Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Da strumento a patrimonio: documenti e opere  (2007)

intervento al convegno Fototeche a regola d’Arte, Siena, Santa Maria della Scala, 30 novembre – 1 dicembre 2007, promosso dal CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro di Siena

 

 

Ciò che mi propongo con questo intervento è di ripercorrere le vicende che hanno portato alla costituzione delle diverse raccolte che formano il patrimonio fotografico della Fondazione Torino Musei direttamente gestito dalla loro Fototeca[1], con la duplice intenzione di indagarne la natura (e di farne emergere quindi un’eventuale definizione, non solo tipologica[2]) a partire dalla considerazione dei diversi modi e delle differenti ragioni e occasioni che ne hanno determinato la crescita, tracciando un percorso che si sviluppa parallelo a quello della considerazione stessa della fotografia e – qui – delle fotografie. Poiché l’archivio non nasce in quanto tale, né risulta immediatamente chiara, nella storia museale, non tanto cosa debba intendersi per fototeca quanto la necessità della sua stessa esistenza. Più in generale credo che non sia difficile verificare come nel corso del Novecento si sia assistito ad uno slittamento e poi ad uno scambio semantico tra i due termini: convenzionalmente il termine  ‘fototeca’ veniva e in parte ancora viene riferito all’insieme delle immagini raccolte e criticamente ordinate da uno studioso, mentre col termine archivio si indicavano le strutture istituzionali di accesso (per quanto ridotto) e quindi lo strumento di condivisione di insiemi più o meno organizzati di fonti fotografiche. Oggi il primo termine ha goduto di una estensione semantica che rimanda all’assunzione delle funzioni già proprie del secondo sulla base, direi, di un corrispondente incremento quantitativo del suo ambito d’uso, che ha assunto come parametro l’insieme degli utilizzatori: passato dall’unità ad un numero tendenzialmente infinito. Da testimonianza degli interessi, del metodo e dell’opera di un singolo studioso alle necessità eterodirette di un’utenza. Il termine archivio mi pare oggi circoscritto a definire l’insieme del patrimonio fotografico documentario – e non è precisazione senza conseguenze – pertinente a una istituzione[3] ed eventualmente costituito da fondi ma anche (con variazioni e delimitazioni a volte incerte) da collezioni e semplici raccolte[4]. Ulteriore testimonianza infine del passaggio – credo irreversibile, specialmente dopo che se ne è consumata la fine – della fotografia da puro strumento conoscitivo e ausilio mnemonico a prodotto culturale e materiale (di cultura anche materiale, cioè) cui si riconosce una valenza, e quindi un valore di bene cui corrisponde finalmente una diversa modalità di lettura, e di accesso, ormai estesa al riconoscimento delle caratteristiche complessive del lavoro fotografico e degli oggetti che questo ha prodotto: delle fotografie.

Per questo credo possa essere di un qualche interesse provarsi a mostrare i nessi tra cronologia e definizione tipologica delle diverse raccolte che progressivamente hanno costituito il patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi, provando a identificare e poi a riflettere sulle conseguenze che il diverso statuto riconosciuto alle fotografie, ma meglio sarebbe dire alla Fotografia, e quindi ai fototipi: dalla categoria all’oggetto, ha determinato nel tempo in relazione alle mutevoli concezioni culturali espresse dall’istituzione museale. 

In questa prospettiva credo sia ormai tempo di riconsiderare le pur notevoli riflessioni di Rosalind Krauss, che aveva auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per] cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[5] Vorrei dire allora che, per quanto concettualmente problematici in ambito fotografico[6], la figura, il ruolo, la funzione, la consapevolezza, insomma il progetto autoriale – per quanto minimo e tecnologicamente condizionato – non possono essere dimenticati o peggio abbandonati: pena l’impossibilità di comprendere storicamente e culturalmente il senso dei materiali prodotti e delle loro sedimentazioni. Con l’avvento della tecnologia digitale improvvisamente tutta la fotografia è diventata ‘antica’, quindi tendenzialmente passibile di essere riconosciuta nel suo “statuto di archivio”. Il problema non è però semplicemente questo: non si tratta tanto di sottoporre a critica le categorie indicate dalla Krauss, quanto di stigmatizzarne l’uso poco consapevole (e sovente improprio) che ne è stato fatto. Penso infatti sia inutile e dannoso – oltre che antistorico – provarsi ad escluderle, ma che sia indispensabile liberarle da ogni implicazione meccanicamente e acriticamente derivata dall’orizzonte teorico e metodologico, dalla tradizione estetica, e mercantile, della storia e della critica d’arte, che va intesa solo come uno dei possibili orizzonti interpretativi. L’immagine fotografica deve essere letta e intesa in una prospettiva più complessa e pertinente, che provo a dire culturale; in questo senso è necessario assegnare a ciascuna fotografia un doppio valore documentario: prodotto di una cultura (sociale e individuale, tecnologica e autoriale) che è precisamente espressa da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto come nella sua strutturazione discorsiva, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della condizione storica del referente, rispetto alla quale il valore è fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Ciò implica il riconoscimento teorico e fattuale dell’opera fotografica non solo come bene culturale, quale forma particolare di documento/ monumento aperto e disponibile a letture diverse, ma anche quale prodotto e agente di una storia più intrecciata e complessa, a sua volta esito attuale di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e comunicazione tecnologica dell’informazione.

La fototeca e l’archivio, nella loro possibile configurazione e condizione materiale e – ancor più – nell’infinità virtuale delle reti, sono oggi soprattutto strumenti di accesso, di acquisizione e quindi, necessariamente di appropriazione delle immagini che vi si trovano. Non è mia intenzione affrontare, neppure sommariamente, le implicazioni di questi scenari, semmai richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ne possono derivare in termini di produzione (o negazione) culturale. Vorrei ricordare come proprio l’estensione incommensurabile delle possibilità di accesso, acquisizione e manipolazione richiedano una ancora più forte e precisa definizione e rivendicazione dell’identità di ciascuna delle fotografie che formano ogni archivio o fototeca che si voglia “a regola d’arte”[7].

