occasioni per un confronto, anche pubblico,  e per un relativo aggiornamento sono quindi accessibili, al di là della presenza torinese di un periodico autorevole come “La Fotografia Artistica” (Costantini, 1990), ma l’attività di Gabinio in questo periodo risulta -per ragioni non note- quantitativamente ridotta seppure di grande qualità, condotta in assoluta autonomia e quasi -si direbbe- in isolamento, in una condizione di autoemarginazione da qualsivoglia sodalizio fotografico.

 

Gli anni della Grande Guerra, per Torino anni di crescita industriale e demografica e di forti conflitti sociali, sono un lungo periodo di silenzio per  un personaggio ormai non più giovane (nel 1921 compie cinquant’anni) e forse sconcertato dai mutamenti in atto, che alla cronaca non ha dedicato mai -almeno fotograficamente- alcuna attenzione, neppure più avanti nel tempo, durante la collaborazione con la Rassegna Municipale “Torino”, che utilizza la fotografia quale strumento di isolamento e difesa, una protezione sicura che libera dalla necessità di avere contatti col mondo.

Il 1923 è un anno di svolta. In un quadro politico segnato dall’ascesa al governo di Mussolini, nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, la Camera di Commercio Torinese promuove la “Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia”, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  per onorare il terzo  centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Esempio complesso di esposizione fotografica, strutturalmente distante dai Salon che seguiranno per l’articolazione della materia, che prevede sezioni relative a tutti i settori di applicazione della fotografia, la manifestazione riscuote un grande successo di pubblico, segnato da più di 200.000 visitatori in due mesi. “Nonostante lo stato d’animo in cui vivono ancora molti nella crisi restauratrice, che involge problemi di spirito e di materia” alla sezione di fotografia artistica partecipano 227 autori internazionali con ben 3920 opere, tra le quali destano particolare attenzione quelle del cecoslovacco Frantisek Drtikol, nelle quali si rileva “uno stridore di contrasti, un urto fra l’acquiescenza alle forme consuete e la ribellione al passato, che impongono uno studio”.[36] Ma il 1923 è anche l’anno della pubblicazione del primo numero di Luci ed Ombre, annuario del “Corriere Fotografico”, da poco trasferitosi per proprietà e redazione a Torino per opera di Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, i fondatori del “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, che assumerà per oltre un decennio “un ruolo catalizzatore della ricerca fotografica in Italia”.[37]

Anche per Gabinio questo sembra essere il momento della ripresa, segnato da una novità importante: l’apposizione alle stampe, quasi sempre al verso,  della data esatta di realizzazione e in alcuni casi del titolo, ancora di tipo descrittivo, semplice elemento di identificazione documentale del soggetto. Sono, questi, sintomi  di un rinnovato e diverso interesse per il lavoro fotografico ed elementi importanti  per ricostruire datazione e modalità di lavoro per la prima volta in modo accurato e diretto. [38]A partire dal giugno 1922  le cadenze di ripresa diventano molto ravvicinate, anche 3-4 giorni di seguito, e quantitativamente consistenti, mentre i soggetti oscillano in un ventaglio ampio di temi torinesi, tra paesaggi fluviali  e prime architetture, ancora senza un chiaro progetto apparente. All’anno successivo va invece fatto risalire l’inizio di un’altra consistente serie, quella dedicata alle “Fioriture”, che proseguirà senza sostanziali modificazioni di senso negli anni successivi, certo su sollecitazione diretta degli esempi proposti dalle riviste, in particolare dal “Corriere Fotografico” che dedica più di un concorso tra i propri abbonati a questo tema, ospitandone poi i risultati migliori sulle proprie pagine. [39] È  certo un tema tra i più consueti e stereotipati, al quale Gabinio riesce però ad applicare un trattamento meno oleografico, non solo per il ricorso consueto alla stampa a contatto da lastra di grande formato ma anche per la specifica modalità di composizione, con le chioma fiorite a riempire l’inquadratura sino a saturazione (B96/88) oppure, all’inverso, costruendo l’immagine su percorsi di lettura dinamici,  guidati da un pullulare di segni che si intersecano secondo opposte direzioni (B96/79). Sostanzialmente differenti e distanti dagli esempi proposti dalle riviste sono poi alcune stampe del 1923 (P5/1) nelle quali il segno forte dell’albero o del ramo fiorito viene sostituito da una trama di elementi apparentemente minori, ciascuno privo di intrinseca rilevanza figurale, propri dei micropaesaggi marginali, in cui scompare la relazione consueta tra figura e sfondo e l’immagine vive propriamente delle sole relazioni interne definite dal fotografo.[40]

L’articolazione del tema diviene particolarmente complessa nella serie del 1924-1926 realizzata al parco del Valentino e intitolata “Il castello medievale, ingresso pustierla a nord-o”: sono circa venti stampe su carte diverse, corrispondenti a quasi altrettante riprese, in cui gli alberi e le architetture, sino a quel momento indagati separatamente, interagiscono tra loro per il tramite della luce, che incomincia a mostrarsi quale elemento narrativo autonomo. Il risultato finale (B52/118), molto più tardi pubblicato anonimo sulla rivista “Torino”, è il frutto di una ricerca ostinata e lunga, fondata sullo studio delle varianti minime di definizione della scena, condotta in momenti e stagioni diverse mantenendo costante l’inquadratura. La questione della definizione spaziale propria del paesaggio è indagata in Parco Michelotti sotto la neve, 1930c (P37/10), secondo  una impostazione che possiamo definire paradossalmente antifotografica: le divergenti linee di fuga dei viale e l’assenza di un centro precisamente individuato producono una ambiguità percettiva che rende irriconoscibili le tracce della costruzione prospettica propria dell’ottica fotografica, generando contemporaneamente un raddoppiamento speculare della figura secondo una formula  che ritroviamo in altre sue immagini di soggetti diversi realizzate nello stesso periodo (B71/14, B103/23). [41]

 

I primi anni Venti segnano anche l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico e le trasformazioni urbane di Torino, già indagato con Torino che scompare del 1900 e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, qui ora affrontato con sguardo più ampio e nuova sistematicità, mentre sparisce  di fatto quello che era stato fino al quel momento il tema principale della sua produzione fotografica, la montagna.

Tra i primi soggetti il Borgo Medievale al parco del Valentino, spazio effimero realizzato in occasione della Esposizione Generale Italiana del 1884 divenuto testimonianza consolidata della cultura architettonica storicista e del nascente restauro architettonico, che Gabinio indaga come microcosmo urbano reale, nei suoi rapporti spaziali e nelle sue architetture più vere del vero, senza cedimenti al pretesto decorativo o sottolineature della sua possibile funzione di loisir. È la stessa intenzione documentaria, di registrazione del dato reale che si ritrova nelle altre serie: quella dedicata ai monumenti che ornano piazze e giardini torinesi, dei quali ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, e quelle altrettanto ricche  dedicate alle chiese ed ai palazzi barocchi, alle vedute urbane, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.  Le campagne fotografiche sono condotte con ritmi molto intensi, anche 15 lastre al giorno, percorrendo la città per aree omogenee o limitrofe, combinando esaustività della documentazione ed economia degli spostamenti, seguendo cioè percorsi che sembrano determinati non tanto da una committenza precisa quanto da un progetto individuale, al quale non sembrano però essere estranei i precisi interessi e la rete di relazioni del nipote Ugo Alessio, che in questi anni frequenta l’Accademia Albertina diplomandosi professore di Disegno Architettonico nel 1925.[42] A molti di questi edifici vengono  dedicate serie costituite da numerose immagini, come accade per la chiesa dei Santi Martiri o per il Duomo, di cui -oltre alle importantissime riprese della navata principale realizzate prima della cancellazione totale della decorazione- il fotografo indaga l’architettura e la presenza urbana, con inquadrature singolari e sapienti, a volte tanto poco ortodosse quanto efficaci (B75/64), segnate da un accorto uso dei rapporti tra luce ed ombra per presentare l’articolazione dei volumi minori del fianco destro (P21/17) oppure ancora ricorrendo alle affascinanti riprese zenitali (B75/129), fino ai notturni dal campanile e della facciata, questi datati al maggio 1930 in occasione della ostensione della Santa Sindone,  nei quali ancora una volta si riconferma l’interesse del fotografo non tanto per la cronaca dell’evento quanto per le modifiche ambientali che questo induce (le transenne, le tracce del  flusso di movimento della folla).[43] L’interesse per l’architettura e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, quindi anche per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, risulta chiaro nelle opere dedicate al cortile a portico e loggiato del palazzo dell’Università torinese, nelle quali al rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa (ripetizione dello stesso punto di vista in punti corrispondenti sui due piani, perfettamente allineati secondo un asse verticale) si affiancano immagini più affascinate dal gioco chiaroscurale consentito dagli stessi elementi architettonici, tema su cui lavorerà a lungo ottenendo risultati soddisfacenti, come per Austerità (RA/80) presentata all’Esposizione di Fotografia di Stoccolma nel gennaio 1934 e per Università  (RA/79) esposta a Bruxelles nel 1935 nell’ambito del XIV Salon organizzato dalla Association Belge de Photographie et Cinematographie, esempi di quel possibile connubio tra documentazione (architettonica) e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento. “La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica -afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal  Photographic Society di Londra,  nel 1925- essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, affermazioni pesanti queste, alle quali tenta di far fronte J.R.H. Weaver quando afferma che “nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[44]

In questo periodo la posizione di Gabinio così come ci appare dalla lettura delle sue opere si mantiene in bilico tra le due posizioni ed è semmai orientata verso una concezione della fotografia quale riproduzione della realtà esterna, documento tanto più oggettivo quanto più tecnicamente corretto e magistralmente realizzato, con un orgoglio del fare che guarda alla tradizione dell’artigiano piuttosto che  all’artista, al mestiere del fotografo se non alla professione. “Rimettere in collezione” afferma l’iscrizione  apposta la verso di una stampa del 1925, suggerendo  la presenza di un repertorio prodotto con destinazione commerciale, al quale fanno pensare anche altri indizi sparsi quali i numeri d’ordine o le indicazioni di classificazione presenti in alcune stampe dello stesso periodo e le prime tracce di pagamenti ottenuti da committenti occasionali, incontrati forse durante le peregrinazioni fotografiche per le vie della città. Il lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, già affrontato da Alberto Charvet nel 1888 ancora in relazione con Brayda[45], qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento posto a sottolineare la posizione del punto di fuga.

Appartengono allo stesso periodo anche le fotografie dei piccoli caffè ed alberghi del vecchio centro, non i caffè ‘storici’ della tradizione torinese ma quelli che allora animavano le strade dell’antica città quadrata e contribuivano a definirne l’identità ambientale. Anche qui non è opportuno parlare semplicisticamente di nostalgia, è necessario invece riconoscere un’intenzione ed un sentimento più complessi, condivisi da una larga ed eterogenea porzione della scena culturale torinese della seconda metà del decennio. Le vedute urbane si muovono tra le strade anguste del nucleo antico (B103/4) e le sponde del Po, con il ponte ad articolare il dialogo tra la città e la collina con le sue presenze architettoniche (B77/122, B91/9) mentre la parte più aulica della città viene quasi trascurata. Sono gli stessi soggetti che si ritrovano nell’esposizione di “Vedute di Torino” promossa nel 1926 dalla “Società di Belle Arti A. Fontanesi”, a cui partecipano tutti gli esponenti del fronte figurativo torinese insieme ad architetti come Annibale Rigotti, Alberto Sartoris, membro della Commissione Ordinatrice, ed al giovane Aldo Morbelli, ancora studente,  con una serie di schizzi architettonici di temi e soggetti che si ritrovano nel lavoro che Gabinio compie negli stessi anni, noto anche ad un altro degli artisti presenti in mostra, l’incisore Francesco Mennyey, al quale il fotografo cede alcune vedute realizzate negli anni  immediatamente precedenti.[46] Sono i temi consueti della Torino antimodernista (“Noi moderni per i quali ogni arte è buona” dice Ceradini nel 1925)  contro i quali si scaglia Fillia nella recensione alla mostra: “[Nessuno] ha interpretato gli elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne (…) Sembra che il pittore sia un essere insensibile, fuori del tempo, legato alla tradizione borghese della città, senza contatti con la vita (…) Una Torino quasi gozzaniana, dunque, in utrilliane elegie” (citato in Dragone, 1976, p.112), la stessa che si ritrova due anni più tardi nella serie dedicata alla “Vecchia Torino” da Marcello Boglione[47], ancora una volta ripercorrendo i luoghi,  intersecando i passi di Gabinio.

Una più accorta e impegnativa attenzione per le architetture storiche, ed una ulteriore occasione di confronto e di riflessione per Gabinio, è costituita sul medesimo scorcio dell’anno 1926 dalla “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tiene a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e Giovanni Chevalley sotto la presidenza di Carlo Nigra, la mostra presenta “un complesso di materiali di eccezionale interesse e non sempre facili da riunire e ordinare (…) gran copia di disegni di antichi architetti piemontesi e disegni e fotografie di cospicui edifizi della regione subalpina dal romanico all’800”[48] tra cui una importantissima retrospettiva dell’opera di Secondo Pia. Le architetture che Gabinio fotografa in questi anni,  e le scarse annotazioni presenti al verso di alcune stampe confermano una attività professionale non altrimenti documentata e smentita dallo stesso ricordo di coloro che lo conoscevano (Alessio, 1939, p.34) e la presenza di precise committenze per ora ignote. Conclusa la documentazione del patrimonio storico architettonico urbano si dedica alle architetture religiose della collina ma soprattutto alle nuove realizzazione, infrastrutturali o simboliche che tentano di porre un argine alle tensioni sociali determinate dalla crescente disoccupazione  connettendole  alle celebrazioni per il decennale della vittoria (il ponte Vittorio Emanuele III ora Balbis al Pilonetto (B92/86 E SEGG), su progetto di Giuseppe Pagano e il Faro della Vittoria al Colle della Maddalena)  ed agli altri  importanti cantieri aperti in città alla fine del decennio quali il ponte Principi di Piemonte in zona Sassi, ancora di Pagano (B92/27 E SEGG),  e  la demolizione di parte dell’antico Arsenale, per i quali organizza documentazioni minuziose e concettualmente innovative che seguono ogni fase dei lavori alternando vedute di insieme e dettagli costruttivi, introducendo per la prima volta l’elemento dinamico nel proprio lavoro (P16/15-18).

Il consolidamento dell’attività professionale sembra dargli sicurezze nuove e nel 1928 Gabinio partecipa individualmente per la prima volta ad un concorso, quello dedicato a “Le belle fotografie di Torino”, promosso dal “Corriere Fotografico” tra i propri abbonati, vincendo uno dei premi minori con la veduta Dal campanile del Duomo verso piazza Castello,  che sarà successivamente pubblicata nel numero unico dedicato a Le Esposizioni e i festeggiamenti di Torino nel 1928 (Commissione Propaganda, 1928, p.11) ma soprattutto gli frutta i primi contatti con la redazione della rivista municipale “Torino” (Avigdor, 1981, p.170) con cui collaborerà fino alla morte, pur senza mai ottenere di poter firmare le proprie immagini.

