Cinquant’anni di sguardi: La fotografia scopre il Sacro Monte (1998)

in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria,  1998, pp.  137-145

 

 

 

“Crea è veramente un luogo amenissimo (…) Ma per ben intendere a cosa realmente serva il Santuario di Crea per i quattro quinti almeno di coloro, che là si arrampicano, è bene visitarlo in un giorno di domenica dei mesi d’agosto, di settembre o di ottobre.

Che mondo!…. Che baccano allora udiremmo su quel piazzale del convento!….

Qui un confettiere vorrebbe raddolcire la bocca (non parliamo della lingua) a tutta la gente: là un rumoroso venditore di rocche pretende che tutti (…) comprino lo strumento indispensabile per preparare il corredo delle spose. Più in qua un acquacedrataio ci introna le orecchie gridando: «acqua giassà:» a noi vicino poi una fruttivendola vuole riempirci, se pur lo potesse, le tasche di «castagne belle e calde, » mentre ci regala il fumo della sua caldarrostiera. De-Maria stando sulla porta del suo albergo saluta i nuovi arrivati: un gruppo di signore si muove verso il tempio accompagnate dai loro cavalieri serventi (…) famiglie d’operai vanno cercando un luogo per poter comodamente vuotare le canestre dei cibi (…) Vispe ed allegre fanciulle prendono i molti sentieri che su e giù s’intersecano pel bosco (…) E la volta del cielo copre tutta la varia scena: il bosco nasconde anche i peccati di desiderio (…).” (Niccolini 1877, pp.519-520)  Il tono di questa descrizione ha tutta la vivacità di un’istantanea: la raffigurazione di una coralità, di un insieme è risolta per scene fissate nel momento del loro compiersi, lontane dalla fissità della posa, in modi che la fotografia solo in quegli anni iniziava faticosamente a mostrare;  è proprio questa però -e quindi il fotografo- a risaltare per la sua assenza dalla scena sonora e viva che si svolge sulla piazza del Santuario e nei boschi intorno, che nel 1877 poco ancora sembrano aver conservato o riconquistato di sacro.  Nessun fotografo, da Asti, da Casale, da Vercelli a mescolarsi alla folla domenicale per eseguire ritratti a consegna immediata, le povere lastre zincate, nerastre,  rivestite al collodio dei ferrotipi,  utilizzati dagli ambulanti in giro per villaggi e fiere, per santuari.

Quando il primo fotografo – almeno per ciò che ne sappiamo sinora – sale a Crea è trascorso poco più che un anno dalla pubblicazione di questo testo, ma la sua attenzione non si sofferma certo sugli stessi soggetti: le tre riprese che Vittorio Ecclesia realizza nel 1878-1880 e presenta poi all’Esposizione torinese del 1884 riguardano la facciata e l’interno del santuario ed una Veduta generale del Sacro Monte di Crea  ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi, per la sua capacità di porre in risonanza il segno architettonico del profilo del frontone della chiesa con quello del colle disseminato di cappelle, rinunciando alle facili suggestioni di una troppo rigida simmetria centrale per produrre, per la prima e forse unica volta, una precisa ed efficace sintesi visiva del sito, ribaltando il punto di vista – e quindi il significato- dello schizzo realizzato da Clemente Rovere il 13 settembre 1849 (Sertorio Lombardi 1978, n.2663). La presenza di Crea nella raccolta di immagini di Ecclesia[1] suggerisce però ulteriori considerazioni: poiché  la prevalenza dei soggetti rappresentati è costituita da chiese ed edifici romanici, da monumenti di riconosciuto interesse e valore architettonico quali le cattedrali di Asti e Casale, alla presenza delle immagini del santuario di Crea deve essere riconosciuto un significato diverso, legato al più complesso insieme di valori devozionali e tradizionali che ruotano intorno al monte di Crea nel secondo Ottocento.