Non è infatti difficile pensare al patrimonio iconografico che le costituisce come a un’infinita fonte di possibilità discorsive, dove le immagini possono diventare altro da sé, disponibili per la strutturazione di nuovi discorsi, di altre narrazioni. È quanto esattamente è avvenuto e avviene nella pratica critica di ogni storico dell’arte come in quella artistica, a partire almeno dalle avanguardie storiche. È quanto avviene ogni giorno nelle diverse occasioni della comunicazione e dell’uso. Tutte metodiche e pratiche irrinunciabili, che dimostrano però la necessità di ancorare le immagini alla loro identità originaria come al riconoscimento della loro fortuna critica, per quanto ridotta. Una costruzione che è fatta di occasioni e di autori, di scelte tecnologiche più o meno consapevoli, di ragioni e di progetti; di soglie anche minime di considerazione, di decisioni e di caso (e di casi, ovvio) che han fatto sì che dopo essere state prodotte non fossero distrutte o disperse. Senza la consapevolezza e la descrizione (che chiamiamo catalogazione) di quella rete causale che costituisce la loro storia di produzione (e di conservazione) esse perdono la possibilità di essere comprese, di essere coinvolte in un discorso nuovo che non le condanni all’oblio dei materiali inerti.

Provare a seguire, a inseguire anche[8], le mutazioni incorse nella concezione della fotografia espressa da un’istituzione museale consente allora di comprendere come il suo limitarsi a intenderla “nel suo statuto di archivio” non solo non ne esaurisca il senso ma anche abbia comportato, e a volte comporti ancora rischi non solo per la sua comprensione critica, ma per la sua stessa tutela materiale e giuridica.

 

La fotografia al Museo

Il Museo civico di Torino, inaugurato il 4 giugno 1863,   “nei primi tempi non ebbe carattere ben definito: alle collezioni di oggetti antichi romani e medioevali [rinvenuti nel corso delle demolizioni della Cittadella e in occasione degli scavi per la nuova ferrovia a Porta Susa, 1859 – 1861], ai quadri antichi e alle memorie patrie si erano aggiunte due raccolte: la preistorica e l’etnologica, in parte avuta in dono e in parte acquistata.”[9] I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione, sotto forme differenti e in occasioni diverse per la maggior parte oggi non identificabili, ma delle quali può essere utile tentare una prima classificazione: opere sistematiche, quali i bellissimi fascicoli dedicati alle incisioni di Marco Antonio Raimondi da Benjamin Delessert nel 1853-1855, accompagnati da una lucidissima introduzione metodologica[10], o gli album illustrativi e celebrativi, come Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure pubblicava nel 1867 con un ricco corredo di testi di autori diversi, una vera e propria guida illustrata alla città, forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dei testi. Alla stessa tipologia appartengono le prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese negli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino a partire dal 1863[11], considerate una “bella novità” nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  come quelle che costituiscono l’album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, realizzato da Cesare Bernieri nel 1866, con presentazione di Federico Sclopis[12]. Sono esempi precoci di riproducibilità tecnica delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimoniano gli interventi nelle pagine degli stessi Album di Federico Pastoris (1862) e ancor prima (1860) di Carlo Felice Biscarra, il quale avrebbe ripreso il tema ancora dieci anni dopo in un articolo dedicato alla tecnica di stampa fotoglittica, meglio nota come woodburytipia, “adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire”[13], la cui licenza italiana era stata recentemente acquistata da Le Lieure “con ingente somma”.

Ben più numerose, come è lecito attendersi, erano le riproduzioni realizzate e pervenute in forma occasionale ed episodica, legate a richieste di perizia e proposte di acquisto[14] di dipinti o di oggetti diversi così come a scambi di cortesie tra artisti e responsabili museali.[15].

A Torino, in ambito artistico (ed è nuovamente una distinzione significativa e necessaria[16]) ancora alle soglie del XX secolo siamo in presenza non tanto di vere e proprie raccolte quanto di forme di accumulo non programmato, in cui – secondo la consueta considerazione della fotografia propria della cultura ottocentesca europea (la “umile ancella” di Baudelaire[17]) – non solo prevaleva la funzione strettamente referenziale, ma mancava ogni idea benché positiva di uso sistematico di questo potente strumento documentario, mancava ancora – non solo da noi, in quegli anni – ogni idea di catalogo, e ancor più di archivio.

Ciò valeva ancora per Vittorio Avondo (1836 – 1910) pittore e collezionista, direttore dal 1890 al 1910 del Museo Civico torinese, una delle figure centrali della cultura torinese a cavallo tra XIX e XX che pure usò della fotografia per molte e diverse ragioni[18]. Sono riferibili agli anni della sua formazione le trentasette immagini di soggetto romano, tra cui un nucleo significativo di stampe delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855, mentre dipendono dai diversi ruoli istituzionali da lui successivamente ricoperti la presenza della serie di vedute di architetture piemontesi e valdostane realizzate nel 1882 da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per la Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino[19]  o quella – con figuranti in costume – realizzata ancora da Ecclesia nel 1884 al Borgo Medievale di Torino costruito per l’Esposizione generale italiana del 1884 sotto la direzione di Alfredo d’Andrade; un’opera in cui più chiara risulta a diversi livelli l’influenza della cultura della fotografia (l’idea di catalogo, l’idea di vero/simile).[20]

Alla direzione museale di Avondo va poi riferito il progetto “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo”[21], edita nel 1905 sotto il titolo di Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica[22]. Il volume ebbe ampia distribuzione e notevole successo, richiesto da studiosi e istituzioni diverse: da Robert Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole d’Arte applicata di Venezia a R. Agostoni fabbricante torinese di mobili, adempiendo così a quella funzione di istruttiva raccolta per “ricchi e poveri” cui mirava anche il coevo progetto di Pubblica Raccolta Fotografica che portò alla costituzione del “ricetto” di Brera[23].  Sebbene fosse una campagna documentaria dedicata al patrimonio museale nessuna traccia documentale porta a credere che questa implicasse la costituzione di un archivio o di un qualsivoglia strumento di studio. Di un progetto di comunicazione a fini celebrativi semmai, come negli stessi anni accadeva (sempre per restare a Torino) con le collezioni dell’Armeria Reale, ma anche – senza contraddizione – con intenti didascalici e divulgativi, rivolgendosi paternalisticamente agli artigiani, i destinatari ideologicamente ideali di ogni arte applicata, meglio sarebbe dire applicabile a un’attività che solo nominalmente si poteva definire industria.