L’Amministrazione Comunale torinese è in questi anni particolarmente attenta ai temi della fotografia sia come settore di formazione professionale sia come strumento di documentazione e propaganda della propria attività. Per iniziativa di Alfredo Laezza, segretario della Società Fotografica Subalpina,  nel 1929 viene istituita dalla Città di Torino la Scuola di Avviamento Fotografico G. Pacchiotti “a beneficio di coloro che intendono dedicarsi all’arte ed al commercio fotografico” introducendo per la prima volta nel programma dei corsi anche l’insegnamento di Storia dell’Arte[49], mentre risale al 1931 l’istituzione della Fototeca Municipale allo scopo di “seguire e fissare nella documentazione fotografica lo sviluppo urbanistico in genere e sotto l’aspetto estetico dell’edilizia in ispecie (…) sia ancora per seguire l’andamento e lo sviluppo di opere pubbliche eseguite dal Comune o dei lavori edilizi privati (…) analogamente a quanto viene praticato dai grandi comuni del Regno. [Specialmente] con l’occasione dell’imminenza dei lavori di risanamento dei quartieri adiacenti via Roma e dell’esecuzione di altre numerose ed importanti opere di pubblico interesse (…) è opportuno deliberare subito la formazione della raccolta delle fotografie interessanti la vita cittadina”.[50]

 

È  in questa prospettiva che va collocata l’importante documentazione fotografica realizzata da Gabinio nei primi anni Trenta, seguendo il cantiere di Via Roma nuova ma documentando anche singole realizzazioni architettoniche su commissione diretta delle società proprietarie (Società Reale Mutua Assicurazioni, Istituto San Paolo)  o di architetti come Armando Melis e Alberto  Ressa. È specialmente il tessuto urbano interessato dai lavori per il primo tratto (1931-1933) ad attirare l’attenzione di Gabinio, nuovamente intento ad indagare le mutazioni, il passaggio dall’antico al nuovo, dalla tradizione al moderno, gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi” come diceva Benjamin nello stesso 1931 analizzando Atget[51]. L’enorme cantiere è seguito passo passo con la preoccupazione -in lui consueta- di fornire una informazione esaustiva.   Le vedute d’insieme delle prime demolizioni si alternano alla documentazione delle preesistenze per lasciare quindi spazio agli scavi, in particolare quelli per la “metropolitana”, osservati con una sapienza di sguardo che coniuga felicemente documento e ricerca compositiva; una fotografia diretta, pura, che produce immagini eleganti e raffinate dalle quali traspare il fascino ambiguo esercitato da queste architetture nuove, quasi posticce, scenografiche (B71/44), meno interessanti dei padiglioni provvisori costruiti in piazza San Carlo (B103/21, 23).

Le fasi di realizzazione del secondo tratto (1935-1937) sono documentate in modo meno esaustivo. Gabinio è ormai ammalato ma -crediamo- in questi anni è più  interessato alla esplorazione del linguaggio  fotografico. La fotografia  pura si affianca alle manipolazioni che gli consentono di proporre una propria visione di Via Roma nuova adottando la tecnica del fotomontaggio (B68/30), assolutamente eccezionale per lui, in cui per un semplice gioco di ribaltamento, di rispecchiamento della figura, la prefigurazione della nuova strada assume quei caratteri di regolarità e decoro che il progetto prevedeva pur conservando miracolosamente intatte le proprie architetture. Qui la città viene reinventata o mostrata nella lacerazione delle sue ferite che le danno “quell’aspetto di Dunkerque” che nemmeno le demolizioni dell’ultima guerra le avrebbero inflitto (Gabetti, Olmo, 1976, p.28); come già accadeva per le immagini di montagna è al panorama che viene affidato il compito di restituire in modo esauriente, massimamente oggettivo, il quadro della situazione (B71/140-143).

Il lavoro più interessante prodotto in questi anni è però quello legato alla documentazione dei due importanti cantieri promossi dalla Reale Mutua Assicurazioni, la sede centrale in via Corte d’Appello (1932)  e la “torre littoria” (1933-34), compresa nella ricostruzione dell’isolato di San Emanuele, entrambi eseguiti su commissione della Società in concomitanza con altri professionisti torinesi quali Pedrini e Ottolenghi[52], ciò che conferma ulteriormente la relativa notorietà professionale raggiunta da Gabinio in quegli anni. Il dato per noi più interessante è però fornito dalle stesse fotografie, che denunciano esplicitamente il fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontato con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana (A31/64) che solo in rari casi si traduce troppo esplicitamente nella  ricerca retorica e ingenua dei Contrasti (CN/51). Qui la cultura fotografica che emerge non è di certo quella dei Salon torinesi o di Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorata ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che Gabinio conosce certamente per il tramite del nipote Ugo Alessio, che ospita dopo una prima, importante, recensione del volume Photographie prodotto dalla rivista parigina “Arts et métiers graphiques”, pubblicata nell’aprile del 1932, nel maggio dello stesso anno l’importante  Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, il quale riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”.[53] L’affermazione di questa autonomia è poi sostenuta e illustrata nella rubrica di fotografia che compare saltuariamente nei numeri successivi almeno fino ai primi mesi del 1933;  in perfetto accordo con la linea espressa dalla rivista, la selezione di fotografie industriali o di oggetti, di “cose”, non si rivolge tanto alla produzione europea di matrice costruttivista e razionalista quanto piuttosto alla sua declinazione statunitense, posta sotto l’influenza di Charles Sheeler e  conservando traccia del fascino che l’America aveva esercitato alcuni anni prima su Erich Mendelsohn.  Quanto autorevole fosse per Gabinio l’esempio costituito dalle fotografie pubblicate sulle pagine di queste riviste lo dimostrano alcune immagini della serie dedicata al palazzo dell’Opera Pia San Paolo di Torino (1934), in particolare quelle dedicate alla scala elicoidale, in cui sempre più chiaramente assistiamo alla riappropriazione da parte del fotografo del puro dato documentario, sul quale opera per variazioni tanto lievi quanto significative (B69/49), costruendo una realtà esplicitamente fotografica.[54]

 

Nuove visioni di Torino titola Gabinio nel 1931 una veduta di piazza Castello ripresa dalla cupola della chiesa della SS. Trinità (P13/5)  e definisce con questo solo titolo gli anni della sua svolta. È una sintetica dichiarazione di intenti. L’immagine non si discosta di molto dalle numerose altre sue fatte a partire dalla metà degli anni Venti; l’inquadratura è ancora ortodossa, perfettamente allineata all’orizzonte, ma le luci si fanno taglienti e ciò introduce  un’inquietudine nuova, inattesa, che dà senso al titolo: ciò che muta è l’intenzione dello sguardo se non ancora -ma per poco- la sua strutturazione in immagine. È per noi  il segnale dell’avvenuta conoscenza e dell’accettazione di una nuova concezione dell’immagine che si sta formando e diffondendo in quegli anni e della quale la “nuova visione” costituisce la parola d’ordine, il motto internazionale, che trova nell’esposizione Film und Foto di Stoccarda nel 1929 la propria celebrazione, diffuso in Italia da interventi quali  L’ora presente della fotografia di Wilhelm Kastner, pubblicato ne “Il Corriere Fotografico” dello stesso anno (Zannier, 1993, p.38) e ripreso nel 1931 da un altro torinese, Piero Boccardi, che presenta alla Mostra di Fotografia Futurista una  sua Visione torinese.[55] Se escludiamo alcuni panorami della città dal Monte dei Cappuccini, realizzati per incarico della Fototeca Municipale nei quali il tema ancora una volta è, al di la delle apparenze, la Torino che scompare, opere come Dall’alto, 1933, (RA/83) incarnano consapevolmente gli indirizzi dell’estetica  nuova: “L’importante è il come un oggetto viene considerato -afferma ancora Kastner- in quale posizione si trova rispetto all’apparecchio, da qual punto di vista lo si percepisce”,  al quale fa eco Antonio Boggeri sulle pagine di Luci ed Ombre dello stesso anno quando riconosce tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della nuova fotografia “la scelta del soggetto, la sua illuminazione e il punto di vista dal quale colpirlo” (citato in Luci ed Ombre, 1987,p.110), entrambi intenti a divulgare gli insegnamenti di Lazlo Moholy-Nagy.[56]

I suggerimenti e le suggestioni che gli provengono dalla cultura architettonica sono certo determinanti per il rinnovamento del suo linguaggio fotografico ma a questi deve essere accostato il preciso impegno scolastico che Gabinio assume verosimilmente in relazione alle necessità di aggiornamento che gli derivano dai suoi incarichi professionali. Nonostante abbia alle spalle una carriera quarantennale, sempre vissuta modestamente ai margini della comunità fotografica ma tutt’altro che povera di riconoscimenti, egli si iscrive nel 1928 ai Corsi promossi dalla Sezione Fotografica dell’Unione Escursionisti ALA (“Ad Liberas Alpes”, da non confondere con la più antica Unione Escursionisti Torinesi) che nel secondo semestre del 1933, per iniziativa di circa sessanta membri darà vita alla Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura,  che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana). Tra i vari  scopi l’Associazione   si prefigge di “guidare i Soci attraverso lo studio pratico della fotografia promuovendo manifestazioni culturali (…) esperimenti e dimostrazioni (…); promuovere mostre personali e collettive (…); creare gradatamente il più grande numero possibile di elementi idonei a presentare opere d’arte fotografica alle esposizioni nazionali e, principalmente, a quelle estere dove sempre più dovrà affermarsi l’arte fotografica italiana.” (citato in Avigdor, 1981, p.165) secondo un programma che risente palesemente delle direttive imposte dal regime fascista, qui ben rappresentate dalla figura di Mario Bellavista, consulente tecnico dell’associazione e rappresentante della società Gevaert. A dimostrazione dei consistenti appoggi di cui gode, la stessa Associazione pubblicherà a partire dal settembre 1934 il periodico “Pagine Fotografiche ALA”, stampato in migliaia di copie e distribuito gratuitamente.

Il II Corso, di perfezionamento, che vede tra i docenti oltre a Bellavista anche Alfredo Laezza, Oreste Castagneri e Domenico Riccardo Peretti-Griva, cioè una buona rappresentanza di esponenti della tradizione con alcune aperture “moderniste”,  si conclude nel 1933 con una premiazione da cui Gabinio risulta escluso pur figurando tra gli iscritti, né pare che si debba all’iscrizione all’ALA la sua partecipazione alla “I Mostra di Arte Fotografica del paesaggio e dei monumenti di Aosta e Provincia” del 1932, organizzata da Jules Brocherel e suddivisa in cinque sezioni, (archeologia, arte, folklore, scienza, turismo) che vede tra gli espositori anche Italo Bertoglio, Achille Bologna, Cesare Giulio e Mario Prandi mentre della Giuria fanno parte Cesare Schiaparelli, Emilio Zanzi e Antonio Valli. Gabinio, che partecipa a quattro sezioni risultando  primo classificato in quella dedicata all’archeologia, sceglie di presentare in questa occasione ancora immagini di taglio tradizionale, sia ingrandimenti da lastre realizzate a cavallo del secolo sia riprese nuove, datate al 1931 e 1932 ma compositivamente assimilabili ai canoni ottocenteschi (CN/22) e non a caso premiate e pubblicate. Le caratteristiche delle sue fotografie ricche di dettagli tornano ad essere apprezzate in questi anni di incerto abbandono del gusto pittorialista e Gino Sansoni recensendo la mostra arriva a contrapporre Gabinio “ottimo fotografo molto nitido e preciso, nemico di ogni ricercatezza” al “pizzico di leziosità” di Bologna e in genere di tutti quei fotografi che “per la meticolosa raffinatezza e ricercatezza dell’esecuzione, con l’abuso del ritocco, con l’esagerata sfocatura [si sono] un poco discostati dalla natura forte ed a volte aspra, dei soggetti  prescelti quali sono in maggior parte quelli offerti dalle Alpi aostane”[57], offrendo un esempio di felice sintesi tra estetica fotografica e retorica della razza.

Il successo ottenuto lo spinge certo a dedicarsi con sempre maggior impegno alla ricerca fotografica ed il suo linguaggio subisce proprio in questi anni una trasformazione radicale, ben riconoscibile sia nei lavori professionali sia nelle sperimentazioni personali sebbene -come vedremo- sussistano  una insicurezza di fondo ed un desiderio di  omologazione che gli impediscono di presentare pubblicamente le prove più avanzate, nella consapevolezza della distanza esistente tra queste ed il panorama offerto dalla produzione amatoriale ma anche nella volontà ostinata di voler entrare a far parte, ad ogni costo, della comunità dei fotografi da Salon.

Dopo la grande Esposizione del 1923 Torino vede un susseguirsi quasi ininterrotto di occasioni espositive, prevalentemente nate dalla collaborazione tra il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e la Società Fotografica Subalpina.

Nel dicembre 1925 apre il “Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale” con la partecipazione di 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalano Bragaglia, Sella e Wulz mentre il panorama straniero spazia da Drtikol a Mortensen, a Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo che sconcerta il critico de “La Stampa” Ugo Pavia, il quale dopo l’ennesima riproposizione del luogo comune delle fotografie che “possono essere scambiate per veri quadri” rileva la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  “questi artisti-fotografi futuristi, anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori” mentre giudica negativamente la partecipazione francese (“il materiale inviato è di scarso interesse artistico”) ciò che parrebbe una prima presa di distanza dal gusto pittorialista se non fosse per l’apprezzamento manifestato per l’opera di Léonard Misonne.[58]

Il 1928 vede un pullulare di manifestazioni che si affiancano alla “Esposizione per il IV Centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria” dove il padiglione della “Comunità dei fotografi” è progettato da Gigi Chessa[59], ma la ricchezza delle proposte risulta solo di ordine quantitativo ed il panorama proposto riconferma univocamente la tendenza pittorialista, negando le aperture che avevano caratterizzato il “I Salon”.

Per incontrare proposte diverse si deve attendere il 1930, quando al “Terzo Salon Italiano d’arte fotografica Internazionale”, vengono esposte -pur in un panorama quantitativamente ridotto rispetto alle edizioni precedenti- alcune opere che indicano direzioni nuove di ricerca come Uova, una natura morta di Achille Bologna, Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli e L’onda dell’americano K. Nakamura, un efficace studio di forme derivato dal movimento delle acque, che propone un atteggiamento inedito per il panorama torinese e sul quale Gabinio ha certamente riflettuto, profondamente diverso da quanto teorizzato poco tempo prima da Cesare Schiaparelli, per il quale “l’uomo, il fotografo che va in giro per diletto, si ferma più volentieri presso l’acqua morta. Perché? Perché la vista delle cose immote riposa l’anima e il corpo. E noi, dopo le diuturne e grandi e piccole battaglie della vita, cerchiamo il riposo. E poi è così suggestiva l’acqua che si ferma a dormire all’ombra delle piante nei silenziosi recessi! (…)  Da questo mistico sposalizio della forma della pianta colla superficie dell’acqua ferma, nasce in noi quel senso di intenerimento, di distensione dei nervi, di calma dello spirito che dà la vista delle cose solitarie, immobili e silenti, come l’audizione di un notturno o di una sinfonia in tono minore” (Schiaparelli, 1928, p.293). È  il contrasto tra la quiete piccolo borghese e l’inquietudine dei tempi nuovi, che produce, anche in ambito fotografico, il suo piccolo fuoco d’artificio con la “Mostra sperimentale di fotografia Futurista” che si tiene a Torino nel 1931 dopo la prima, ridotta,  edizione romana dell’anno precedente: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”. La presentazione di Giuseppe Enrie, fotografo torinese che nello stesso anno realizza una nuova ripresa della Sindone,  inquadra bene le spinte contraddittorie e le realizzazioni sovente ingenue che si ritrovano in questa tendenza alla quale molti (Bertieri, Castagneri, Enrie e lo stesso Parisio) sembrano aver aderito in modo episodico, ormai distante dalle tendenze rivoluzionarie espresse del primo futurismo e dalla prime fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, ma il Manifesto della Fotografia Futurista  che Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) lanciano in questa  occasione contiene comunque una serie di suggestioni affascinanti e ricche, che certo hanno contribuito al formarsi in Italia di una nuova concezione della visione: “Il dramma degli oggetti (…) Il dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi. La spettralizzazione di alcune parti del corpo umano (…). La fusione di prospettive (…). La fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso (…) Le drammatiche sproporzioni (…). Le amorose o violente compenetrazioni (…)” (citato in Fillia, 1932, p.101)  costituiscono altrettante nuove, e dirompenti, “possibilità fotografiche” contro le quali si scaglia Guido Lorenzo Brezzo nel testo di apertura dell’annuario del “Corriere Fotografico”  dello stesso 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica. Stabilito che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).” (citato in Luci ed Ombre, 1987, pp.134-135)

Ulteriori segnali di rinnovamento provengono dalle opere presentate al “Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra dilettanti” che si tiene sempre a Torino nel maggio-giugno 1933, con presenze interessanti come Ferruccio Leiss, Fosco Maraini, Alfredo Ornano e Bruno Stefani, oltre ai cecoslovacchi Jan Lauschmann e Jiri Jenicek. Per Italo Mario Angeloni, che la recensisce sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” “c’è in questa Mostra il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso” (Angeloni, 1933, p.252) ma anche, almeno per i migliori espositori italiani, la preoccupazione per  un problema: “quello della semplificazione”.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi,  sempre sulle pagine di Luci ed Ombre, Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”.[60] Sono termini (e forse concetti) che si prestano  a sottili slittamenti di senso, ciascuno dei quali connota -e distingue in parte- le diverse posizioni. Così l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire” e Luigi Andreis, poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale” rivelando infine l’ideologia nazional-popolare sottesa, che si traduce in  richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926 -ciò che sembra inserire rimandi ad un’estetica diversa e lontana da quella a cui si ispirava ad esempio Boggeri- la necessità di “inquadramento sindacale delle forze artistiche ed intellettuali” allo scopo di “creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.”[61]

 

La trasformazione del linguaggio fotografico di Gabinio nel corso degli anni Trenta risente e riflette queste diverse influenze, in qualche modo assumendole e conciliandole contraddittoriamente nella propria opera.