Che non fosse il valore architettonico dell’edificio a giustificarne l’inserimento nella raccolta fotografica di Ecclesia è dimostrato indirettamente anche dalle scelte di un autore come Secondo Pia che solo nel 1902 si preoccuperà di inserire le due immagini della facciata e dell’interno della chiesa nel proprio repertorio ormai ventennale di architetture e opere d’arte piemontesi[2].  Quando sale per la prima volta al colle, il 15 settembre del 1885, la sua attenzione è rivolta al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo quel punto di vista canonico che, con leggere varianti sud / sud-est,  a partire dai primi disegni settecenteschi si ritroverà poi negli schizzi di Rovere del 1849, e nelle immagini di Negri, a volte realizzate col teleobiettivo (1890ca), mentre variazioni significative, in connessione con la coeva produzione fotografica di derivazione pittorialista, sono presenti nelle più tarde riprese effettuate da Padre Giovanni Valle o da Guido Cometto (1925-1930), destinate in parte alla edizione di cartoline e alla pubblicazione di  innumerevoli opuscoli e guide[3].

Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, dalla tavola di Macrino d’Alba, fotografata una prima volta nel 1888 in esterni, forse su di un ponteggio e quindi riprodotta in autocromia nel 1909-1910,  agli affreschi da poco scoperti della cappella di Santa Margherita[4], in cui l’attenzione prevalente per l’insieme si apre al particolare per le due figure di Guglielmo VIII e Bernarda di Brosse rivelando un intrecciarsi di intenzioni documentarie e storico celebrative, per passare negli anni successivi ad altre opere presenti nella chiesa, con una attenzione singolarmente aperta alla considerazione di manufatti allora certamente considerati minori quali il Confessionale con colonne tortili, non più fotografato da altri nei decenni successivi, secondo  una accezione progettuale che non tende tanto alla esaustività del catalogo quanto alla messa in atto di un giudizio critico -seppur implicito- sul valore dell’antico di queste  opere. Sintomatica in questo senso la scelta relativa alla statuaria delle cappelle, che inizia a fotografare solo nel 1902, anno della pubblicazione del saggio di Francesco Negri dedicato al Santuario che verosimilmente gli fa da guida, per ritornarvi molti anni dopo, nel 1919,    limitandosi però a fotografare quelle sole cappelle in cui si conserva l’opera dei fratelli Tabacchetti  così puntualmente studiata dal fotografo casalese.

“Di tutte le terre monferrine – ricorda Luigi Gabotto nella commemorazione di Negri[5] – egli amò però in modo particolarissimo Crea. Crea ebbe per Lui un’attrattiva singolare, forse perché questo nostro magnifico colle è la sintesi del Monferrato. Qui egli trovava riunite, in picciol spazio, tutte le cose che più lo interessavano: la natura, la storia, l’arte.” L’indicazione, nella sua affettuosità,  non potrebbe essere più puntuale e sintetica: Crea è per molti versi il laboratorio di Negri, il luogo in cui conduce le proprie ricerche sul campo nei diversi ambiti che via via lo interessano, a partire certo dalla botanica, che pratica come è sua consuetudine a livelli di grande rilevanza redigendo una Flora casalese, poi rimasta inedita, per pubblicare nel 1889 un Elenco delle piante più notevoli del Monte di Crea e regioni vicine in appendice alle Notizie storiche di Corrado Onorato.  In questi anni sono ancora le scienze naturali a nutrire la sua curiosità  intellettuale, come dimostrano le  importanti ricerche microbiologiche e microfotografiche, abbandonate dopo il 1890 per dedicarsi totalmente allo studio storico-critico del patrimonio artistico casalese.

La quasi totale dispersione dell’archivio Negri[6] non ci consente di conoscere le ragioni di un mutamento di rotta che a noi appare repentino ma doveva invece essere fondato su solide basi se nello stesso 1890 Negri è nominato membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria, e che deve essere collegato  al più ampio dibattito sulla nascente cultura di conoscenza e tutela del patrimonio culturale piemontese, a cui non erano estranei neppure i contributi dei fotografi più attenti (e basti fare i nome di Pia e Pietro Masoero). Non va inoltre dimenticato -come nucleo di una ipotesi suggestiva- che per Negri un ruolo importante abbia avuto l’incontro con Samuel Butler[7], forse conosciuto nei primi  anni ‘80 in Valsesia in occasione delle prime ricognizioni dello scrittore sui santuari alpini[8], così come  la loro successiva lunga frequentazione, che porterà l’inglese più volte a Casale tra il 1887 e l’anno della morte, il 1902, in compagnia dell’amico e biografo Henry Festing Jones.