Una prima consapevole attenzione per la raccolta sistematica di documentazione fotografica nell’ambito dei Musei civici torinesi si ebbe con Giovanni Vacchetta, nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo. Da tempo[24] sensibile al dibattito internazionale e locale sulla costituzione di raccolte fotografiche documentarie, tra i suoi atti iniziali vi fu l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico mediante l’acquisizione delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in vista della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità [25], e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912.  Secondo la ricostruzione fatta da Vittorio Viale, in questo periodo il Museo disponeva quindi di un corpus di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”[26]. Notazione forse velatamente polemica nei confronti del ben più ricco e chiuso archivio fotografico delle Soprintendenze, ma per noi particolarmente interessante per quanto rivela dell’idea di archivio propria della Direzione museale: non gli album e le stampe ottocentesche, e neppure la documentazione sistematica (seppur parziale) del patrimonio museale, ma quella del patrimonio artistico regionale, mentre Lorenzo Rovere – successore di Vacchetta alla Direzione del Museo – andava costituendo per personali ragioni di studio una fototeca vera e propria, dove le circa seimila immagini (fototipi e cartoline, anche non fotografiche) erano da lui raccolte e organizzate in stretta relazione con le schede di storia dell’arte e con il ricco fondo librario[27].

Vittorio Viale, che gli successe nel 1930,  procedette lungo la direttrice tracciata da Vacchetta e l’anno successivo formalizzò l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino con una prima dotazione annua di L.8.000 mediante la quale diede  avvio ad una campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese”[28]  che ampliava la documentazione prodotta da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927, ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere. Nello stesso tempo non rinunciava però alla possibilità di costituire un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (formulata nel 1932 al Congresso della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di Cavallermaggiore), allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, ritenuto a rischio di dispersione: per questo invitava a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” [29]

Le sollecitazioni del Direttore non rimasero senza risposta: negli anni immediatamente successivi confluirono infatti nell’Archivio Fotografico dei Musei civici torinesi le fotografie raccolte dalla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti (oggi non chiaramente identificabili), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone del 1931 e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il suo Theatrum Novum Pedemontii, (Düsseldorf: L. Scwann, 1931). A queste si aggiunsero successivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939, Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939 o ancora l’imponente Mostra del Barocco piemontese, del 1963 per la cui preparazione vennero realizzate quasi settemila riprese.

Per quanto significative nei loro esiti le committenze istituzionali hanno costituito però solo una parte del meccanismo di accrescimento e diversificazione del patrimonio fotografico museale, che si è progressivamente arricchito per rilevanti acquisizioni di Fondi, senza determinare però alcuna significativa mutazione nella considerazione della fotografia. Solo con benevola attenzione  possiamo riconoscere  alcuni slittamenti di senso del suo valore documentario: passato inavvertitamente da referenziale a storico. Ciò è stato specialmente vero per le circa cinquemila stampe fotografiche comprese nel Fondo d’Andrade[30], donato dal figlio Ruy nel 1931. Il recupero e la salvaguardia di questo fondamentale patrimonio da un lato ribadivano l’originario utilizzo referenziale della fotografia mentre la assumevano – forse per la prima volta in questo contesto e per quanto implicitamente – tra le fonti documentarie storiche. Anche la tormentata acquisizione del Fondo Gabinio[31], parzialmente acquisito nel 1940[32], rispondeva ad analoghe esigenze ed è proprio al permanere del puro interesse referenziale che dobbiamo la perdita di una rilevantissima parte della produzione di quello che è stato uno dei più significativi autori dei primi decenni del Novecento. Delle 4424 lastre che costituivano la consistenza originaria dell’offerta, allo stato attuale ne risultano presenti solo 1078 essendo le altre – relative a soggetti già documentati – state scartate dallo stesso Direttore. Viale si dimostrava così,  nonostante la rilevanza della cultura fotografia nel contesto torinese di primo Novecento, ancora insensibile ai suoi autonomi valori espressivi, incapace di accogliere l’idea del fotografo come autore, della fotografia come opera (non necessariamente d’arte)[33], del valore intrinseco del fondo come corpus.

Per registrare un diverso atteggiamento, una differente sensibilità occorre procedere ben oltre negli anni e giungere almeno alla fine del secolo quando, nel 1997, venne perfezionata l’acquisizione dell’importante fondo di Stefano Bricarelli[34], autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, per  donazione della figlia Carla. In questa occasione finalmente ciò a cui si è mirato sono stati proprio il riconoscimento e la salvaguardia dell’intero archivio. La volontà di acquisizione si è fondata sul riconoscimento del valore autoriale, considerando solo in seconda istanza quello della testimonianza documentaria che pure  è inevitabilmente presente e non può, né deve essere disconosciuto.

 

And in the end…

Le Fototeche d’Arte saranno (mai state?) “a regola d’arte”: e cosa mai si potrà intendere con ciò? Che è l’arte a dettarne le regole, ovvero il suo studio? E se il Museo è il tempio dell’Arte com’è che questo – almeno qui, da noi, in una storia non brevissima –  per lungo tempo non ha avuto una Fototeca, ma forse un Archivio e certamente delle raccolte, anche dei Fondi, ma non delle collezioni? E poi, ancora: forse che la Fototeca d’Arte corrisponde a un’idea di fotografia che non corrisponde più allo stato dell’arte?

Insomma: le vicende sottese alla definizione storica di un termine (non di una struttura: concettuale e materiale) apparentemente semplice e piano come ‘fototeca’ mostrano  ancora una volta come solo il lavoro critico possa sperare di recuperare il senso delle diverse accezioni storicamente determinate, forse anche per farlo fruttare nell’oggi. Basta però un solo passo falso per ritornare alla partenza: come nel gioco dell’oca.

 

Note

 

[1] La Fondazione costituisce dal 2002 l’ente autonomo di gestione dei Musei civici torinesi: Borgo e Rocca Medioevale; GAM – Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea; MAO – Museo di Arti Orientali; Palazzo Madama – Museo civico d’Arte antica,  Biblioteca d’Arte e Fototeca. Le diverse Raccolte e Fondi sono prevalentemente conservati presso l’Archivio fotografico, che ha nella Fototeca la sua struttura di gestione e di accesso e – ad oggi – una consistenza complessiva di circa 310.000 fototipi, cui si sono aggiunte nel corso del 2007 le circa 120.000 fotografie già facenti parte del patrimonio della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino. Numerose immagini sono presenti anche nella Biblioteca d’Arte e, a partire dall’ultimo decennio, nelle Collezioni della GAM, qui specialmente nella forma propriamente contemporanea di opera, frutto di una politica di acquisizioni espressa non solo in relazione a singoli eventi espositivi, che ha portato all’arricchimento del patrimonio museale con opere di Gabriele Basilico, Mario Cresci, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Nino Migliori, Ugo Mulas, Paolo Mussat Sartor, per non citarne che alcuni. 