Già si è detto del ruolo, importante, della cultura delle riviste di architettura ma nelle sue fotografie troviamo anche riferimenti e rimandi espliciti ad opere presentate alle mostre torinesi. Un primo esempio palese è La macchina da caffè (B106/54), insieme autoritratto e registrazione analitica del fascino moderno del metallo cromato della macchina, che costituisce una citazione quasi letterale de La tazza di caffè che Giulio Parisio presenta alla “Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista” del 1931, visitata da  Gabinio forse in compagnia di Oreste Castagneri, presente con tre opere e suo docente alla Scuola Fotografica ALA, ma anche l’altra coppia di autoritratti, più tarda,  (B103/27, B106/75) pur richiamandosi alle distorsioni anamorfiche di Louis Ducos du Hauron  e di Léon Gimpel, vive dello spirito ‘sperimentale’ della fotografia futurista.  Meno semplice risulta ricostruire la sequenza di rimandi che lo porta a realizzare la fotografia dei Due lattonieri su di una scala (B102/101) dove  i riferimenti evidenti vanno cercati  ben oltre i confini torinesi e italiani, e sono Moholy-Nagy (Navigazione, 1926-27) e soprattutto Rodcenko (Sulla grande scala, 1927)  anche se -come rilevava Andreina Griseri in tutt’altro contesto- anche noi possiamo dire che semplicemente “poteva aver captato un esempio eccitante, un’idea decisiva, sul filo della concentrazione (…). Dire «poteva aver estratto» toglie ogni legame di necessità all’ispirazione, ogni derivazione precisa da fonti: era il legame che unisce chi appartiene ad una cultura complessivamente unitaria, parla il medesimo linguaggio artistico, e lavora verso direzioni non contrastanti.” (Griseri, Gabetti, 1973, p.66)

Queste realizzazioni convivono con altre di impianto meno radicalmente innovativo ma ormai saldamente ancorate al moderno, quel recupero della fotografia pura che per Gabinio è solo consapevolezza nuova di una forma espressiva mai abbandonata. I due ritratti della  Ragazza col gatto  (B111/19) e dell’Uomo al mercato (P38/19) sono esempi riusciti di quel processo di semplificazione riconosciuto come elemento sostanziale della nuova fotografia, mentre dai contemporanei ritratti del compagno delle ultime  escursioni (B120/107, B106/50)  trapela una attenzione, una cultura d’immagine che tiene conto delle più autorevoli esperienze della scena pittorica torinese, senza per questo porsi alcun obiettivo di imitazione o di rifacimento.

È una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che si ritrova anche nelle immagini dedicate alle acque,  tema a lui caro fin dalle prime fotografie di cascate alpine realizzate sul finire del secolo. Basta confrontare il fascino melanconico della Veduta della città dal Po (RA/47), sapientemente sottolineato da un appropriato viraggio, con la bella serie -realizzata nello stesso sito- dei gorghi alla diga Michelotti (B92/44-50) dove l’indagine assume la forma della variazione sul tema del contrasto tra la fissità della struttura metallica e  le forme continuamente cangianti dell’acqua, quelle stesse che  ritroviamo ancora in Po,  1935 (RA/76), rappresentazione di quell’”acqua catramosa, rapida in improvvisi luccichii”  che avrebbe descritto Giovanni Arpino molti anni dopo.

L’attivissima Associazione Fotografica ALA ha tra i propri scopi quello di “contribuire fattivamente all’ascesa culturale e organizzativa dell’amatore fotografo italiano che dovrà fascisticamente riuscire, in brevi anni, a conquistare quel posto che gli spetta nel campo delle competizioni artistiche internazionali”[62] e l’adesione consente a Gabinio di partecipare fin dal 1934 alle esposizioni di Sopron in Ungheria, Stoccolma e Vienna[63] con una decina di opere che rappresentano un panorama esauriente del suo nuovo corso, dalla riproposizione in senso luministico di soggetti già affrontati nel decennio precedente come Austerità (RA/80), alle immagini caratterizzate dalla ‘modernità’ del punto di vista come Dall’alto (RA/82) sino al tema per lui nuovo della natura morta, specialmente di frutta e verdure riprese al mercato, genere che gode di grande fortuna nella produzione pittorica di questi anni ma qui affrontato sulla scia di Achille Bologna, che realizza immagini con identico trattamento del soggetto: non composizioni in studio ma “oggetti trovati” e rielaborati fotograficamente in fase di ripresa e soprattutto di stampa. Il soggetto viene progressivamente isolato, reinquadrato mediante maschere in carta leggera, ricavate da fogli di quaderno, che consentono anche rotazioni dell’asse compositivo, per “forzare lo sguardo all’arresto” (Marbot, 1989, p.151)  ed esaltare il motivo, sottolineato ancora dagli ultimi e definitivi interventi legati alla scelta della carta ed ai viraggi di intonazione cromatica, alla ricerca di un preziosismo anche materico della stampa finale (RA/30) che costituisce per Gabinio una concessione tarda al pittorialismo.

La partecipazione prosegue nel 1935 (Bruxelles, Londra, Johannesburg, Ottawa, Parigi) ma le opere presentate testimoniano l’emergere dell’attenzione per soggetti diversi: dalla sontuosità quasi barocca delle Uve e delle Pesche si passa alle “cose più modeste e comuni” di cui parlava Boggeri nel 1929, “interpretate con desiderio di penetrarne la segreta personalità, la solitaria poesia” (citato in Luci ed Ombre, 1987, p.111). Sono le Maioliche (RA/21) e i Piatti (RA/19) presentati alla “Prima esposizione fotografica sociale ALA”, inaugurata il 15 marzo 1935 nei locali del Salone della “Stampa” alla presenza del Vice Segretario Federale Ing. Cavallari Murat, accompagnato da Alfredo Laezza, Cesare Schiaparelli ed Edoardo Rubino. L’insieme delle  189 opere di 41 autori diversi è caratterizzato dall’eclettismo delle tendenze e dal sincretismo delle opere: “C’era una infinita gamma di personalità che colpiva enormemente anche come problema psicologico. Molte delle opere esposte destavano una ben viva curiosità di conoscere personalmente l’artista, per ricercare in esso l’anima dell’autore” afferma Peretti-Griva nella breve presentazione al catalogo prima di passare in rassegna le immagini più significative, senza peraltro riferirsi esplicitamente ai singoli autori. “Ecco [di Gabinio] gli umili  piatti in fila, che attendono l’umile acquisitore dall’umile mensa, che stanno a individualizzare col linguaggio, talora terribile, delle cose inanimate, tutta una vicenda sociale”[64]. Già Avigdor ha fatto a suo tempo notare come Peretti-Griva sia “molto lontano dal cogliere la novità dell’operazione”, questo taglio diagonale della composizione che si richiama senza indecisioni alla nuova fotografia, ma la questione appare più complessa, e certo la nostra valutazione va fondata, per quanto possibile, sulla considerazione e sulla comprensione dello sguardo coevo, sulla compresenza di tendenze e interpretazioni che possono apparire contraddittorie e tenendo conto anche della concezione, nostra, di un moderno a tutto tondo che costituisce uno dei miti,  quindi  una delle mitologie del secondo Novecento.

“Quanto più la crisi dell’attuale ordinamento sociale dilaga -dice Benjamin nel 1931- e quanto più i suoi singoli momenti si oppongono rigidamente secondo una morta contraddittorietà, tanto più la creatività -che nella sua sostanza più profonda è una variante, figlia della contraddizione e dell’imitazione- diventa un feticcio, la cui fisionomia vive soltanto in virtù dei cambiamenti dell’illuminazione, determinato dalla moda. Il mondo è bello: questo è il suo motto. Questo motto smaschera l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più gratuiti, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza” (Benjamin, 1966, p.75). L’attacco portato alla fotografia pubblicitaria così come alla “Nuova Oggettività” ed a Renger-Patzsch in particolare, noto anche in Italia almeno per la sua partecipazione alla “Mostra internazionale della fotografia” di Milano del 1933,  riporta in primo piano la questione della relazione forma-contenuto o meglio le possibilità e intenzioni, di produzione e lettura critica, delle immagini in termini narrativi o puramente compositivi. Peretti-Griva, non riconoscendo la novità della forma e sottolineando il significato del contenuto, attribuisce a quell’immagine il valore di una “fotografia costruttiva”, avvicinandosi forse maggiormente, più di quanto noi non si sia in grado di fare, alle intenzioni di Gabinio, che nel 1932 aveva intitolato Umiltà un’altra fotografia di stoviglie (RA/20).[65]

Il problema della comprensione critica della sua produzione ultima è reso più complesso, meno facilmente risolubile, dall’analisi di altre serie fotografiche coeve, più esplicitamente derivate da una ricerca formale aggiornata sulle più avanzate esperienze europee degli anni Venti e mai proposte in esposizioni o concorsi ma da lui stesso raccolte in una cartella di “Saggi scelti” che porta la data del 23 aprile 1936. Sono, insieme a quelle già segnalate, fotografie tutte costruite su forti elementi di geometrizzazione del soggetto, ottenuti vuoi per astrazione di un dettaglio, come il particolare del portale della nuova sede della Cassa di Risparmio di Torino (B65/9), a partire dal quale realizza un puro esercizio stereometrico, un’analisi dei rapporti tra luce e volume in cui la materia perde la propria rilevanza e le relazioni contestuali sono annullate, vuoi giocando sulle relazioni grafiche tra linee del soggetto e margini dell’inquadratura, come nelle riprese dello scalone della chiesa della Gran Madre di Dio (B76/166, 169), che richiamano, forse attraverso la mediazione di Bologna e Bertoglio ma qui in modo più graficamente preciso, una delle serie più note di Rodcenko, realizzata nel 1930.[66] Accanto a queste, e nello stesso ambito di influenza tra costruttivismo e nascente fotografia pubblicitaria, vanno poi collocate fotografie come Lavori per la posa di cavi, 1930c. (B106/4) e le Reti metalliche, 1935c. (B106/52), così come il gioco di riflessi e rimandi iconici della Vetrina, 1930c. (B84/7), raro esempio di attenzione per i segni della cultura urbana letta nella sovrapposizione delle sue tracce, nella costruzione dell’immagine per compresenza di segni che deriva  dalla tecnica del collage e del fotomontaggio.

I segni più evidenti di una riflessione avanzata sulla fotografia, le reali “nuove visioni” prodotte da Gabinio, si ritrovano nel gruppo di immagini che hanno esplicitamente per tema la luce, progressivamente riconosciuta quale esplicito fondamento costitutivo del linguaggio fotografico. Le prime prove risalgono alla metà degli anni Venti e già indicano un passaggio significativo da una concezione della luce quale  segno simbolico, come nell’Interno della chiesa dei Santi Martiri (B77/11), alla luce come valore autonomo, segno autoreferenziale che ritroviamo nell’astrazione del ritmo luminoso ricavato dal buio di una casa a ballatoio (B83/24) e nelle due vedute dal Lungo Po (B91/64, 65) nelle quali, contrariamente a quanto accade per i più consueti notturni, la traccia luminosa dei lampioni sull’acqua si trasforma in puro elemento di modulazione della superficie fotografica, liberato da ogni contingenza, posto a confronto con un segno di luce tracciato dal fotografo di fronte all’obiettivo; una dichiarazione palese, nel corpo dell’opera, dell’autonomia dell’immagine fotografica. La ricerca prosegue con la ricca serie realizzata nell’atrio ottocentesco di palazzo Carignano il giorno di Natale del 1932 (RA/87, 88). Qui i raggi luminosi trasformano percettivamente lo spazio modificandone la figurabilità, si sovrappongono al disegno degli elementi architettonici facendone emergere alcuni e relegandone  altri in masse appena distinte, segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico, condotta analizzando le sottili variazioni introdotte dal modificarsi di uno solo dei due termini del discorso, la luce appunto, mentre la scena architettonica rimane sostanzialmente immutata e trattata secondo i più rigorosi canoni previsti dal “genere”: nessun punto di vista inconsueto, nessun taglio forzato, affinché tutta l’attenzione possa essere concentrata sulle modulazioni luminose.[67]

Questa ricerca prosegue ancorandosi liberamente a precise occasioni di committenza come in Sera sullo stadio, 1933-35 (RA/92),  o nella serie sul sottopasso al Lingotto, 1933 (B80/25, B80/36), nella quale cade ogni distinzione tra documentazione e sperimentazione formale, questa applicandosi a quella nella produzione di pura fotografia.   La raggiunta consapevolezza della propria padronanza linguistica è evidente nei diversi passaggi che conducono dalla ripresa alla stampa finale della veduta di Via Pietro Micca vista in controluce dall’alto, del 1933 (RA/84) che rimanda senza incertezze a opere quali  Unheimliche Strasse I  di Umbo (1928) e Kleiner Platz in Alt-Berlin di Raoul Hausmann (1931). L’originaria ripresa dall’alto di Palazzo Madama  viene tagliata per eliminare la striscia di cielo ed accrescere il peso delle masse nere, incombenti, dei palazzi così da accentuare l’isolamento della piccola figura in primo piano, presenza umana priva di fisionomia riconoscibile, ai margini della moderna città delle macchine.

E’ un esempio compiuto di quella fotografia contro cui si scaglia Alberto Savinio dalle pagine della “Stampa”: “Cominciò il diabolico settentrione a dare un’anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia ‘pensosa’. Si scrissero libri interi di sole fotografie, i ‘soggetti’ si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’alto. L’ombra portata conobbe i maggiori successi.”[68]

1 Giro di giostra/ Zeppelin, del 1934 (B106/21) costituisce il risultato più compiuto e complesso delle ricerche di Gabinio sul tema della luce, che qui si fa generatrice di un volume, di un solido di rotazione tutto virtuale, ricollegandosi idealmente alle prime prove degli anni Venti ma  con una ricchezza di intuizioni che richiama alla mente le esperienze, più fredde, condotte in ambito Bauhaus nel corso di Walter Peterhans o i notturni di Hilde Hubbuch. È questa un’opera che appartiene di diritto alla “nuova cultura della luce” di cui parla Moholy-Nagy: “Questo secolo appartiene alla luce. La fotografia è il primo mezzo per dare forma tangibile alla luce, anche se in una forma trasposta e -forse proprio per questo- quasi astratta.” (citato in La fotografia al Bauhaus, 1993, p.117)

 

 

Lo scarto tra queste ricerche, avanzate e segrete, e la produzione inviata ai Salon si fa stridente, il divario enorme. Nel 1936, se si esclude la partecipazione all’esposizione che si tiene alla City Art Gallery di Durban con Carezze di sole, la sua attività sembra dedicata esclusivamente  alla produzione professionale per conto della rivista “Torino” e solo l’anno successivo riprende la partecipazione ai Salon (Torino, Metz,  Parigi, Chicago) presentando le consuete nature morte di frutta e di oggetti.[69]

La sua morte, avvenuta il 19 aprile del 1938 per complicanze prodotte dalla nefrite cronica di cui soffriva da tempo, passa inosservata nel mondo della fotografia torinese e Gabinio viene ricordato solo dal necrologio pubblicato dal Club Alpino Italiano mentre le sue immagini continuano ad essere sporadicamente utilizzate, anonime, dalla rivista “Torino”.