[2] Nel corso di un recente convegno dedicato agli Archivi fotografici on-line, Tiziana Serena si è provata – tra le altre cose – a misurare la varietà terminologica con cui si indicano questi “multiformi ed eterogenei insiemi di sedimentazione di immagini fotografiche (‘raccolte fotografiche’, ‘fototeche’, ‘iconoteche’, ‘collezioni’, fino a sfondare i confini disciplinari per riferirsi a ‘fondi’ e ‘archivi’)” (p.3 ) per arrendersi infine, almeno in occasione del suo intervento in queste giornate senesi (“chiamatele come volete”). Questo provocante cedimento mi pare un ulteriore indizio della distanza che ancora ci separa da una possibile definizione condivisa, ma è un invito che non vorrei accogliere, e – in termini generali – non avrei paura a provare a definire cosa sia un Fondo fotografico (in attesa della scheda ICCD, certo) cosa un archivio o una fototeca. Certo non mi pare si sfondi alcun confine disciplinare parlando di fondi e archivi anche a proposito di fotografie, nel momento in cui queste vengono a costituire insiemi storicamente e culturalmente determinati e identificabili, mentre altra questione potrebbe porsi (forse) in merito alla definizione di fototeca, sebbene anche qui la risposta (non temendo di misurarsi con la banalità) sembra essere piuttosto semplice, soprattutto se pensata in analogia con altre strutture organizzate di accesso al contenuto informativo di specifiche tipologie di oggetti, sulla scia del modello antico delle biblioteche. Ciò di cui invece sono convinto è che sia poco utile guardare ai sistemi utilizzati dai produttori, dai fotografi per tentare di individuare modelli o risposte: le tassonomie e i criteri organizzativi messi a punto da questi autori si muovono su di un terreno e in un quadro diverso; bastano e devono bastare a loro stessi proprio in quanto attori privilegiati della relazione coi materiali da loro stessi prodotti. La loro organizzazione non è intesa quale percorso di conoscenza, quale momento di una ricerca (se non, a volte, di senso) ma più comunemente quale necessità di reperimento. Cfr. Tiziana Serena, Il posto della fotografia (e dei calzini) nel villaggio della memoria iconica totale. Uno sguardo sulle  raccolte fotografiche oggi, in Archivi fotografici on-line, Cinisello Balsamo, Museo di Fotografia Contemporanea, giugno 2007, a cura di Gabriella Guerci, Atti disponibili on-line all’indirizzo https://www.mufoco.org/x-portfolio/atti-del-seminario-archivi-fotografici-italiani-online-maggio-2006/ (10 12 2022).

[3] Quasi superfluo ricordare che si parla di ‘archivio’ anche in relazione al patrimonio fotografico di enti diversi dai musei (industrie, università, strutture ospedaliere, organi di polizia e istituzioni militari e simili, editori e giornali ecc.) così come all’intera produzione di singoli fotografi o agenzie. Pur senza estendere ulteriormente la riflessione alle implicazioni pertinenti a questi differenti contesti, credo sia utile ricordare come ciascuno di questi archivi si trasformi in fondo nel momento in cui venga versato in una struttura conservativa di ordine superiore.

[4] Pur non potendo entrare nel merito vorrei ricordare come non di rado il lavoro critico condotto su di un corpus di opere determini un mutamento anche sostanziale del riconoscimento autoriale, con conseguenze giuridiche ma anche conservative, mercantili  e patrimoniali.

[5] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondadori, 1996, p.48. Una profonda riconsiderazione critica di alcuni concetti fondamentali della cultura fotografica è stata operata anche da André Rouillé, La photographie entre document et art contemporain. Paris: Gallimard, 2005, che ha espresso forti riserve sul valore degli apporti strutturalisti e semiotici nella definizione della fotografia.  Se la storia dell’arte e quella della fotografia si devono trasformare in una più generale e problematica storia delle immagini che aspira ad essere una storia, necessariamente culturale, delle rappresentazioni, allora tutti i nostri strumenti analitici e critici andranno ripensati allontanandosi – come già aveva sostenuto Ian Jeffrey anni fa (Introduction, in Id., Photography. A Concise History. London: Thames and Hudson, 1981, pp. 7-9) – dai modelli interpretativi mutuati più o meno consapevolmente dalla storiografia artistica. In questo senso credo vada accolto l’invito, forse la sfida di André Gunthert a verificare la possibilità di pensare una “storia del fotografico”, inserita nel più ampio orizzonte di studi di cui si è detto; si vedano i diversi interventi contenuti in Joan Fontcuberta, ed., Photography. Crisis of History. Barcelona: ACTAR, 2001.

[6] Nella contemporaneità lunga che si avvia con le prime avanguardie storiche la figura e il ruolo dell’autore in relazione allo statuto dell’opera sono stati certamente condizionati da ciò che negli anni recenti è stato definito come il “fotografico” cioè “una logica di funzionamento dell’immagine e una sua relazione con la realtà, con l’autore e con i fruitori tipica della fotografia, ma comune anche a molte altre espressioni dell’arte contemporanea (…) un vasto e unitario (per quanto sfaccettato) ambito d’esperienza (…) in cui i confini tradizionali tra fotografia e arte sembrano venir meno, o piuttosto costituire essi stessi un nuovo campo di attività e di teoria.”, Roberto Signorini, Arte del fotografico: i confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni. Pistoia, Editrice C.R.T.: 2001, p. 7. Per quanto riguarda l’altro ambito problematico di definizione della figura dell’autore, quello catalografico, mi permetto di rimandare al mio Oggetti, autori, cataloghi, in Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, Atti del convegno (Prato, 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato, Archivio Fotografico Toscano: 2001, pp.37-42 in cui riflettevo criticamente sulle conseguenze dell’eccesso di autorialità che caratterizzava l’approccio concettuale su cui si fonda il tracciato della Scheda F/ ICCD del 1999, anche qui riducendo la feconda ambiguità della fotografia.