 

 

L’oblio in cui giace la sua figura cade parzialmente nel 1974 in conseguenza della mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli e curata da  Giorgio Avigdor ed Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri, e dalla successiva pubblicazione del volume omonimo con scritti di Aldo Passoni ed E. Nori. La definizione del titolo e gli stessi commenti -tra il nostalgico ed il rancoroso- raccolti sul registro dei visitatori danno l’esatta misura del senso dell’operazione: il tema è Torino, la fotografia è una finestra trasparente e magica, aperta su di uno spazio antico, passato, col quale si può entrare in comunicazione solo attraverso lo strumento della nostalgia. Di Gabinio quasi nessuna traccia, se non le varie e fantasiose considerazioni aneddotiche fornite da Nori alle quali pone un argine il bel testo di Aldo Passoni che individua alcuni elementi chiave del suo atteggiamento (“Gabinio, che non ha il gusto della critica”) rilevando anche le connessioni con certa produzione figurativa coeva, da Boglione a Mennyey, a certe periferie di Umberto Boccioni e di Italo Cremona, la Torino disabitata, colta sulla soglia di radicali trasformazioni, che faceva pensare ad Atget, che altri invece interpretano come una “città che muore e che avrà la sua necropoli nelle fosse scoperte di via Roma” (Carluccio, 1974, p.9) in un saggio suggestivo ma fondato su di una coincidenza equivoca, quella tra l’opera di Gabinio e le immagini presenti in mostra, accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo. Lo ha ben compreso allora Paolo Fossati, che registra l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo” (Fossati, 1975). È questa l’occasione anche per riconoscere e sottolineare -nelle parole di Andreina Griseri- il ruolo fondamentale svolto dai fotografi nel documentare la storia della città, letta da Gabinio “come una natura morta di oggetti (…) fedele ad un realismo di presenze sempre rapportate a un ambiente teso, spesso disabitato o quasi (…) [indagato] con un segno che rinuncia per fortuna nostra ad ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso.” (Griseri, 1974)

All’esperienza della mostra del 1974 si ricollega esplicitamente -mutandone però radicalmente l’impostazione-  la monografia scritta da Giorgio Avigdor alcuni anni più tardi (1981)  fondata anche sulla conoscenza diretta di documenti di prima mano, oggi purtroppo in larga parte non disponibili.

La competenza dell’autore, studioso di storia della fotografia e fotografo egli stesso, consente per la prima volta di delineare la complessità della figura di Gabinio collocandola nella necessaria trama di relazioni con le culture fotografiche del suo tempo, presentando  un primo corpus di immagini che rende evidente la complessità della sua opera e le profonde trasformazioni del suo linguaggio fotografico, pur nella consapevolezza che “certamente c’è molto altro da scoprire, da conoscere e quindi da dire…”.

 

Abbiamo raccolto l’invito.

 

Note

 

[1] “Va su per le ripide costiere con una sua gabbietta a fotografie (…) ha qualcosa in sé dello scoiattolo di montagna” (Piasco, 1896, p.83). “Per immaginarselo bisogna pensare ad un frammento di roccia miracolosamente staccato dal massiccio materno e divenuto parte vivente di quella gigantesca famiglia di culmini. Della natura primitiva trasformata in essere umano, non è rimasta che una figura vigorosamente delineata, con lineamenti disarmonici, che tuttavia non fanno impressione sgradevole, una rozzezza non priva di grazia (…) La sua poesia però è tutta nella macchina, compagna fedele delle grandi ascensioni”, (M.B. [ Mario Borani?], 1904, citato in Avigdor, 1981, p.29).

L’apparecchio a cui si fa riferimento potrebbe essere  la Simplex-Roll Camera di Krügerer, compresa nel lascito Marcellino Alessio del 1968; una detective-box in legno, reflex biottica (ma priva di obiettivo da ripresa), per pellicola in rullo nel formato 120 (1890 post), che costituisce un adattamento della precedente Simplex-Magazine del 1889, con magazzino portalastre. La matricola dell’apparecchio di Gabinio, il solo a noi pervenuto, porta il n.2427.   Nel  Fondo è conservato anche l’ingranditore ICA per il formato 9×12, a messa a fuoco automatica, matricola n.76997, dotato di obiettivo ICA Novar Anastigmatic 1:6,8, f =  13,5 cm, matricola n.669397, che Gabinio acquista forse dopo il  1930, anno in cui -con la morte della madre- si ritrova solo nell’appartamento di via Avogadro, 9.

 

[2] “Ogni volta che qualcosa di Torino “moriva” l’ultimo conforto (così egli soleva dire) gli veniva da lui portato (…).Seguiva con attenzione ogni mutamento edilizio ed urbanistico: il vecchio raffrontava poi al nuovo e di ogni risanamento sapeva cogliere il lato artistico e quello pratico insieme” (Alessio, 1939, p.37).  Questo articolo  deve essere messo in relazione col tentativo, condotto dai fratelli  Ugo ed Ivan Alessio  di vendere al Comune di Torino  le lastre ricevute in eredità dallo zio.  La proposta viene prima fatta alla Fratelli Alinari, che suggerisce di rivolgersi al Comune di Torino, e quindi  alla sezione torinese del CAI sottolineando opportunamente ogni volta i possibili motivi di interesse per ciascun destinatario, ma entrambi declinano. Dopo un primo rifiuto (7 giugno 1939) ed una lunga trattativa relativa alla valutazione economica, il podestà di Torino delibera l’acquisto dell’eredità Gabinio in data 17 giugno 1940, cfr. i documenti relativi in Avigdor, 1981, pp.174-179. Il perfezionamento dell’acquisto potrebbe non essere estraneo al ruolo svolto da Ivan Alessio, dipendente dell’Ufficio Tecnico Municipale ma soprattutto Comandante della Centuria Sportiva delle Camicie Nere della I Legione (Alessio, 1936).

 

[3]Eco, 1990, p.110. L’utilizzo semplificato e strumentale che qui viene fatto delle categorie analitiche definite da Eco presuppone ovviamente una accettazione della definizione generale di testo quale “trama comunicativa”, a prescindere dalle specificità dell’ambito  della comunicazione visiva ed in particolare dai problemi posti dalla interpretazione semantica e semiotica della fotografia.

 

[4]Al 1889, data delle prime immagini realizzate citate in apertura, Gabinio ha 18 anni  e  da due è entrato a far parte della Amministrazione delle Ferrovie dello Stato prima di poter terminare gli studi, in conseguenza della morte del padre, già funzionario delle ferrovie, avvenuta nel 1887. Le condizioni della famiglia, certo non floride, non sono comunque tali da impedire alla sorella Ida (1872-1931) di diplomarsi maestra di ginnastica ed al fratello Ernesto (1875-1944) di laurearsi in farmacia.

 

[5]Cfr. Maiullari, 1988; Banti, Meriggi, 1991; Per una analisi della principale e più nota di queste associazioni di massa, il Touring Club Italiano cfr. Ottaviano, 1986;  per i rapporti intensissimi tra TCI e fotografia cfr. Zannier, 1991.

 

[6]”L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Sono soci dell’Unione Escursionisti Torinesi  negli anni immediatamente successivi la fondazione architetti come Mario Ceradini ,  Gottardo Gussoni (direttore del periodico dell’associazione del primo numero, 1899, al 1907),  Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione è poi sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine dell’ “Escursionista” si  incontrano anche i nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

 

[7]Bonardi, 1898, p.232. L’interesse di Bonardi per la fotografia è discusso in Costantini, 1990, p.72 passim.

 

[8]Cfr. Rivoir, 1992, p.18, p.130. Il primo panorama alpino realizzato da Gabinio con mezzi ancora inadeguati è quello della valle del Gran San Bernardo (A17/85) datato 1889. Per una storia generale del panorama come genere cfr. Bordini, 1984. In particolare le connessioni tra montagna e panorama sono già ben presenti in De Saussure, 1776 (ibidem, p.31-32 e nota 7 p.40);  per le prime realizzazioni fotografiche cfr. Garimoldi, 1995, pp.15-18.

 

[9]Quindici di queste immagini, tratte dall’album di proprietà della “Società Ginnastica” che non ci è stato consentito di consultare in questa occasione, sono state pubblicate in Gilodi, 1978, pp.IX-XX. La serie completa di 21 lastre in formato 13x 18 è conservata nel Fondo Gabinio (Sc.182/Ri) mentre 12 stampe a contatto sono comprese nell’album  Ritratti =Gruppi =/ Ginnastica =/ 16. Sul tema dell’educazione fisica femminile a Torino nell’Ottocento cfr. Giuntini, 1995 da cui si ricava (p.426) tra l’altro che Ubaldo Valbusa, membro dell’Unione Escursionisti ed uno dei più assidui compagni di Gabinio, pubblica Ginnastica da camera, massaggio e nuoto. Torino: Lattes, 1910. Di  Valbusa va ricordata anche l’attività di fotografo alpino, cfr. Rivoir, 1992, p.126, p.134-135.

 

[10]Reynaudi, 1896. La collaborazione tra Gabinio e Reynaudi nasce certamente nell’ambito dell’Unione Escursionisti, della quale fa parte anche l’architetto Ceradini, che proprio  per queste guide disegnerà le copertine, presentate alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna  di Torino nel 1902,   e realizzerà alcune tavole nel testo. Diamo di seguito l’elenco cronologico delle collaborazioni di Gabinio alle  guide Reynaudi, indicando tra parentesi il numero di immagini pubblicate nelle prime edizioni di ciascuna, rilevando però che  nelle edizioni successive molte di queste fotografie vengono ripubblicate anonime e con un diverso ordine di presentazione:  1896 (sei); 1903 (trentasette); 1905 (dieci); 1906 (una); 1910 (sei).

 

[11]Alla Esposizione partecipano tra gli altri Guido Rey, Giulio Roussette, Vittorio Sella, Luigi Primoli, Giovanni Varale di Biella   “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese, cfr. “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 1895. La partecipazione di Peliti a questa Esposizione non era sinora stata segnalata, cfr. Federico Peliti, 1993, p.19 passim.

 

[12]Brocherel, 1898,  dedica un intero paragrafo del capitolo XV al tema de “La fotografia sulle Alpi”, in cui accanto ad una serie di indicazioni tecniche si ritrovano attacchi sprezzanti al costume della nascente fotografia di massa ed una serie di prescrizioni  relative a “La veduta [che] deve riescire d’un aspetto armonico ed artistico e dare tutti i dettagli rilevanti”. Da segnalare inoltre l’invito -proprio della più avanzata cultura fotografica dell’epoca- a far si che “il dilettante cerchi sempre che il suo lavoro riesca di qualche utilità [sottolineatura nostra] alle scienze, e lo si può senza scemare la soddisfazione che si ripromette dalle sue non poche fatiche. La geologia, la glaciologia, la topografia, i bradisismi ed i fenomeni tellurici in genere abbisognano della fotografia.”, p.292.

 

[13]Compresa nell’album Autori diversi/ Vedute alpine, etc./ 1a parte/ 26 (A26/4); il passo del Monte Moro costituisce uno dei più noti  e celebrati punti panoramici  dell’arco alpino occidentale, cfr. Garimoldi, 1995, p.25. Gabinio possiede complessivamente quattordici  fotografie di Sella; di un’altra, non reperita, si ha traccia nell’unica  lettera inviata da Sella a Gabinio: “Biella 20 Ott. 98/ Eg.o  Collega/ Le mando le tre copie della/ fotografia n.1685 [Grivola, Grivoletta e ghiacciaio del Trajo, 1894]  e Le sono grato/ di spedirmi L.4.50 per cartolina-vaglia./ Con  saluti  cordiali/ suo dev.mo/ V. Sella”, (Fondazione Sella, Biella, Fondo Vittorio, Copialettere dal 3-5-1897 al 31-12-1898, p.50, n.421), verosimilmente da mettere in relazione con l’ascensione che Gabinio compie nello stesso periodo, documentata da una ricca serie di stampe.

Lo schema compositivo che prevede la collocazione in primo piano di una o più figure di fronte al panorama, di derivazione  romantica, è tipico della fotografia a cavallo dei due secoli (Sella, Rey, Lamy, Gabinio ed altri) e corrisponde ad una fase in cui l’esperienza del panorama non è più eccezionale senza essere ancora divenuta pratica massificata dal turismo.

Nella collezione Gabinio sono presenti , insieme a due riproduzioni da Vittorio Besso, anche 475 stampe originali di Anonimo e di Mario Balloira, V.Baretta, A.Basso, Avv. G. Belli, Giovanni Bollani, Bossola, Brogi, Bugelli, Giovanni Caracciolo, Avv. Carbone, Mario Ceradini, E.Chirali, Luigi Costa, Bobbio Crau, Giovanni Cravero, E.Curione, O.Debernardi, Ducretet, Giovanni Elia, L.Elia, O.Elia, Giuseppe Enrie, Giuseppe Facciotti, V.Ferrari,  Federico Filippi, Funch, Luigi Galleani, C.Galli, C.Giacchino, O.Giudice, Anselmo Giusta, Cesare Grosso, F.Guidetti, Gottardo Gussoni, Adolfo Hess,  Paolo Kind, Cesare Lucca, R.Marchetti, A.Mennyey, Luigi Minetti (Studio SLIFT), Felice Mondini, Agide Noelli, Peluffo, Angelo Perotti , Secondo Pia, Teresio Piasco, Benedetto Porro, Carlo Reynaudi, H.Rinck, Michelangelo Scavia, Vittorio Sella, Diana e Bianca Stella, Giuseppe Tavella, Tonelli, Emanuele Elia Treves, Trionfi, Ubaldo Valbusa, Wehrli (ed.), Ernesto Zoppis. E’ interessante notare che Gabinio possedeva anche un piccolo gruppo di lastre di autori diversi (Fondo Gabinio, lastre, scatola 58/Gs). Per le notizie relative ad alcuni di questi fotografi si rimanda al puntuale apparato di schede in  Miraglia, 1990, ad vocem.

 

[14]Questa immagine si inserisce perfettamente nel genere delle “Scene di vita e di lavoro” che tanto successo aveva nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo, “Il Progresso Fotografico” in particolare in cui vennero pubblicate sotto questo titolo immagini di autori tra loro diversissimi quali Von Gloeden e Tarchetti, cfr. Cavanna, 1990; Miraglia, 1990, p.75 passim.

 

[15]Si confronti ad esempio la  fotografia di Piazza Solferino, datata 1927, (B41/1)   con la veduta di Piazza S. Gioanni  litografata da D. Festa da un  disegno di Enrico Gonin del 1835, verosimilmente nota a Gabinio almeno dal 1902 , quando cura con Luigi Galleani la proiezioni delle diapositive a corredo della conferenza di Alberto Viriglio dedicata ad Una escursione attorno ed a traverso alla vecchia Torino, tenuta il 17 aprile al Politeama Gerbino per iniziativa dell’Unione Escursionisti e comunque pubblicata nel 1923 in un album tipografico di grande diffusione (Rossi, 1923, s.n.). Rare sono queste immagini nel Fondo Gabinio della Galleria Civica mentre  una serie significativa è stata pubblicata in Avigdor, 1981, tavv. 62-65.

 

[16]Sezione IV del IV Concorso,  cfr. “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio. L’Unione Escursionisti espone “nella categoria dei paesaggi e gruppi gran parte del materiale che era raccolto nella sede a ricordo di tutte le escursioni compiute” accanto a lavori di maggior impegno quali la serie di Gabinio e la riproduzione degli affreschi della sala del castello della Manta, realizzata da Gottardo Gussoni. Una immagine del padiglione dell’Unione Escursionisti è pubblicata in Avigdor, 1981, tav. VI, ma con datazione al 1898.

 

[17] Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville ed oltre alla ben nota produzione di Vittorio Besso, che non assume però esplicitamente la forma dell’album dedicato alla città in cui opera (Biella) numerose sono a partire dagli anni ‘70 dell’800 le produzioni documentarie commissionate dalle diverse municipalità, da committenti o sottoscrittori privati ma più sovente realizzate dagli stessi fotografi a scopo promozionale, cfr. Cavanna, 1992. La novità d’impostazione del lavoro di Gabinio, la sua qualità di “documentazione artistica”, è stata rilevata anche da Marina Miraglia (1990, pp.72-73; tavv. 163-166) sebbene a partire da immagini che appartengono ad una fase molto più tarda della sua produzione, riferibile piuttosto ai primi anni Trenta. Solo in questo contesto sono condivisibili le osservazioni relative alla capacità di Gabinio di leggere la “complessità e continuità dell’aggregato urbano” , mentre non pare verificabile l’ipotesi che egli abbia  puntato “il proprio obiettivo sulla classe dei lavoratori, riprendendone a distanza ravvicinata volti, espressioni, gesti e sorrisi. Sembra quasi che egli abbia colto (…) soprattutto la forza diversa del proletariato”

Colgo l’occasione per segnalare che anche la fotografia di Carlo Nigra Torino, fontana nella piazza del Borgo Medioevale, (tav.138) datata dubitativamente 1884?, va più correttamente collocata almeno al 1928, anno in cui la copia della fontana del melograno del castello di Issogne, realizzata per l’Esposizione romana del 1911, venne collocata nella piazza del Borgo.

 

[18]Edmondo De Amicis, La città, 1880, citato in Comoli Mandracci, 1983, p.209.

 

[19]Ferrari, 1900. Nel testo è contenuta anche una interessante “classificazione”: “Questa grande famiglia -dice Ferrari- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”.

Nell’ambito dell’Esposizione la Sezione III, dedicata alle “Riproduzioni di monumenti, dipinti ed oggetti d’arte antica e moderna” comprende lavori di Ernesto Forma, Alberto Grosso, Charvet e Tamagnone di Torino oltre a Pietro Santini di Pinerolo, ma non risultano presenti Secondo Pia, Vittorio Ecclesia, due tra i principali operatori piemontesi del settore. Nella Sezione IV, dedicata un poco confusamente ad “Interni, vedute, paesaggi” si segnalano Guido Accotto, Annibale Cominetti ed appunto Gabinio, al quale Pietro Masoero dedica una lusinghiera segnalazione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”: “Un’altra esposizione collettiva è quella dell’Unione escursionisti di Torino, interessante nel complesso. È l’illustrazione dell’escursione in tutte le forme, e fra fotografie di poca importanza tecnica ve ne sono alcune molto buone. Tra queste le riproduzioni interessantissime di Mario Gabinio Torino che scompare.” (Masoero, 1900, p.282). Lo stesso Masoero, uno dei personaggi più interessanti della fotografia   italiana tra i due secoli, sarà la guida artistica dell’Unione Escursionisti nel corso della gita a Vercelli e Palestro del 1912, cfr. “L’Escursionista”, 14 (1912), n.6, maggio.  L’opera e la figura di Masoero sono state in parte presentate e discusse in Cavanna, 1985; Id. 1986; Costantini, 1990, p.22 passim.

 

[20]Brayda, 1900. Limitatamente alle sole architetture medievali Gabinio ripercorre lo stesso cammino tracciato da Secondo Pia negli anni immediatamente precedenti (1894-1896), ma risulta assente nel catalogo delle riprese di questo fotografo (Borio, Falzone del Barbarò, 1989, pp.130-132) il palazzo dei conti Ponte di Scarnafigi e Lombriasco in via Genova, al quale Brayda dedica così grande attenzione, ciò che sembra indicare per l’ingegnere qualcosa di più che il ruolo di semplice ispiratore nella genesi di Torino che scompare.

Le vicende legate alla demolizione della Casa del Vescovo (1900)  e l’intervento di poco precedente (1897) relativo agli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso sono testimonianza precisa dei dissapori tra Riccardo Brayda ed Alfredo d’Andrade, originati certo da rivalità personali e professionali che datano dagli anni di formazione del progetto per il Borgo Medievale (1882-1884) ma soprattutto legati a due diverse concezioni della politica di tutela  e restauro del patrimonio storico torinese. Cfr. Bertea, 1914; Alfredo d’Andrade, 1981; Viglino Davico, 1984; Donato, 1993.

Nella pubblicazione della seconda serie di immagini sul numero del 1 aprile 1900, il redattore conferma il giudizio positivo sul senso da assegnare a questa campagna di documentazione: “Ci pare opera buona ed utile il registrare così, per via di documenti che potranno servire ai futuri storici dell’arte o della topografia torinese, alcune fra le cose più interessanti sia dal punto di vista estetico, sia da quello di una semplice curiosità: tanto più che siamo sicuri di porre non pochi fra i nostri lettori torinesi in grado di scoprire nella loro città bellezze pittoriche, le quali a moltissimi sono perfettamente ignote”.

Ancora nel 1934, in occasione dei lavori relativi alla realizzazione di via Roma nuova, la rassegna municipale “Torino” pubblica una rubrica fotografica intitolata La città che scompare nella quale peraltro non sono comprese immagini di Gabinio.

 

[21]Nello stesso periodo anche la Società Fotografica Subalpina organizza gite con identiche mete, sempre guidata da Brayda, ma non risulta che le due associazioni organizzassero iniziative comuni. Anche Francesco Negri, nel  1901, ripeterà la propria conferenza sul Santuario di Crea sia per  l’Unione Escursionisti sia per la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, cfr. Mattirolo, 1925, p.13, n.1.   Il connubio tra l’attivissimo Brayda e l’Unione è precocemente celebrato da Edoardo Barraja nell’articolo Alla scoperta del Piemonte ( il cui titolo è ripreso da una conferenza tenuta da Ercole Bonardi al Circolo Centrale di Torino) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 1 gennaio 1899, (Barraja, 1899) corredato da una fotografia della casa del Vescovo  realizzata da Gabinio,  la cui collaborazione al periodico data dal 1898 al 1902 per il tramite di Brayda e Treves.

 

[22]Fiori, 1902, p.3. Con un articolo dallo stesso titolo, Gli amici dei monumenti, pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 23 febbraio 1902 Edoardo Barraja aveva presentato  la serata di proiezioni che si doveva tenere il successivo giorno 28 al Teatro Vittorio Emanuele per iniziativa dell’Unione Escursionisti e collega l’attività di questa associazione al più vasto fenomeno della rinnovata attenzione per l’arte (“la sua funzione nella società appare sempre più potente quale strumento di rigenerazione civile”) mostrando in particolare apprezzamento per l’attenzione portata al patrimonio artistico ed architettonico minore, ai cui problemi legali di tutela aveva dedicato sua tesi di laurea in Giurisprudenza, discussa nel 1901 (Gilibert Volterrani, Gilibert, 1977, p.10): “È pregiudizio purtroppo ancora largamente diffuso all’epoca presente -ha scritto e con ogni ragione Luca Beltrami- che il patrimonio artistico e storico del nostro paese possa compendiarsi tutto nei principali monumenti e nelle sole opere d’arte più salienti (…) ma tutto il resto delle memorie, le quali pur essendo meno appariscenti, sono gli elementi che compongono la vaga ed indefinita espressione di quell’ambiente artistico che avvolge i nostri monumenti e li completa, e ci conduce ad una vera comprensione dell’arte” (Barraja, 1902, G164P).  Appare qui una concezione del patrimonio artistico certamente più proficua di quella che sarà alla base della prima legge italiana di tutela (L.185 del 12-6-1902) da applicarsi ai soli “monumenti, agli immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio d’antichità o d’arte”.

Nel rinnovato interesse per il patrimonio storico che si manifesta in questo periodo (“Solo in questi anni, e diremmo, in questi ultimi mesi, è venuto per buona sorte un salutare movimento contro la distruzione inconsiderata dei monumenti antichi (…) meno male però per la nostra città! La prosa del presente non è ancora riuscita a distrurre del tutto la poesia del passato”, Anonimo, 1902) va collocata verosimilmente l’iniziativa  per l’erezione di un monumento a Filippo Juvarra, proposta da Brayda e sostenuta dall’Unione Escursionisti, a cui aderiscono  il sindaco di Torino Severino Casana, Alfredo d’Andrade, Camillo Boito, Carlo Ceppi, Giacomo Salvadori di Wiesenhof, Stefano Molli, Melchiorre Pulciano,  Camillo Boggio, Pietro Spurgazzi, Mario Gabinio ed altri. Tale iniziativa si concretizzerà nella posa di una lapide commemorativa a Superga nel 1903.

 

[23]Citato in Cavanna, 1981, p.109. Questo giudizio positivo sarà ribadito da Masoero nella recensione delle immagini di Pia presentate all’Esposizione Fotografica di Torino del 1900: “Il Pia dona alla storia futura quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia” (citato in Cavanna, 1985, p.151). Questa celebrazione del ruolo del dilettante rimanda alle opinioni espresse da Brocherel nel 1898, cfr. nota  12.

 

[24]Al banchetto erano presenti oltre ad Eduardo di Sambuy anche Luigi Cantù, Guido Rey, Ercole Bonardi,  Felice Alman, Vigliardi-Paravia, Alessandro Pasta, Benedetto Porro, Achille Berry, Oreste Pasquarelli, Efisio Manno, Secondo Pia, Pio Foà, Gerardo Molfese, Annibale Cominetti, Oreste Bertieri, Adolfo Guallini, Giovanni Assale e Luigi Pellerano. “Finito il banchetto, dietro invito del presidente i commensali si recarono ad inaugurare la nuova sede della Società Fotografica Subalpina, in via Maria Vittoria 25″(Anonimo, 1900/ G159P, Anonimo, 1900/ G156P).

 

[25] Giovanni Santoponte, “Per un museo italiano di fotografie documentarie”, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48, citato in Cavanna, 1991, p.42.  Per la ricostruzione del dibattito italiano sugli stessi temi, a partire dagli interventi pubblicati ne “La Fotografia Artistica” cfr. Costantini, 1990, pp.58-72.

 

[26]Per Lovazzano cfr. Miraglia, 1990, tavv.147-150. L’Album di Gabinio intitolato Esposizione/ 1898 contiene anche alcune immagini fatte dal pallone frenato di Godard collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie simile viene realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli aveva vietato di fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898 ”, n.14, p.105. Forse in occasione della concomitante Esposizione di Arte Sacra Gabinio fotografa una copia del trittico con “L’Annunciazione” di Van Der Weyden (B101/19).

Mario Ceradini partecipa al concorso per il manifesto del “Cinquantenario dello Statuto/ Esposizione generale Italiana/ Torino/ Aprile 1898 Ottobre”, presentato col motto “Biancabella” e quindi realizza per l’Esposizione il chiosco della ditta Sangemini, entrambi fotografati da Gabinio (B110/6, A17/21). Per Ceradini cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.120-121, scheda a cura di Airis Rossana Masiero, in cui la presenza dell’architetto all’Esposizione non viene però segnalata.

Il trattamento riservato alla fotografia nella stessa Esposizione viene aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà (…) non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero (…) Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate (…) Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria.”, Brogi, 1898, pp.252-254.

 

[27] Avigdor, 1981, p.155, cita anche il primo premio in Meccanica ricevuto da Gabinio a conclusione del Corso, documentato da una medaglia conservata nella collezione Marcellino Alessio ma non ricordato in Serra, 1898 nelle sue “Memorie” raccolte in occasione del cinquantenario di fondazione delle Scuole, il cui obiettivo -simile a molte altre istituzioni consimili- era di “Educare le menti degli operai al bello ed al vero”. La primitiva denominazione di “Società di Tecnico Insegnamento” muta nel 1856 acquisendo la denominazione corrente e popolare legata all’ex-convento di San Carlo in cui le Scuole erano ospitate. Tra le presenze significative vanno segnalate quelle di Angelo Reycend, Pier Celestino Gilardi e Tancredi Pozzi, amministratori rispettivamente dal 1885, dal 1888 e dal 1892 mentre Cesare Reduzzi faceva parte del corpo insegnante; di quest’ultimo Gabinio fotograferà il Busto in bronzo della Signora Bonardi nel 1903 (A30/2-5).

 

[28] Album 23 nn.67-72, album 17 n.26. Il riferimento all’impresa costruttrice Viretti contenuto nel titolo di quest’ultima immagine fa supporre che questa ditta ne fosse il committente, forse per il tramite dell’architetto Gottardo Gussoni, collaboratore di Fenoglio dopo il 1895,  cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.148-149, scheda a cura di Airis Rossana Masiero. Per Fenoglio cfr. Nelva, Signorelli, 1979; Politecnico di Torino, 1995.

 

[29] Per Morbelli cfr. Anzani, Maggia, 1995. Il confronto che qui si suggerisce, ad esempio tra il Morbelli di Alta montagna, 1912 ed alcune immagini di Gabinio non pretende ovviamente di fondare relazioni dirette ma più semplicemente di dare conto di un clima culturale comune all’interno del quale si collocano le due esperienze, senza che sia per ora possibile definire i reciproci debiti, che andrebbero comunque verificati caso per caso.  L’individuazione di  relazioni evidenti tra le produzioni della fotografia e le “ricerche pittoriche in corso” a Torino nei primi anni del secolo è stata proposta ad esempio da Maria Mimita Lamberti (1996, p.16) in particolare a proposito della Ofelia di Felice Carena, esposta alla Biennale di Venezia del 1912.

 

[30]Pubblicata in Costantini, 1994, p.152, n.101.

 

[31] “Nata aristocratica la fotografia piemontese, pare ancor oggi segnata di quel nobile sigillo (…) ed è stata la quarta culla che ammirò il mondo in Torino, dove i destini vollero nascesse prima il Risorgimento, e poi l’automobile e la moda e la fotografia. Quante attività fotografiche ha già disseminato nel mondo la città nostra? Qui le prime conferenze, le prime proiezioni, il primo Istituto di educazione proiettiva, le prime battaglie per l’autocromia, per la fotografia artistica; qui i primi passi e certo le più aristocratiche creazioni della cinematografia”, Angeloni, 1933, p.189. Questo delirio retorico autocelebrativo costituisce un buon esempio del clima culturale dominante a Torino in quegli anni.  La marginalità in cui si collocavano i dilettanti fotografi dell’Unione Escursionisti è rivelata nella relazione anonima sulla Seconda Esposizione Sociale che si tiene nei mesi di marzo ed aprile del 1914: “Subito si nota nelle prove esposte (…) la grande preponderanza d’ingrandimenti e la mancanza assoluta di lavori al carbone, di gomme bicromatate e di altri processi foto-meccanici. Va considerato però che se tale lacuna sarebbe certamente sentita in una mostra fotografica che abbia prevalente carattere artistico e classico, diventa pressoché trascurabile nella modesta accolta di opere delle nostre esposizioni.”, De Marchi, 1914, p.4.

 

[32]Citato in  Cavanna, 1985, p.150.  Queste posizioni lo portarono ad esempio a criticare “l’esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, sebbene poi apprezzasse nella stessa occasione le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli, cfr. Costantini, 1994, p.99 passim.

 

[33]”La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, p.204;

 

[34] La notizia di un viaggio di Gabinio a Messina viene riportata per la prima volta da Enrico Nori (Passoni, Nori, 1974, s.n.) corredata da una serie di  informazioni non altrimenti documentate e di valutazioni infondate (la “dimestichezza con Galileo Ferraris”; “Dopo i cinquanta anni Gabinio comincia a fotografare solo Torino”; “Negli anni che restano [cioè gli anni Trenta] scatta ancora qualche fotografia: ma è solo tecnica, mestiere, abitudine e sopravvivenza”)  e viene quindi  ripresa da Avigdor, 1981, p.155, il  quale connette esplicitamente il viaggio alla documentazione del terremoto del dicembre 1908, seguito in questo da Miraglia, 1990, p.385, sulla base di quattro lastre poi passate al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, forse corredate di una indicazione di attribuzione della quale oggi non rimane traccia.  La verifica condotta sulle copie moderne tratte da quelle lastre, gentilmente fornite da Giorgio Avigdor, non consente di formulare alcuna ipotesi attributiva poiché queste fotografie non si discostano  in nulla dalla corrente produzione coeva relativa all’evento. Va però fatto notare che nelle circa 12.000 stampe originali e nelle circa 4500 lastre che costituiscono il Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino non compare alcuna traccia non solo di immagini relative al terremoto ma neppure ad un viaggio in Calabria e Sicilia.