[7] In termini più generali “il significato di ogni fotografia è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa. Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto socio politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria; impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.” Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History. Cambridge – Massachussets: The MIT Press, 2001, pp. VIII-IX (traduzione di chi scrive).

[8] Le ricerche condotte sulla formazione delle raccolte fotografiche che costituiscono il patrimonio della Fondazione Torino Musei – ma il problema è certo comune ad altre istituzioni simili – hanno mostrato con grande evidenza come sia difficile anche solo ritrovare tracce documentali delle diverse fasi e occasioni in cui queste sono state storicamente acquisite, per non dire delle ragioni. Rimando per questo al volume da me curato Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, ma voglio almeno ricordare, a titolo esemplificativo, come il “Dessin photographique d’après le procedé de M. Daguerre” con la Veduta della chiesa della Gran Madre di Dio, realizzato da Enrico Federico e Carlo Jest l’8 ottobre 1839, ad oggi il più antico dagherrotipo italiano noto, venne rinvenuto nei depositi museali solo nel 1977, senza che se ne sia potuta stabilire la provenienza o la data di ingresso.

[9]Memoria sulla storia del Museo e le sue collezioni, 1899, citata in Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei civici: Inventario 1862 – 1965, I. Torino: Città di Torino, 2001, p. 27.

[10] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa l’autore dichiara che “les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Marc-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches : tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine ; ces procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p. 27.

[11]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera/estate 1991, pp.30-39.

[12]L’album è costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. A Bernieri si deve anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P. Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998,  “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n.2-4, pp. 145-160, online https://www.persee.fr/doc/mar_0758-4431_1995_num_23_2_1565 (10 12 2022).

[13] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, 4 (1870), p. 58.

[14] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nel Fondo Avondo,  cronologicamente riferibili per la gran parte agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della sua Direzione (1910). Tale materiale, sinora mai studiato, presenta un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese, e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza della pervasività della fotografia nella cultura delle belle arti sin dai primissimi decenni successivi all’invenzione.

[15] Sebbene apparentemente distante dal tema delle vere e proprie ‘fototeche d’arte’ credo valga almeno la pena di ricordare la consuetudine dello scambio tra artisti di carte de visite o di ritratti ambientati, ciò che ha portato alla formazione di vere e proprie gallerie tascabili che sono a loro volta la visualizzazione di trame di relazione in molti casi non altrimenti documentabili, sebbene allo stato attuale delle conoscenze a volte irrimediabilmente mute. (Si confrontino ad esempio le serie di ritratti pubblicati in Telemaco Signorini: una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti 8 febbraio-27 aprile 1997). Firenze: Artificio, 1997 e in  Vittorio Avondo e la fotografia, 2005). Vorrei ancora aggiungere la consuetudine, già ottocentesca, di commissionare e conservare la documentazione fotografica della propria produzione artistica, come fu ad esempio per Domenico Morelli, che raccolse alcune centinaia di riproduzioni di suoi dipinti e disegni  (cfr. Domenico Morelli: il pensiero disegnato, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001). Quella pratica, poi ampiamente diffusa sino all’oggi, ha portato alla costituzione di fototeche d’arte di tipologia ancora differente da quelle considerate in queste giornate di studi, ma altrettanto problematiche e interessanti.

[16] Per una puntuale considerazione delle  diverse iniziative in ambito nazionale si veda Marina Miraglia, “La fortuna istituzionale della fotografia dalle origini agli inizi del Novecento”, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Artistici  e Storici, 2000, pp. 11-21. Diverso fu l’atteggiamento – in ambito internazionale e poi italiano – nei confronti del patrimonio architettonico, oggetto di sistematiche attenzioni a partire almeno dal 1851.

[17] Giovanni Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine. Palermo: Sellerio, 2007, pp. 76 passim, ha recentemente messo a confronto queste posizioni con il diverso pensiero dell’americano Oliver Wendell Holmes in un affascinante quadro sulle origini della comunicazione di massa.

[18] Tra i  beni pervenuti al Museo col suo legato testamentario del 1911 risultano circa  3000 fotografie  che solo con una accurata operazione critica  è stato possibile assegnare rispettivamente alla sua biografia ovvero al suo ruolo istituzionale. Cfr. Vittorio Avondo e la fotografia, 2005.

[19] Nel  1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni prefetto a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” (“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880, p. 10). Nell’ottobre dello stesso anno la neonata Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità di Torino discuteva la proposta ministeriale, ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, venne deliberato di assegnare il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta a due dei migliori professionisti piemontesi Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina) e Vittorio Ecclesia, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli. In occasione della Esposizione generale italiana del 1884 prese poi avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si svolse in quella occasione aveva affidato al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia, 1887) questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale.  (Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1); è utile ricordare a questo proposito che un analogo progetto di costituzione di un Museo di Architettura e Belle Arti della Liguria, da realizzarsi nella chiesa restaurata di Sant’Agostino a Genova, fosse stato avanzato già nel dicembre 1883 proprio da Alfredo d’Andrade, figura centrale nelle vicende della realizzazione del Borgo Medioevale di Torino e del citato Congresso torinese del 1884 (cfr. Giorgio Rossini, “Chiesa di S. Agostino”, in Alfredo d’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, pp. 437-446).

[20] Tra la documentazione fotografica pervenuta al Museo torinese durante la direzione di Avondo va ricordato anche l’importante nucleo di stampe presentate in occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura inaugurata nel febbraio del 1890.  A conclusione dell’evento le opere esposte vennero affidate al locale Circolo degli Artisti per essere quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900  al costituendo Museo civico di Architettura, poi non realizzato. Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo civico anche decine e decine di fotografie, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

[21] Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80. Il progetto editoriale originava dalla divisione, stabilita nel  1892-1893, delle due sezioni museali: la pinacoteca moderna venne  spostata nella palazzina realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 nell’allora Corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris) sul sedime dell’attuale Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, mentre la sezione di Arte Antica rimase nella primitiva sede di via Gaudenzio Ferrari.  Inizialmente prevista per la grande esposizione del 1898, la pubblicazione vide la luce solo nel 1905 per una serie di difficoltà istituzionali e produttive. Della campagna documentaria realizzata per l’occasione attualmente si conservano in Archivio solo alcune decine di stampe originali.

[22] “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, da riprese appositamente effettuate dalla Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy”, come specifica il sottotitolo.