A sostegno dei terremotati e per iniziativa della Società Fotografica Subalpina la rivista torinese “La Fotografia Artistica” pubblica  nel gennaio 1909 il numero unico Pro Sicilia e Calabria, contenente 80 illustrazioni dovute a Felice Masino, Secondo Pia, Frank Perret di Napoli, Stabilimento Brogi, Luca Comerio, Generale Cerri, Giovanni Assale, Giovanni Alifredi, Arturo Ambrosio, L. Martinez di Catania, Modò di Acireale e Maraffa Abate di Palermo. Una simile iniziativa viene presa anche dalla Società Fotografica Italiana che “sotto l’alto patronato di S.M. il Re” mette in cantiere una monografia su Calabria e Sicilia che sarà posta in vendita a L.5.  Di intento più celebrativo sembra essere invece l’album Resurrecturae edito a Milano da Biagio Giarmoleo e conservato alla Biblioteca Civica di Torino, forse da mettere in relazione con la realizzazione  a Messina dell’Ospedale Piemonte, offerto alla città dal “Comitato piemontese in pro delle popolazioni colpite dal terremoto”, realizzato nel 1911 su progetto di Riccardo Brayda e Pietro Fenoglio. (Viglino Davico, 1984, p.51). L’edificio venne visitato da una comitiva dell’Unione Escursionisti in occasione della gita nel Mediterraneo compiuta nel giugno del 1910.

 

[35]Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, 1907; Brand, 1911; Garimoldi, 1995, p.109.

 

[36]Angeloni, 1924, p.46. In particolare il riferimento è all’opera Movimento di Drtikol, pubblicata anche nel catalogo dell’esposizione, a cui partecipa tra gli altri anche Alexander Rodcenko con il Ritratto del poeta Assico  ed un altro Ritratto non identificato (nn. 102, 103). L’insieme delle immagini presenti riflette l’eterogeneità delle tendenze della fotografia dei primi anni Venti, ancora segnate da influenze pittorialiste, specialmente forti in ambito torinese come non manca di rilevare Namias, escluso dalla Giuria,  sulle pagine de “Il Progresso Fotografico”, luglio 1923, p.220: “In questa Esposizione, pur così riuscita, è mancato al Comitato il volere o il potere di sottrarsi alle influenze locali”. Al termine della manifestazione il Consigliere Giuseppe Ratti, ideatore dell’iniziativa, propone che le eccedenze di bilancio siano destinate “alla costituzione di un primo fondo per la creazione di una scuola professionale di fotografia ed ottica sotto l’alto patronato della Camera [di Commercio] stessa”,   intitolandola al conte Teofilo Rossi di Montelera, ma questa iniziativa prenderà corpo solo molti anni più tardi, nel 1935, cfr. infra nota 49.

 

[37]Per la ricostruzione della vicenda e del ruolo svolto dalla rivista e dall’annuario il riferimento è Luci ed Ombre, 1987. La rivista venne fondata a Piacenza nel 1904 da Angelo Guido Dell’Acqua (deceduto a Genova nel 1932); in seguito alla morte di  Alberto Dell’Acqua  la rivista passa al gruppo torinese nel 1922.  Il titolo dell’annuario riprende la definizione che Sem Benelli aveva dato dell’Esposizione Internazionale di Fotografia del 1923, detta “della luce e dell’ombra” (Prolo, 1976, p.215) e richiama quello di una rivista di esoterismo che si pubblicava a Roma circa negli stessi anni (1923-1927): “Luce e ombra. Rivista mensile illustrata di Scienze Spiritualistiche”.

 

[38] La schedatura analitica prevede che si definisca come “data” quella di realizzazione del fototipo (positivo, negativo, diapositiva) oggetto di scheda, registrando in nota le eventuali differenze tra data di esecuzione della ripresa e data di esecuzione della stampa. Stabilito questo irrinunciabile principio, perfettamente consono al trattamento di tutte quelle immagini su cui non compare una annotazione autografa relativa all’esecuzione, i problemi si pongono -paradossalmente- proprio nel momento in cui ci si trova di fronte ad una informazione dettagliata e precisa fornita dall’autore stesso: la data apposta al verso.  Alcune verifiche incrociate hanno consentito di individuare casi diversi: 1) data di ripresa e di stampa coincidono. 2) la data indica per certo l’esecuzione della stampa. 3) data di ripresa e data di stampa sono diverse ma molto prossime nel tempo, nell’ordine di due/tre giorni. Questa verifica consente di attribuire con certezza la data autografa all’esecuzione della stampa analizzata ma di ottenere anche -per le considerazioni appena fatte- una ricostruzione più che attendibile del calendario delle riprese.

Dall’analisi si ricava che Gabinio in questo periodo dedica alla fotografia anche giornate non festive, ciò che lascia supporre l’interruzione o la  conclusione del suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione delle Ferrovie, apparentemente non verificabile attraverso i documenti conservati presso l’Archivio Storico delle Ferrovie di Torino.

 

[39] Il gioco insistito di relazioni  tra il primo piano di rami (fioriti)  e lo sfondo di  paesaggio tenuto fuori fuoco che  rimanda nella struttura compositiva e nel trattamento a numerose immagini di Gabinio dello stesso periodo,  si ritrova ad esempio in Fiori di melo di Enrico Unterveger, primo premio al II Concorso Trimestrale del 1926 (Praj, 1950, s.n.) ma anche in Nube di primavera di Mario Balloira, commerciante torinese di articoli fotografici ed amico di Gabinio, pubblicata in La Società Fotografica Subalpina nel 1927, p.2  Altri confronti possibili si possono fare tra il Panorama di Torino dall’approdo fluviale di Sassi (A44/56) ed il Tramonto sul Po presso Sassi (CM/35), entrambe del 1922,  con  alcune delle immagini presenti negli annuari del “Corriere Fotografico” quali Crepuscolo di Cesare Schiaparelli, 1926, o Tramonto di Antonio Fasoli, 1927, ora ripubblicate in Luci ed Ombre, 1987, s.n. Tutte registrano il tentativo fatto da Gabinio in quegli anni di aggiornare una prima volta il proprio linguaggio, adeguandolo ai  sicuri modelli certificati dalla pubblicistica fotografica e dai Salon.

Una seconda serie di immagini di fiori, isolati singolarmente, risale invece agli anni 1933-34 e rimanda ad esempi precisi della fotografia in ambito Bauhaus, la cui conoscenza era mediata in Italia, ad esempio, dalle immagini di soggetto simile pubblicate nella rivista “Domus”. Particolarmente interessante è il confronto tra il Fiore di passiflora di Gabinio, 1933, e la fotografia di identico soggetto di Joost Schmidt, datata 1928c, ora in Bauhaus Fotografie, p.47, tav.50.

 

[40]Una attenzione simile per i paesaggi marginali, inconsueta per l’epoca, si ritroverà in una serie di fotografie di Raoul Hausmann dei primi anni Trenta come Grano presso Schönenberg, 1931, Senza titolo, 1927-31 e Acqua di torba, 1931 (Raoul Hausmann, 1994, p.130).

 

[41] La singolarità e novità di questa immagine sono verificabili nel confronto con la stampa al bromolio di identico soggetto realizzata da Domenico Riccardo Peretti-Griva e pubblicata in “Torino” Rassegna Municipale, 8 (1929), n.4, aprile, p.176.

 

[42] Per Ugo Alessio cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.200-206, scheda a cura di Airis Rossana Masiero e Elena Dellapiana. La commissione esaminatrice  con la quale Alessio si diploma nell’ottobre del 1925 con il progetto per una cappella, era composta da Eugenio Ballatore di Rosana, Giulio Casanova che controfirma il progetto Alessio, Agide Noelli,  Cesare Bertea e Mario Ceradini, questi ultimi buoni conoscenti e amici di lunga data di Mario Gabinio. Tra le collaborazioni professionali di Alessio interessa ricordare qui quella con Carlo Brayda, che rimanda ancora una volta ad una trama di relazioni che trova le proprie origini nell’Unione Escursionisti. Gabinio riproduce più volte disegni e progetti del nipote, a partire dal saggio di diploma del 1925 sino alle tavole di progetto per il Teatro Civico di Vercelli e l’Istituto Tecnico Industriale Q. Sella di Biella, realizzati in collaborazione con l’ing. L. Gariboldi (Fondo Gabinio, lastre, sc. 311/Pl).

 

[43]Nell’ampia produzione superstite la sola immagine di folla urbana presente compare in una fotografia di piazza Palazzo di Città ripresa dall’alto il 12 settembre 1925 in occasione di un evento non identificato. (P22/9).

 

[44]Weaver, 1925, p.36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confusi, del resto propri della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

 

[45]Brayda, 1888. La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Brayda, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, 1990, pp.371-372. Il tema “porte e portoni” è stato ripreso in anni più vicini a noi da Augusto Pedrini, 1955, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura, alla quale si accompagna una ricca produzione editoriale sugli stessi temi, con presentazioni di Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi, e la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri ed Architetti di Torino”. Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

 

[46] I rapporti tra Gabinio e l’architetto sono  documentati dalla riproduzione fotografica della tavola generale del progetto di laurea di Morbelli, Veduta assonometrica di un quartiere operajo/ presso la FIAT-Lingotto a Torino/ 1928,  presente nel Fondo (B101/31). Anche le relazioni con alcuni esponenti della famiglia Mennyey sono documentate da stampe presenti nel Fondo: due fotografie di paesaggi liguri sono infatti attribuite da Gabinio ad A.Mennyey mentre le stampe di Via Bertola, 1924 (B114/15), Albergo Fucina, 1926 (B83/16) e Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Borgo Dora, 1927c(B77/146) risultano “consegnate”, secondo quanto si ricava dalle indicazioni al verso, a [Francesco?] Mennyey, che all’Esposizione del 1926 presenta l’acquaforte Il Borgo Dora. Per Mennyey, alle cui incisioni già aveva fatto riferimento Aldo Passoni a proposito di Gabinio (Passoni, Nori, 1974, s.n),  cfr. Francesco Mennyey, 1975; L’incisione del Novecento, 1985, p.62.

Le relazioni di Gabinio con l’ambiente artistico torinese sono ulteriormente confermate dalle fotografie di quattro copriteiere ricamate di Maria Rigotti Calvi, datate tra il 1920 ed il 1926 (Rigotti, 1980, p.268) realizzate forse in preparazione della mostra ginevrina del 1927 “Expositions d’Artistes Italiens Contemporains”.

Va segnalata qui anche la straordinaria coincidenza di temi, soggetti e luoghi che avvicina la serie di fotografie che Gabinio dedica ai cortili di case a ballatoio nell’area interessata dalla ricostruzione di via Roma, realizzata nel 1930-31 (B83/19-21), a litografie ed acqueforti di  Ettore de Fornaris quali Vecchio cortile (1936-1937) e  Slums (1938-39), nelle quali anche il punto di vista fortemente scorciato dal basso rivela un preciso rimando ai modi della ripresa fotografica, cfr. 6 incisori a “La Stampa”,  1939, p.7; Il tema era già stato affrontato da De Fornaris, ma con diverso trattamento, in Vecchio cortile, ante 1932, cfr. Incisori contemporanei, 1932, tav.XI. La sua figura di artista e mecenate è stata affettuosamente presentata da Rosanna  Maggio Serra (1986, pp.11-17).

 

[47] Il fascino degli spazi e dell’ambiente della “Vecchia Torino” coinvolge anche Marcello Boglione che al tema dedica  sia l’omonima cartella di incisioni, realizzata nel 1928 con Ercole Dogliani, sia le più tarde vedute di Via Barbaroux e di Via Sant’Agostino, esposte nel 1938 alla personale alla Galleria  Martina a Torino, mostra che Ettore Zanzi definisce, nella sua recensione, “specialmente interessante per gli studiosi della storia urbanistica torinese: sono infatti numerose le tavole che documentano con esattezza obiettiva e, tuttavia, con genialità interpretativa, non pochi aspetti della nostra città vecchia e stanca, edifizi che stanno per essere demoliti, strade e vicoli che subiranno presto o tardi radicali trasformazioni.” (citato in Marcello Boglione, 1994, p.143) riproponendo valutazioni sostanzialmente identiche a quelle con cui era stato accolto Torino che scompare nel 1900. Gabinio conosce certamente alcune opere di  Boglione, e in particolare nella sua Veduta della torre littoria in costruzione da Piazza Castello (P14/12) riprende esplicitamente il disegno di identico soggetto pubblicato in “Torino”, 14 (1934), n.1, gennaio, p.43.

 

[48] Nella Sala VII sono ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli e “tutta una parete della sala è occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”. Nella Sala X sono presenti rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Giancarlo Dall’Armi ed Augusto Pedrini; nella Sala XI progetti di Bonsignore, Talucchi, Locarni, Ferri ed altri ed infine nella Sala XII progetti di Vittorio Melano, Angelo Reycend, Stefano Molli e Carlo Ceppi, cfr. La Mostra retrospettiva, 1926.

 

[49] Società  Fotografica Subalpina, 1949. Sulle prime scuole di fotografia istituite a Torino cfr. Costantini, 1990, p.142, n.229. La scuola professionale Teofilo Rossi di Montelera, già auspicata da Giuseppe Ratti nel 1923 viene istituita solo nel 1935 per iniziativa del Consorzio per l’Istruzione Tecnica. Riconoscendo la necessità di fornire una formazione a largo raggio il programma della scuola viene impostato per giungere alla “formazione del ‘fotografo totalitario’”,  dotato di cultura generale e di cultura professionale. A tale scopo accanto agli insegnamenti tecnici, tecnologici e merceologici sono attivati i corsi di Storia dell’Arte, Storia delle Tecniche Fotografiche, Estetica Fotografica e Storia dell’Arte Fotografica, cfr. Bellavista, 1935, p.189.

 

[50]Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par.35, Verbale n.4 del 24-1-1931. Questa attenzione per la documentazione fotografica potrebbe anche essere stata suggerita da Vittorio Viale, dal 1930   direttore del Museo Civico in cui istituisce un primo nucleo di Archivio Fotografico, dotato di un fondo spese di circa ottomila lire annue, che propone di trasformare in “Archivio fotografico dei monumenti degli oggetti d’arte del Piemonte”, in apparente  concorrenza col corrispondente archivio della Regia Soprintendenza. La proposta, presentata al “I Congresso piemontese di Archeologia e Belle Arti” che si tiene a Cavallermaggiore nell’agosto del 1932, intende anche ovviare alla dispersione del materiale fotografico di interesse documentario conseguente alla chiusura degli studi professionali per cessazione dell’attività, (Viale, 1932) prefigurando in un qualche modo proprio la vicenda Gabinio che vedrà ancora protagonista Viale sul finire del decennio.

Quando, dopo alterne vicende (Avigdor, 1981, pp. 174-179) il Comune di Torino decide di accettare la proposta di acquisto avanzata da  Ugo ed Ivan Alessio dopo la morte di Gabinio, la motivazione è individuata “in relazione essenzialmente all’interesse connesso alla conoscenza dello stato di fatto in cui si trovavano l’edilizia cittadina e parecchi servizi municipali, fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, da cui risultano evidenti le trasformazioni verificatesi sotto l’impulso innovatore del Regime.“, Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par. 40, verbale n.28 del 17-6-1940, corsivo nostro. La perizia relativa al valore delle 497 scatole di lastre, stimato in 9.500 lire, venne affidata a Viale, il quale ne opera una prima selezione, trattenendo per l’Archivio Fotografico dei Musei Civici solo quelle “di carattere artistico o archeologico”, corrispondenti a 1087 lastre e restituendo le altre -oggi non più reperibili- alla Divisione VIII Amministrazione Patrimonio e Lavori Pubblici, Archivio dei Musei Civici, cat. IX, cl.6, pr.425 del 18 ottobre 1941.

 

[51]Benjamin, 1966, p.71, che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  In un contesto diverso questa relazione è sottolineata anche nella recensione del volume di Camille Recht dedicato ad Atget pubblicata da “La Casa Bella”, nel 1931: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un”arte” della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica” (C.G., 1931).