[23] Il testo integrale del progetto è stato pubblicato da Andrea Strambio, Profilo documentario della Fototeca di Brera, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, 2000, pp. 29-35 (p.32).

[24] Nel 1897 Vacchetta aveva già elaborato per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  mediante l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti lo portarono poi a ridimensionare il progetto, ridotto infine alla più vaga intenzione di ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro,  Maristella Pecollo, a cura di, G. Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare. Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p. 141). L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, come quella del 1890, poi cedute – come si è detto – al Museo Civico nel maggio 1900.

[25] Quella campagna fotografica venne nello stesso anno ampiamente utilizzata per il volume dedicato a Torino, edito dallo stesso Istituto per la cura di Pietro Toesca.

[26] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi,  1933, p. 4.

[27] Il materiale raccolto da Rovere (1869-1950) è entrato a far parte del patrimonio museale alla morte dello studioso, per donazione da parte della famiglia. La documentazione iconografica, suddivisa per autore o per scuola, riguarda il patrimonio artistico, in particolare pittorico in un arco cronologico che giunge, pur con limitazioni progressive sino al XIX secolo, mentre quasi nulla è la documentazione di opere del Novecento. Allo stato attuale delle conoscenze non risulta invece che Rovere avesse promosso l’accrescimento della raccolta fotografica museale, sebbene la sua attenzione per i temi della documentazione fotografica risalisse almeno al 1911, quando aveva proposto alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico”, coinvolgendo nell’iniziativa fotografi dilettanti e professionisti. (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, p.193).

[28] Viale 1933, p.5.

[29] Ibidem.

[30] Sulla figura e l’opera di D’Andrade risulta ancora fondamentale il riferimento a Alfredo d’Andrade 1981.

[31] Sulle vicende che portarono progressivamente all’acquisizione di questo Fondo si veda Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890 – 1938, catalogo della mostra (Torino 1996 – 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi, 1996.

[32] Anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Carlo Nigra: 1940-1942; Lorenzo Rovere: 1950; l’editore Celanza: 1951) e alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’Archivio fotografico è valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiungono verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio (cui si aggiunse l’acquisto di circa un migliaio di stampe nel 1991),  più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti.

[33] La fortuna critica della figura e dell’opera di Gabinio credo costituiscano un caso esemplare di quanto la considerazione delle fotografie (non della Fotografia) quale ‘documento’ o quale ‘opera’ abbia rilevantissime implicazioni in termini di salvaguardia e tutela, non solo fisica ma anche giuridica delle stesse, per tacere delle implicazioni patrimoniali.

[34] Si veda Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: GAM, 2005.   Il Fondo è costituito da circa 35.000 negativi su pellicola, 2700 stampe in diverse tecniche e circa 2000 diapositive, con cronologia 1908 – 1985. Quasi superfluo poi ribadire che – come  anche per Gabinio, e come sempre dovrebbe accadere – solo la disponibilità di un fondo fotografico sostanzialmente esaustivo  se non, illusoriamente, completo consente di  affrontare compiutamente lo studio critico di un autore.

“Invece di leggere la storia nei libri”: Fotografia e museografia in Piemonte intorno al 1884 (2006)

in Enrica Pagella, a cura di, Il Borgo Medievale: Nuovi studi, “Quaderni del Borgo”, n.6. Torino: Fondazione Torino Musei, 2006, pp. 130-140

 

 

Erano i primi giorni  dell’anno 1870 quando il giovane Vittorio Avondo si recava nello studio della Fotografia Subalpina per farsi ritrarre da  Giovanni Battista Berra in costume da “antico gentiluomo inglese”[1], non ancora attratto da più rudi medievalismi sabaudi sebbene l’abito fosse scelto per partecipare  al gran ballo offerto dal Duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio.  Quelli erano ancora tempi di vaghe suggestioni storiciste, teatrali: tra Partite a scacchi e Feste Campestri, Balli delle Alpi e Cavalieri del Bogo, Ordini cavallereschi  e l’ormai consolidata moda del revival neogotico.  Ancora due anni più tardi, nel Natale del 1872, alcuni dei protagonisti di quella stagione si riunivano per festeggiare vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[2] “Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne”[3], avrebbe aggiunto Pietro Giacosa in un suo ricordo tardo,  a rimarcare forse la fine della spensieratezza e l’avvio di una stagione nuova, col fratello Giuseppe, Alfredo d’Andrade, Federico Pastoris e Vittorio Avondo tra i protagonisti del convivio notturno in quello splendido edificio che il giovane pittore e antiquario aveva appena acquistato, dopo averlo segnalato nel 1871 alla Commissione consultiva per l’individuazione dei monumenti nazionali d’antichità e belle arti, di cui faceva parte.  Era ancora lieve lo sguardo volto a ritroso, alla ricerca di  un altrove  le cui coordinate oscillavano tra storicismi e orientalismi o – in altri – verso il mondo popolare extraurbano (a quello urbano avrebbe pensato Bava Beccaris), ma tutte identificavano luoghi in cui fosse almeno possibile vagheggiare alcuni valori perduti della società preindustriale. Quasi ovvio allora che questa topografia dell’immaginario trovasse una propria corrispondenza geografica nei luoghi delle architetture valdostane, quelle che avevano attratto i più sensibili artisti torinesi sin dai primi anni Cinquanta; Pastoris e D’Andrade dal 1865.  Tra 1870 e 1872 qualcosa sembra però essere mutato nella sensibilità di questo ristretto gruppo di artisti torinesi, già ricchi di giovanili esperienze internazionali. Al piacere della rievocazione fantastica, non ancora – forse mai – mitica,  si affiancava e cresceva  la consapevolezza del nesso inscindibile tra identità culturale e materiale del patrimonio,  attraverso la rielaborazione originale sebbene non sistematica delle suggestioni etiche e intellettuali che provenivano dalle diverse anime della cultura europea del restauro: da Pugin a Viollet-Le-Duc, in attesa di accogliere le raccomandazioni ruskiniane per il tramite di Camillo Boito. Era una disposizione alla scoperta[4] e all’ascolto che “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica”, delle testimonianze medievali in particolare, sostenuta da una peculiare forma di verismo che “invece di leggere la storia nei libri [li portava]  a studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita”[5], come ben dimostra un quadro importante come il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880). Quasi un manifesto del gruppo, in cui  ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi  della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo di quell’atteggiamento culturale che si sarebbe compiutamente espresso nella realizzazione del Borgo.  Negli stessi anni si avviava a livello centrale il primo progetto di formazione di un repertorio fotografico del patrimonio architettonico italiano. Nel 1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e [ad]  indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[6] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[7] e Vittorio Ecclesia[8] il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  limitandosi però al circondario di Torino e Susa e al territorio di Ivrea e Aosta.[9]    Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che  Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è di Alfonso Rubbiani – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”[10]. Per questo l’uso della documentazione fotografica veniva raccomandato e codificato da Viollet-Le- Duc nel suo Dictionnaire del 1860[11].    Fu proprio a Vittorio Ecclesia, autore delle riprese di Issogne nel corso della campagna del 1882, cui Avondo si rivolse per celebrare con un album fotografico[12] il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro come dei criteri e degli esiti recenti del suo riallestimento quasi filologico[13], quelli  che tanto avrebbero colpito  lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947) durante la visita fatta all’edificio nel 1896: “un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale.”[14] Giudizio che avrebbe potuto essere esteso con profitto e condiviso con reciproca soddisfazione per diverse altre occasioni museografiche. Dalle nuove riprese realizzate nei primi mesi del 1884[15] emerse una lettura chiara e sistematica dell’architettura come degli apparati decorativi e degli ambienti arredati. Una fedele documentazione non solo del suo stato attuale di residenza “in stile”, ma anche – sorprendentemente – di come il castello doveva essere stato, e vissuto: abitato da personaggi in costume, come l’armigero poggiato al bordo della fontana del melograno.  In quegli stessi mesi  giungeva a compimento la costruzione del Borgo Medievale, “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle “parti più importanti e caratteristiche” delle architetture, selezionate dopo il ‘colpo di mano’ di Avondo e D’Andrade che aveva reindirizzato le prime scelte della Commissione. Si trattava – come è noto – di procedere raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio”,  compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia”, di un repertorio insomma.  “Obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[16]  Il nodo concettuale imposto da questo vincolo metodologico generò un monumento di tipo nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza disciplinare e civile del patrimonio medievale piemontese e valdostano,  ma soprattutto esito concretamente esperibile dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, di presenze riconosciute autentiche. Alla manifesta necessità economica di sostituire la realtà col suo simulacro, infine. Analogamente a quanto accadeva con  le fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando paradossalmente ogni realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. Qui il luogo comune dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento  investiva  una pratica che si voleva filologica nonostante gli interventi di assemblaggio e collage, i sapienti aggiustamenti necessari ad  adattare i parametri originali al nuovo contesto[17]. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di  un soggetto inesistente in quella forma. Analogamente a quanto accadeva quasi negli stessi giorni a Issogne, a ulteriore testimonianza della capacità dei membri più autorevoli della Commissione ordinatrice di conservare un affascinante equilibrio tra consapevolezza archeologica e piacere giocoso della messinscena, Vittorio Ecclesia veniva incaricato di realizzare anche al Borgo una serie di vedute animate da figure in costume.[18]