 

[52] Le stampe di Gabinio relative ai due cantieri sono conservate anche nell’archivio storico della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino, insieme a quelle di Stella, Pedrini, Ottolenghi,  dell’ing. Pantanelli e di Luigi Costa, fotografo con studio in Corso Regina Margherita 102 a Torino, che firma con Gabinio anche l’album Nuovo Palazzo/ della Società’ Reale/ Mutua Assic.ni/ Torino/ Foto di M.Gabinio/ e L.Costa. Alcune di queste immagini vennero pubblicate in Architetture di Armando Melis, 1936, p.38;

 

[53]Ponti, 1932, pp. 285-286, corsivo dell’autore.  Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”, pubblicato nel 1931, che contiene due importanti saggi di G.H. Saxon Mills e di C. Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  (4 (1931), n.47, p.67),  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” (4 (1931),  n.47, novembre 1931, p.54). All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “La Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti.

 

[54]La fotografia di Gabinio, pubblicata in “L’Architettura Italiana”, 29 (1934), n.3, marzo, p.95, ricorda le foto di Thèrese Bonney di una scala di Robert Mallet-Stevens, a proposito delle quali Ponti  parla di “seduzione fotografica”  (“Domus”, 2 (1929), n.2, febbraio, p.38) e richiama in particolare quelle eseguite dalla Studio Cartoni per la palazzina al Lungotevere Arnaldo da Brescia di Giuseppe Capponi, pubblicate in “Domus”, 4 (1931), n.37, gennaio, p.23.

 

[55]Cfr. Mostra sperimentale, 1931. Il concetto di “nuova visione” formulato da Moholy-Nagy e sviluppato in ambito Bauhaus relativamente alla fotografia (La fotografia al Bauhaus, 1993) diventerà il titolo della prima edizione americana del suo volume Von material zu architektur, Bauhausbücher 14, edito nel 1928 da Albert Lagen a Monaco (The New Vision: from Material to Architecture New York: Brewer, Warren & Putnam, 1930) ed in questa forma avrà particolare fortuna critica, pur non riferendosi in nulla, come è noto, alla fotografia.

 

[56]Antonio Boggeri  ha occasione di conoscere le opere delle avanguardie fotografiche europee per il tramite delle riviste messe a disposizione da Marco Luigi  Poli, che alla Alfieri & Lacroix di Milano, dove entrambi lavorano, cura il supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia” (Monguzzi, 1981, p.2).

 

[57]Sansoni, 1932, in cui sono pubblicate anche tre immagini di Gabinio: Lyskamm (4500) e suo ghiacciaio al chiaro di luna, L’alba sul ghiacciaio del Trajo e Aosta – Le Porte Praetorie. È interessante rilevare l’operazione condotta in questa occasione da Gabinio che stampa su carta per ingrandimento alla gelatina bromuro d’argento lastre realizzate circa trent’anni prima destinate alla stampa a contatto su carte ad annerimento diretto. I risultati, tecnicamente discutibili, indicano non tanto la necessità di adeguarsi alla scomparsa dal mercato delle carte alla celloidina ed al citrato quanto piuttosto un desiderio di adattamento al gusto corrente, alla modernità dell’ingrandimento consentito dalle carte al bromuro. Alcune perplessità sul lavoro di Achille Bologna erano già state espresse da Cesare Schiaparelli nella recensione alla sua personale torinese del 1930 (Schiaparelli, 1930).

 

[58] Pavia, 1926. Il rimando improprio al cubismo ed al futurismo  (“Si rallegrino i futuristi: la teoria del ‘volume’ e quella della ‘sintesi’ è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo”) indica bene quale fosse il giudizio -e la distanza- che separava la cultura tradizionale dalle esperienze più aperte verso i valori del moderno, gli  stessi che avevano fatto si che lo stesso Felice Casorati venisse gratificato, nel 1919, dell’epiteto di “futurista” (Dragone, 1978, p.194)

 

[59] Sarà con questa architettura effimera che Edoardo Persico commemorerà l’artista sulle pagine di “Casabella” a pochi giorni dalla morte, nel numero di maggio 1935.

Nel corso del 1928, oltre a numerose altre minori, si tengono a Torino: gennaio – febbraio, “Prima mostra del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica” accanto alle personali di Léonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams; giugno, “Prima mostra provinciale d’arte fotografica dell’O.N.D.” promossa dalla Società Fotografica Subalpina; settembre,  “ III Mostra nazionale e I Esposizione internazionale di fotografia di montagna” organizzata dal Club Alpino Italiano; ottobre: “Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale” oltre naturalmente alla I Esposizione dei Maestri d’Arte professionisti Fotografi nell’ambito dell’Esposizione Celebrativa.

 

[60] I “Commenti” di M.Bernardi (1928) ed A.Boggeri (1929) sono stati ripubblicati in Luci ed Ombre, 1987, pp.100-101 e pp.110-111.

 

[61]Andreis, 1933, p.10. Andreis con Mario  Bellavista, Cesare Giulio, Giuseppe Borghi, Luigi Costa (collaboratore di Gabinio per le riprese alla “torre littoria”), Carlo Emanuele Rossi ed Ernesto Sacchetto sono i  membri della redazione di “Pagine Fotografiche ALA”, con direttore Giuseppe Portigliatti. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.121) Questo intrecciarsi di presenze non solo rende ragione dell’attenzione con cui “Galleria” segue le vicende ALA ma mostra bene quanto fosse oligarchico il gruppo “dirigente” della fotografia torinese negli anni del fascismo.  La stessa rivista ospita i Concetti per fotografi moderni, con cui Mario Bellavista si propone di definire una tipologia della fotografia fascista. Bellavista, interessante fotografo, è uno  dei personaggi più influenti della fotografia italiana del Ventennio: oltre a tenere corsi per numerose associazioni a Milano ed a Torino è direttore a Milano  del Laboratorio di Resinotipia di Namias, Direttore della Scuola ALA a Torino, direttore dell’Ufficio Tecnico Gevaert e  per la stessa Società realizza nel 1934-35 il “Corso radiofonico elementare di fotografia” che viene pubblicato in sunto anche sulle pagine di “Galleria” e della “Rivista Fotografica Italiana”.

 

[62] “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.1, febbraio, p.5. Il problema dell’aggiornamento e della crescita culturale dei fotografi induce le diverse associazioni sia a mettere a disposizione dei soci una ricca serie di periodici (37 titoli tra italiani e stranieri, presso la sede ALA) sia a promuovere corsi di grande interesse, come quello prodotto dalla Società Fotografica Subalpina nel 1934 che prevedeva, tra gli altri, interventi di Bellavista, Dalla dagherrotipia ai raggi infrarossi; Erizzo, Il Novecento in fotografia e in cinematografia; Bertoglio, Surrealismo e fotografia; Bologna, Tendenze fotografiche internazionali;  Movilia, Funzione politica e sociale della fotografia. Anche la ALA promuove “riunioni culturali” seguite da dimostrazioni pratiche, tra le quali segnaliamo quelle dedicate a La fotografia dell’infrarosso nella pratica e La fotografia notturna, entrambe tenute da Gabinio in collaborazione rispettivamente con Mario Balloira e Smeraldo Smeraldi. Questo impegno didattico sostenuto in età avanzata spezza temporaneamente la sua tradizionale riservatezza ma stupisce anche per i  temi trattati: tra le stampe del Fondo Gabinio sono presenti attualmente solo tre fotografie all’infrarosso (B53/59-61).

Nel 1936 la denominazione muta da “Associazione Culturale Fotografica ALA” a “Associazione Fotografica Italiana A.L.A” mentre l’anno successivo si riduce definitivamente ad “Associazione Fotografica Italiana” (AFI).  La nuova denominazione riflette una crescita ed un livello di influenza che superano l’orizzonte torinese creando forti polemiche con la Società Fotografica Subalpina. In questo contesto va collocata l’assenza dell’AFI dall’Unione Società Italiane Arte Fotografica (USIAF), con sede a Roma presso l’Associazione Fotografica Romana Dilettanti e ovviamente aderente all’Istituto Fascista di Cultura , la cui costituzione era stata però promossa proprio dalla Società Fotografica Subalpina, a cui spetta anche l’organizzazione del primo Congresso USIAF, che si tiene a Torino nel 1937. Alla Società torinese si deve anche l’organizzazione dell’assemblea costitutiva della FIAF (Federazione Italiana  Associazioni Fotografiche) che si tiene a Torino il 19 dicembre 1948. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.8 passim).

 

[63] Nel 1934 Gabinio partecipa alle seguenti esposizioni: “Internationell Fotografiutstallning” alla Liljevalchis Konsthall di Stoccolma con le opere Austerità, n.272, Carezze di sole, n.273, Pesche, n.274, Uva, n.275 (poi a Boston e Ottawa), Refezione al cantiere, n.276, Dall’alto, n.277; “Prima mostra internazionale fra le Società YMCA” (Young Men’s Christian Association) a Torino, con  Mezzogiorno ovvero Refezione al cantiere, n.202; “III Nemzetkozi Muveszi Fenykepkiallitas” di Sopron (Ungheria) con l’opera Carezze di sole; “III Internationale Photo-austellung” di Vienna con Umiltà, n.192, Carezze di sole, n.193, Pesche, n.194.

Le nature morte di Gabinio vanno confrontate con le corrispondenti di Achille Bologna ora pubblicate in Fotografia luce della modernità, 1991, pp.122,12,127, datate 1935c.

Nello stesso 1934 Federico Sacco pubblica il volume dedicato a Le Alpi che contiene, tra le altre, 38 fotografie di montagna di Gabinio. A partire da questo dato è stato ipotizzato (Avigdor, 1981, p.155) un ruolo fondamentale svolto dal geologo nella formazione culturale di Gabinio, a partire da una collaborazione databile al 1890. In realtà la collaborazione data a partire dal 1925 e si concretizza nell’utilizzazione di immagini provenienti dall’ampio repertorio di Gabinio relativo alla montagna.

 

[64]Domenico Riccardo Peretti-Griva, La nostra prima rassegna, in Prima esposizione fotografica, 1935, s.n. A suggerire altre e possibili tangenze e riferimenti troviamo in  catalogo Aringhe di Giulio Galimberti, che rimanda anche compositivamente a Le sardine di Emmanuel  Sougez, del 1932.  Una ulteriore selezione di immagini presenti in mostra (“la fotografia classica ottocentesca era accoppiata alle più audaci composizioni pubblicitarie”)  viene pubblicata anche dalla “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935),  n.3, marzo, con fotografie di Martino Brondi, Giovanni Calleri, Vincenzo Balocchi, Enrico Giorello, Enrico Aonzo, Gualtiero Castagnola, Mario Castino e Mario Gabinio (Piatti). Anche il redattore del “Corriere Fotografico” rileva che “Il torinese Mario Gabinio si fa notare per diverse belle nature morte e per una bella scena sul Po”  (citato in “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.4, aprile, p.38). Le opere presentate alla mostra sono: Piatti, n.112, Maioliche, n.113, Cipolline, n.115, Festa, n.116, Po, n.117, Valnontey, n.118. Nello stesso anno Gabinio partecipa anche al “XIV Salon International de Photographie” di Bruxelles con Università, n.352, Alluminio, n.353; “Fourth South African Salon of Photography” di Johannesburg: Carezze di sole, poi alla City Art Gallery di Durban, nel 1936; Mostra della Royal Photographic Society of Great Britain di Londra: Maioliche, n.86; “Second Canadian International Salon of Photographic Art” di Ottawa: Uva, n.63 (mentre Refezione al cantiere viene restituita); “XXX  Salon  international d’art photographique” di Parigi: Maioliche, n.166, Po, n.167,  Piatti, n.168;

 

[65] La rigida strutturazione compositiva di Piatti appare piuttosto come un’eccezione nella produzione di Gabinio di questi anni; in opere come Miscellanea (RA/23) o Maioliche (RA/21) come nella già citata Umiltà la forma appare piuttosto trovata che cercata, mai enfatizzata o insistita, e l’attenzione sembra piuttosto rivolta al “motivo” dell’accumulazione di oggetti, acutamente analizzato in Marbot, 1989, pp.154-155.

 

[66] Per La scala, 1930, di  Rodcenko cfr. Karginov, 1977, tav.182 e la variante di ripresa in Khan-Magomedev, 1986, p.247. Il gioco delle ombre portate sulla scalinata è il soggetto di Gradinata del tempio, 1930, di Achille Bologna e di Parigi, la Madeleine, 1932 , di Italo Bertoglio, entrambe pubblicate in Luci ed Ombre (1987, s.n.).

 

[67] Due immagini di questa serie vennero inviate a numerosi Salon internazionali con un titolo, “Carezza/e di sole”, che riprende esplicitamente quello di un’opera di Carlo Baravalle pubblicata in Luci ed Ombre, del 1927 (L’ultima carezza del sole), ancora una volta a suggerire non solo la condivisione di un gusto “crepuscolare” ma anche la caparbia capacità di assimilazione di Gabinio.

Le ninfee presenti nella citata immagine di Baravalle sono un altro dei temi con cui si confrontano numerosi fotografi in questi anni, attirati dalla mescolanza di richiami e suggestioni che questo contiene e, insieme,  dalle possibilità di ricerca formale che offre. Neppure Gabinio si sottrae a questa prova ma in Ninfee dopo la pioggia, 1933, (RA/1) riesce comunque a realizzare un’opera dotata di personalità propria, riconoscibile nel mantenimento di alcuni elementi caratteristici quali la perfetta leggibilità del dettaglio, la connotazione tridimensionale dello spazio pur in assenza della linea dell’orizzonte, ottenuta con la presenza di elementi minimi, che suggeriscono un punto di fuga (assente nelle opere di altri fotografi, forse sulla scia di Monet) e nell’ancorare la figura al luogo, che si ricava dalle scritte al verso, perché l’immagine sia -contemporaneamente- documento e forma.

 

[68] Savinio, 1935. L’articolo prende le mosse da una irridente condanna di Cézanne per estenderla a tutto l’ambito della ricerca fotografica contemporanea, a quel  “cézannismo fotografico [che] fu la vendetta burlona di Cézanne, il morto”, non senza aver prima esaltato il valore della scoperta della fotografia ed averne tracciato per sintetici tratti le influenze sulla produzione artistica tra Otto e Novecento, dalla letteratura alla musica. Sulla scia dell’antica condanna baudelairiana alla fotografia, “microscopio per tutti”, viene negato il “mistero dello sguardo”.

 

[69] Nel 1937 Gabinio partecipa al “XXXII Salon international d’art photographique” di Parigi con Moscato bianco e nero; “Salon international de 1937” di Metz, organizzato in occasione del trentaseiesimo convegno dell’Unione nazionale delle Società Fotografiche Francesi: Uva zibibbo e mele, n.269, Pesche reali, n.270; “V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti” di Torino: Uva nera e dorata, n.230, Mezzanotte alle Porte Palatine, n.231. Le fotografie Maioliche, Ferro zincato, Partita a carte e Persi moi [Pesche mature], inviate al Salon di Chicago, non vennero accettate.

 

 

 

Bibliografia citata

 

 

Alessio 1936

Ivan Alessio, Camicie nere della Ia Legione sulla Rocca Bernauda, “Rivista mensile del CAI”, 55 (1936), pp. 86-88

 

Alessio 1939

Ivan Alessio, Figure che scompaiono,  “Torino”, 19 (1939), n. 2, febbraio, pp. 34-37

 

Alfredo d’Andrade 1981

Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  1981

 

Andrea Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di Pierangelo Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura, 1990

 

Angeloni 1924

Italo  Mario Angeloni, La fotografia artistica alla Prima Esposizione Internazionale, in L’arte nella fotografia, 1924, pp. 39-50

 

Angeloni 1933

Italo  Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” Torinese, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Appendino, Ghigo, Lombardo 1973

Giorgio Appendino, Michele  Ghigo, Guido Lombardo, a cura di, Fotografia amatoriale italiana 1948-1973. 25 anni della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Napoli: Edizioni Nuova Fotografia, 1973

Gli architetti dell’Accademia Albertina, 1996

Gli architetti dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, aprile giugno 1996),  a cura di Giovanni  Maria Lupo.  Torino:  Allemandi,  1996

 

L’arte nella fotografia 1924

L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia, (Torino, maggio-giugno 1924). Milano-Roma:  Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Avigdor 1981

Giorgio Avigdor, Mario Gabinio fotografo.  Torino: Einaudi, 1981

 

Banchetto 1900 a

Banchetto di chiusura della mostra fotografica, “La Stampa”, 34 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banchetto 1900 b

Banchetto fotografico, “La Gazzetta del Popolo”, 53 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banti , Meriggi 1991

Alberto M.  Banti, Marco Meriggi, a cura di, Élites e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, “Quaderni storici”, 26 (1991),  fasc. 2, n. 77, agosto

 

Barraja 1899

Edoardo  Barraja, Alla scoperta del Piemonte, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 17 (1899), n. 1, 1 gennaio, pp. 4-5

 

Barraja 1902

Edoardo  Barraja, Gli amici dei monumenti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, 23 febbraio, p. 59.