Così se “queste fabbriche non [apparivano] una fredda rassegna di cose da museo” ciò accadeva perché erano animate da “personaggi e scene dell’epoca a cui si riferiscono” (Nino Pettenati)[19], mentre al banchetto inaugurale offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (ispirati versi di Giuseppe Giacosa) intervenivano “un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…), il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” Alla cerimonia inaugurale poi, alla presenza dei reali, “il corteo passa. È il mondo moderno  che entra nel medioevo. È il secolo XIX che fa un ricorso fantastico nel XV. Quei due mondi destano un contrasto che non manca di una certa comicità” certo, ma per cogliere le emozioni più vere occorreva attendere la sera, quando la dotta attrazione archeologica trascolorava, trasformandosi: “un castello antico è bello – infine – al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido […] quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono  il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” Era il coup de théâtre ostinatamente cercato e raggiunto, poiché “ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro gli spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo” (Camillo Boito) , poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia” (Antonio Bonamore), specialmente quando la verosimiglianza – come a Issogne – era certificata dalla   rappresentazione fotografica degli ambienti e della “vita civile del XV secolo”, anticipando meccanismi narrativi che di lì a non molto avrebbe sviluppato con ben altri mezzi il cinema. Riproduzione tendenzialmente fedele dell’originale, testimonianza e documento, strumento – al pari dei rilievi grafici e dei calchi – di una disciplina  che stava definendo le proprie metodiche e il proprio progetto culturale e scientifico senza voler rinunciare al fascino letterario dell’evocazione[20]. Materializzazione di un sogno, questo assemblage di immagini costituiva un efficace dispositivo di realismo fantastico, non ancora consapevole dei rischi futuri di quelle rappresentazioni omologate in cui le più forti connotazioni dei luoghi sono trasformate in stereotipi.  Allora ciò non poteva neppure essere concepito per un patrimonio come quello piemontese, ancora in fase di scoperta e di studio,  ma nella spettacolarizzazione del Borgo oggi riconosciamo il primo indizio di un meccanismo di riduzione che si sarebbe rivelato tentacolare e onnivoro, di un percorso che ha condotto a certe superficialità consumistiche dell’oggi.