 

Barraja 1912

Edoardo  Barraja, Riccardo Brayda e l’opera della sua vita.  Torino: Tip. Gran Didier, 1912

 

Bauhaus 1982

Bauhaus Fotografie. Düsseldorf: Marzana,  1982

 

Bauhaus 1993

La fotografia al Bauhaus, catalogo della mostra, (Venezia, Museo Fortuny, ottobre dicembre 1993), a cura di Paolo Costantini, Venezia:  Marsilio, 1993

 

Bellavista 1935

Mario Bellavista, All’Italia la più bella scuola di fotografia, “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 10, ottobre, pp. 189-192

 

Benjamin [1931] 1966

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78

 

Bertea 1914

Cesare Bertea, Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa di Sant’Antonio di Ranverso, in “Atti  della Società Piemontese di  Archeologia e Belle Arti”, vol. VIII. Torino:Paravia, 1914,  estratto

 

Boggeri 1929

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557-564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri,  Caratteri della nuova fotografia,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930) n. 8, agosto, pp. 546-549

 

Bologna 1932

Achille Bologna, Il corso di fotografia nella Scuola di Avviamento al Lavoro in Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 3, marzo, pp. 136-138

 

Bonardi 1898

Ercole Bonardi, Una società di escursionisti,  “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 231-232

 

Bordini 1984

Silvia Bordini, Storia del panorama. La visione totale nella pittura del XIX secolo. Roma:  Officina, 1984

 

Brand 1911 a

Brand, Inaugurazione della mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), nn. 6-7,  giugno-luglio, pp. 98-99

 

Brand 1911 b

Brand, La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911) n. 12,  dicembre, pp. 167-171

 

Brayda 1887 a

Riccardo Brayda, Ricordo di una passeggiata artistica a Sant’ Antonio dl Ranverso (Valle di Susa). Torino: Doyen, 1887

 

Brayda 1887 b

Riccardo Brayda, Stucchi ed affreschi nel reale Castello del Valentino.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1887

 

Brayda 1888

Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1888

 

Brayda 1898

Riccardo Brayda,  Torino scomparsa, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, p. 96

 

Brayda 1900

Riccardo Brayda,  Torino che scompare (da fotografie del signor Mario Gabinio),  “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 18 (1900), n. 11, 18 marzo, pp. 85-86

 

Brocherel 1898

Jules Brocherel, Alpinismo. Milano: Hoepli, 1898

 

Brogi 1898

Carlo Brogi, , La fotografia all’esposizione, “L’Esposizione Nazionale del 1898”, Torino, 1898, pp. 252-255

 

Carluccio 1974

Luigi  Carluccio, Entrare e vivere nella Torino di ieri e di oggi, “Piemonte vivo”, 8 (1974), n. 2, aprile, pp. 4-9

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’ Andrade. Tutela e restauro, 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 1986

Pierangelo Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di S. Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo,  “L’Impegno”, 11 (1991), n. 3 dicembre, pp. 41-48

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Problemi di documentazione fotografica del territorio Piemontese nell’Ottocento, in Le “Ali” del mercato in provincia di Cuneo. Bra – Torino: Comune di Bra – Ministero per i Beni Culturali – Politecnico di Torino -L’Arciere, 1992, pp. 100-111

 

Chan-Magomedov 1986

Selim Omarovič Chan-Magomedov,  Rodcenko. The complete work.  London:  Thames and Hudson, 1986

 

Comoli  Mandracci 1983

Vera  Comoli  Mandracci, Torino.  Bari:  Laterza, 1983

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917.  Torino:  Bollati Boringhieri,  1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902 1994, pp. 94-179

 

De Marchi 1914

Guido de Marchi, Esposizione fotografica sociale, “L’Escursionista”, 16 (1914), n. 11, 25 maggio, pp. 4-7

 

X anniversario  1902

A proposito del X anniversario dell’Unione Escursionisti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, febbraio, pp. 60-61

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del Medioevo fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra medioevo e rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale.  Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Dragone 1976

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 97-151

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra, (Torino, marzo-giugno).  Torino:  Città di Torino, Assessorato per la Cultura-Musei Civici, 1978

 

Eco 1990

Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani, 1990

 

Esposizione 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, catalogo della mostra, (Torino, giugno-luglio 1907), Torino: s.n., 1907

 

Ettore de Fornaris 1932

Incisori contemporanei. Ettore de Fornaris;  presentazione di T. Grandi. Torino:  Buratti, 1932

 

Fadilla 1900

Ugolino Fadilla, L’Esposizione Fotografica di Torino,  “Gazzetta di Torino”, 41 (1900), n. 64, 5 marzo

 

Ferrari 1900

Giulio Ferrari, Esposizione Fotografica. La fotografia artistica,  “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3

 

Fillia 1932

Fillia [Luigi Colombo], Il futurismo. Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Italiano.  Milano: Sonzogno, 1932

 

Fiori 1900

Silvestro Fiori, L’Esposizione di fotografia,  “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio, p. 4

 

Fiori 1902

Silvestro Fiori, Gli amici dei monumenti,  “L’Escursionista”, 4 (1902), n. 6, 23 maggio, pp. 3-5

 

Fossati 1975

Paolo Fossati, Fotografia e città: la Torino di Mario Gabinio,  “Il Corriere della Sera”, 100  (1975), n. 68, p. 15

 

Fotografia 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabetti, Olmo 1976

Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Cultura edilizia e professione dell’architetto: Torino anni ’20-’30, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 11-33

 

Garimoldi 1995

Giuseppe  Garimoldi, Fotografia e Alpinismo:  Storie parallele.  Ivrea: Priuli e Verlucca, 1995

 

Gilibert Volterrani 1977

Anna Gilibert Volterrani , Alfredo Gilibert, Valsusa com’era.  Susa: Editrice Delphinus, 1977

 

Gilodi 1978

Renzo  Gilodi, La Società Ginnastica di Torino. Sport e cultura nel tempo.  Torino:  SGT, s.d. [1978]

 

Giuntini 1995

Sergio Giuntini, L’educazione fisica femminile a Torino a fine Ottocento,  “Studi Piemontesi”, 24 (1995), n. 2, novembre,  pp. 419-427

 

Giusta 1901

Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche,  “L’Escursionista”,  11 (1901) , n. 3, 6 maggio, pp. 6-7

 

Griseri 1974

Andreina  Griseri, Obbiettivo sulla città,  “L’informazione industriale”, 30 (  1974), nn. 7-8, 30 aprile, pp. 34-35

 

Griseri, Gabetti 1973

Andreina  Griseri, Roberto Gabetti,  Architettura dell’eclettismo : un saggio su G. B. Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

In memoriam 1938

In memoriam Mario Gabinio,  “Rivista mensile del CAI”, 58 (1938), p. 463

 

L’incisione del Novecento 1985

L’incisione del Novecento in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, marzo – aprile 1985), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1985

 

L’ invention d’un regard 1989

L’invention d’un regard (1839-1818), catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 4 ottobre – 31 dicembre 1989),  a cura di Françoise Heilbrun, Bernard Marbot e Philippe Néagu. Paris:  Réunion des Musées Nationaux,  1989

 

Karginov 1977

German Karginov, Aleksandr Rodcenko.  Roma:  Editori Riuniti, 1977

 

Laezza 1927

Alfredo Laezza, a cura di, La Società Fotografica Subalpina nel 1927. Torino: Tip. Bona, 1927

 

Lamberti 1996

Maria Mimita Lamberti, Gli anni torinesi di Felice Carena, in Felice Carena, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte moderna e contemporanea, 30 gennaio-7 aprile 1996),  a cura di Fabio Benzi.  Milano:  Fabbri,1996,  pp. 9-22

 

Levi 1991

Marcello Levi, Mario Gabinio: immagini del primo Novecento, in XV Mostra Nazionale di Antiquariato di Saluzzo, catalogo della mostra (Saluzzo, maggio 1991).  Savigliano:  L’Artistica, 1991

 

Luci ed ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Maggio Serra 1986

Rosanna Maggio Serra, a cura di, Arte moderna a Torino.  Torino:  Allemandi, 1986

 

Marcello Boglione 1994

Marcello Boglione (1891-1957). Un maestro dell’incisione all’Accademia Albertina, catalogo della mostra  (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-aprile 1994), a cura di Angelo Dragone, Franca Dalmasso,  Vincenzo Gatti.  Torino:  Regione Piemonte – Franco Masoero,  1994

 

Mario Gabinio 1982

Mario Gabinio. Trenta fotografie di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna,  marzo-maggio 1982), a cura di Aldo Audisio.  Torino: Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi -Club Alpino Italiano, sezione di Torino, 1982

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), nn. 6, 7,  pp. 124-139, 277-291

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In memoria dell’avv. Francesco Negri : commemorazione letta nell’adunanza del 1 marzo 1925 alla Società piemontese di Archeologia e Belle Arti.  Torino: Anfossi, 1925

 

Melis 1936

Architetture di Armando Melis. Milano: Tip. Allegretti, 1936

 

Mennyey 1975

Francesco Mennyey. Monumentalità dell’incisione, in Francesco Mennyey:  acqueforti, catalogo della mostra, a cura di P. D. Ferrero.  Torino: Le Immagini – Studio d’arte contemporanea, 1975

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri, 1933-1981 : archetipi della seduzione grafica.  Milano:  Electa, 1981

 

Le montagne della fotografia 1992

Le montagne della fotografia, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 18 settembre – 22 novembre 1992) a cura di Silvana Rivoir. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano sezione di Torino, 1992

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995

 

La Mostra retrospettiva 1926

La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese,  “Il Momento”, 24 (1926), n. 128, 2 giugno, p. 5

 

Mostra Sperimentale 1931

Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra, (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino:  Tip. Fedetto,  1931

 

Nelva , Signorelli 1979

Riccardo Nelva , Bruno Signorelli, Le opere di Pietro Fenoglio nel clima dell’Art Nouveau internazionale.  Bari:  Dedalo,  1979

 

Ottaviano 1986

Chiara Ottaviano, Classe agiata e organizzazione del tempo libero, in Valerio Castronovo, a cura di, La cassetta degli strumenti. Ideologia e modelli sociali nell’industrialismo italiano.  Milano: Franco Angeli, 1986, pp. 169-196

 

Passoni, Nori 1974

Aldo  Passoni, Enrico Nori, Torino anni ‘20:  104 fotografie di Mario Gabinio.  Torino:  Editoriale Valentino, 1974

 

Pavia 1926

Ugo Pavia, Il “Salon” fotografico di Torino: gli espositori stranieri , “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

 

Pedrini 1955

Augusto Pedrini, Portoni e porte maestre dei secoli XVI e XVI in Piemonte. Torino: Pozzo-Salvati, Gros Monti & C., 1955

 

Peliti  1993

Federico Peliti (1844-1914). Un fotografo piemontese in India al tempo della Regina Vittoria, catalogo della mostra (Roma, maggio-luglio 1993; Torino, marzo-maggio 1994), a cura di Marina Miraglia.  Roma: Peliti Associati, 1993

 

Peretti Griva 1933

Domenico  Riccardo Peretti Griva, In difesa dei procedimenti interpretativi,  “Galleria”, 1 ( 1933), n. 8, agosto, pp. 4-6

 

Piasco 1896

Teresio Piasco, Otto giorni sulle Alpi Marittime, 5-12 luglio ‘96; riproduzione anastatica. Cuneo:  Vecchi libri, s.d.

 

Politecnico di Torino 1995

Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali, a cura di, Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici.  Torino:  Celid, 1995

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283

 

Praj 1950

Praj, a cura di, Luci e ombre. Fotografie pubblicate dalla cessata rivista torinese “Il Corriere Fotografico“.  Torino, in proprio,  1950

 

Prima esposizione 1935

Prima esposizione fotografica sociale ALA, brochure della mostra (Torino, marzo 1935). Torino: Tip. A. Kluc, 1935

 

Primo salon 1925

Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale : Torino 1925-26,  brochure della mostra (Torino, Galleria centrale d’arte,  19 dicembre 1925 – 10 gennaio 1926).  Torino: Tip. Celanza, 1925

 

Prolo 1976

Maria Adriana Prolo, Il cinema – la fotografia, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 211-217

 

Raoul Hausmann, 1994

Raoul Hausmann, catalogo della mostra, (Valencia, Institut Valencià d’Art Modern, febbraio – aprile 1994). Valencia: IVAM-Generalitat Valenciana, 1994

 

Reynaudi 1896

Carlo  Reynaudi, Ceresole Reale e la valle dell’Orco.  Torino: Roux e Frassati, 1896

 

Rigotti 1980

Giorgio Rigotti, 80 anni di architettura e di arte : Annibale Rigotti architetto, 1870-1968 : Maria Rigotti Calvi pittrice, 1874-1938.  Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1980

 

Sansoni 1932

Gino Sansoni, La Ia Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, “Aosta”, 4 (1932), nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “La Stampa”, 69 (1935), 6 luglio, p. 3, ora in Id., Torre di guardia ,  a cura di Leonardo Sciascia.  Palermo: Sellerio, 1977, pp. 131-142

 

Schiaparelli 1924

Cesare  Schiaparelli, La scuola piemontese di fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 4, aprile, pp. 52-53

 

Schiaparelli 1930

Cesare  Schiaparelli, Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Secondo Pia 1989

Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del Cinema, ottobre-novembre 1989), a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò.  Torino:  Allemandi, 1989

 

6 incisori 1939

6 incisori a “La Stampa”, brochure della mostra (Torino, Salone de La Stampa, aprile 1939), a cura di Marziano Bernardi. Torino: La Stampa, 1939

 

Serra 1898

Gian Giacomo Serra, Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo in Torino.  Torino: Tip. Cassone, 1898

 

VI Mostra Biennale 1939

VI Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica (Torino, Circolo degli artisti,  maggio-giugno 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

VII Esposizione Annuale 1941

VII Esposizione Annuale Sociale di Fotografia Artistica AFI, (Torino, maggio 1941).  Torino:  Satet, 1941

 

Società  Fotografica Subalpina 1949

Società  Fotografica Subalpina, Catalogo della mostra del cinquantenario,  “Vita Fotografica”, 5 (1949), n. 9, aprile

 

Storiografia 1990

Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo,  atti delle Giornate di studio (Torino, Fondazione Luigi Einaudi , 6 e 7 maggio 1988),  a cura di Maria Teresa Maiullari. Torino : Fondazione Luigi Einaudi, 1990

 

Thovez 1898

Enrico Thovez, Fotografia pittorica, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 219-222

 

Torino 1902 1994

Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino settembre 1994 gennaio 1995),  a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano:  Fabbri, 1994

 

Torino 1920-1936 1976

Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976

 

Torino che scompare 1929

Torino che scompare: l’Arsenale,  “Torino”, 9 (1929), n. 2, febbraio, pp. 91-93

 

Viale 1932

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte, in I  congresso Piemontese di Archeologia e Belle Arti, atti del convegno, (Cavallermaggiore, agosto 1932).  Torino:  Anfossi, 1932, pp. 158-161

 

Viglino Davico 1984

Micaela Viglino Davico, Benedetto Riccardo Brayda: una riproposta ottocentesca del medioevo.  Torino:  Centro Studi Piemontesi, 1984

 

Volli 1994

Ugo Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli.  Milano: Il Saggiatore, 1994

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36

 

Zannier 1991

Italo  Zannier, Cento anni di fotografia Touring, in Fotografi del Touring Club Italiano, a cura di Elisabetta Porro.  Milano:  TCI,  1991, pp. 6-27

 

Zannier 1993

Italo  Zannier, Leggere la fotografia. Le riviste specializzate in Italia (1863-1990).  Roma:  Nuova Italia Scientifica, 1993