Il fascino e l’efficacia didascalica di questa museografia della verosimiglianza dovettero essere tenute nel dovuto conto dalla Commissione incaricata di stabilire il nuovo allestimento della Sezione di Arte Antica del Museo civico torinese, presieduta dal neodirettore Avondo, certo memore anche dei favorevoli commenti espressi da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito degli esiti del suo riallestimento del castello di Issogne come dell’Esposizione di Torino del 1880[21], che lo aveva avuto tra i commissari, dove la disposizione degli oggetti si presentava “come nella casa di un uomo di gusto”.[22] La revisione museografica degli allestimenti, consentita dal trasloco nell’aprile 1895 della Sezione di arte moderna nella nuova sede della palazzina dell’Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, ottenne il plauso del Comitato direttivo “pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate” [23], e quasi impose la messa in cantiere di una “pubblicazione illustrativa” la cui concreta realizzazione prese però avvio solo nel febbraio del 1899, affidata a Edoardo Balbo Bertone di Sambuy.  A causa di una serie di difficoltà successivamente sorte, la “riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo” fu particolarmente travagliata e lunga[24],  così che solo la vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica  venne presentata al Sindaco di Torino. Le bellissime tavole stampate dallo stabilimento eliotipico Calzolari & Ferrario di Milano illustravano la nuova sistemazione, in cui accanto all’organizzazione tipologica “per serie e per materiali” (ceramiche, tessuti ecc.) comparivano  ricostruzioni ambientali cronologicamente e stilisticamente connotate, come la Stanza piemontese del XV secolo, che costituivano non solo l’attualizzazione di importanti modelli internazionali, ma anche una rielaborazione delle esperienze e delle soluzioni adottate al Borgo e ancor prima poste in atto nella risistemazione del castello di Issogne. Mancavano ormai i figuranti in costume, che Edoardo di Sambuy aveva comunque utilizzato ancora in una serie di riprese valdostane del 1898, ma questi esempi di ricostruzione verosimilmente oggettiva di un altrove temporale e spaziale sarebbero stati ancora ben presenti nell’eclettico allestimento progettato da Augusto Cavallari Murat per il grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale mise a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte[25], incerto tra ormai consolidate soluzioni moderniste (penso all’uso dei bellissimi ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone[26])  e più tradizionali ambientazioni in stile di avondiana memoria. Qui, ancora una volta, i due diversi meccanismi di ‘riproduzione’ di una realtà lontana nel tempo e nello spazio prendevano forma nella goticizzazione degli spazi di Palazzo Carignano e nei rimandi visuali delle tavole fotografiche.

 

Note

 

[1] Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p. 120.

[2] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1997, pp. 137-164 (149).

[3] Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968. p. 12.

[4] A breve distanza dalla serie di incisioni realizzate da  Édouard Aubert, La Vallée d’Aoste. Paris: Amyot, 1860, utilizzate ancora molto tempo dopo da Amé Gorret, Claude Bich, Guide de la vallee d’Aoste. Torino: F. Casanova, 1877,  nel 1869 veniva pubblicato l’album  di Meuta e Riva La Vallée d’Aoste monumentale photographiée et annotée historiquement,  che costituisce il primo esempio di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio artistico della valle.

[5]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891,. Torino:Paravia e C.,  1893, p.337, citato in  Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano. Torino: Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.19-43.

[6]  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[7] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino, 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra ( Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I, oggi conservato presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria. Esemplari della sua campagna documentaria del 1882 sono attualmente conservati nell’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte, ma anche nel Fondo Avondo e nel Fondo Musei Civici della Fondazione Torino Musei, costituito da 96 stampe all’albumina di medio o grande formato essenzialmente dedicate a soggetti di architettura piemontese, nella maggior parte provenienti da Esposizioni torinesi o dalla campagna di documentazione dei “monumenti” piemontesi promossa dalla Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità della Provincia di Torino nel 1882.

[8] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).  Tre esemplari dell’album dedicato al Castello d’Issogne,  in due diverse edizioni, uno dei quali con  dedica di Vittorio Avondo ad “A. Pozzi antiquario” e numerosi esemplari delle due serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, 1884, sono oggi conservati presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei, mentre 24 stampe all’albumina  di identico soggetto compaiono nel Fondo Brayda e fanno parte anche di un Fondo non meglio identificato della stessa Fondazione, che conserva anche esemplari riferibili alla campagna documentaria del 1882, di cui si conoscono copie conservate anche presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte.

[9] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate nell’Alessandrino da Federico Castellani e alle  vedute urbane presentate dall’editore Giovanni Battista Maggi, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim; Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino:  Celid, 1999, p. 59. Diversi esemplari di queste immagini sono oggi conservati negli archivi fotografici della Fondazione Torino Musei, dell’Accademia Albertina di Belle Arti e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[10] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc, Restauration, in Id., Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle. Paris: Librairies Imprimeries Réunies, s.d. (1860),  VIII, pp.33-34.

[12]Per la ricostruzione dell’iter progettuale dell’album cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, pp. 33-35.

[13] Quale fosse il valore assegnato dall’ambiente culturale che ruotava intorno ad Avondo e D’Andrade al riallestimento di Issogne mi pare indirettamente confermato anche dalla scelta dei soggetti per le tavole che Carlo Chessa ricavò dalle fotografie Ecclesia (senza dichiararlo) ad illustrazione del volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898.

[14] Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassbur: Fritz Schlesier Verlag, 1896, citato in Barberi 1997, p.146.

[15] Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama- Fondo Vittorio Avondo, cartella “Conti – ricevute – fatture”.

[16] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884. Catalogo ufficiale della Sezione Storia dell’Arte. Torino: Tip. Vincenzo Bona, 1884, p.9.

[17] Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[18] Questa serie di  immagini ebbe un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tip. Carlo Accame, 1934, pur omettendone la paternità.

[19] Salvo diversa indicazione tutte le citazioni successive sono tratte da Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale- Fratelli Treves, 1884: n.8, p. 67, n. 42, pp. 331-334.

[20] Giova qui almeno ricordare che il  1884 costituisce un momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura italiana anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”, che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tenne in occasione dell’Esposizione affidò  al Collegio torinese. Questa iniziativa ebbe quale primo esito la donazione da parte di  Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale. In una macchina museografica costruita come un repertorio veniva ospitato un catalogo antologico fatto di calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto di fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.” Cfr. Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887; Volpiano 1999. Colgo l’occasione per segnalare come parte di quelle immagini sia stata recentemente ritrovata nei depositi di Palazzo Madama ed oggi sia conservata presso l’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei, ma  sia ancora in attesa di un’appropriata catalogazione e studio sistematico in grado di stabilire consistenza e congruenza di quelle immagini rispetto all’allestimento originario.

[21] Ricordo qui, ma il tema della produzione fotografica connessa alle diverse esposizioni andrebbe approfondito, che un’ampia selezione delle opere esposte venne pubblicata nelle cento splendide tavole in fototipia che costituivano la cartella L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: Fratelli Doyen, 1882. Anche G. B. Berra aveva documentato fotograficamente in un grande album la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ma dedicandosi all’arte moderna.

[22] Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-60, cui rimando anche per un inquadramento critico delle concezioni museologiche di Avondo.

[23] Archivio dei Musei Civici di Torino,  CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura mia.

[24] Cfr. Cavanna 2005, pp. 41-44.

[25] Realizzazione “che costituisce, ancora oggi  un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”, Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[26]Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano, a cura di Vittorio Viale.  Torino: Città di Torino, 1939. Scoffone firmava gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 mentre a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.