“How about your Tabacchetti?”  chiede Butler a Negri in una lettera scritta nei giorni in cui inizia a lavorare a Erewon Revisited,  spedita in accompagnamento alla traduzione in inglese dell’Odissea[9],  a riconferma di una consolidata attenzione per gli studi del casalese, esplicitamente citato anche per l’assegnazione – poi corretta – a Giovanni d’Enrico del gruppo sull’altare nella cappella della Immacolata Concezione a Crea[10],  e lo stesso Negri esprimerà “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65)  consentendo di completare la ricostruzione delle vicende biografiche relative a Jean de Wespin.

Erano state però le ricerche su Martino Spanzotti la sua prima occasione di studio del patrimonio artistico di Crea,  pubblicate nel 1892 col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate,  già collocate nelle lunette della sacrestia,  che “in una recente modificazione alle finestre a cui appartenevano da quattro secoli, sfidando l’ira dei tempi e dei Giacobini, non resistettero alla incoscienza artistica dei frati. Spero però che non le avranno gettate via, e vorranno, se le conservano ancora, metterle in qualche modo in vista.”[11] A queste seguirono gli studi su Gugliemo Caccia, figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, pubblicati nel 1895-1896, i cui esiti confluiranno in parte negli studi dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900[12]. Sono questi l’occasione per offrire un panorama esaustivo e finalmente documentato in modo appropriato, con ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche ma anche a partire da una articolata  analisi storico-critica delle opere, a cui fa da preciso riscontro la documentazione fotografica, qui non finalizzata alla costituzione di un repertorio di opere eccezionali come in Pia, ma intesa quale  strumento d’indagine (ben esemplificata dalle decine di riprese, specialmente relative ai gruppi scultorei delle cappelle) e anche, seppure in misura ridotta per esigenze di economia editoriale, di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating” (Holt 1989, p.87).

Proprio la sua segnalazione del Martirio di Sant’Eusebio come “la cappella più importante”  sembra aver orientato l’indagine di Negri che la fotografa ripetutamente per più di un decennio a partire dal giugno 1891, quando utilizza una illuminazione a candele steariche, eseguendo una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica non dell’opera ma della scena, che viene presentata nella doppia mediazione dei due strumenti narrativi, con l’intenzione esplicita di restituire visivamente quel “realismo così sano e spontaneo”[13] che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti, di tradurre fotograficamente quella “disposizione delle persone (…) così naturale, che l’occhio contemplando la scena si sente riposato, la mente serena” nel vedere “una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sibbene ordinata da un potere costituito su regole determinate e regolari”, interpretando in senso conservatore il “concetto che ebbe il Tabacchetti, di rappresentare cioè, non un assassinio, bensì l’esecuzione d’un supplizio decretato col rispetto delle forme legali e sanzionato dal potere legalmente costituito.” (Negri 1914, p.44)  Ciò che lo attira al di là del valore artistico dell’esecuzione o – meglio – quale fondamento di questo, è il naturalismo delle movenze e delle posture, la capacità di Wespin di cogliere il gesto significativo, e nelle sue riprese pone  in atto un rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico, entrambi impegnati a rappresentare la scena, declinando l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione che reinterpreta e stravolge la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin)  attraverso la cultura visiva propria dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita attraverso l’immobilizzazione del movimento e del gesto che era proprio anche della logica di rappresentazione scultorea.[14]

Omaggio implicito quanto evidente all’amico inglese è anche la tavola di apertura dell’apparato  iconografico dello studio di Negri su Crea che in modo altrimenti inspiegabile si apre con una riproduzione del “Vecchietto”  della Cappella della Deposizione della Croce (XXXIX) di Varallo – oggi attribuita a Giovanni d’Enrico – che Butler considerava la più bella del Santuario ipotizzandone anche una tarda provenienza da Crea[15], per proseguire con una porzione del ciclo di affreschi della cappella di Santa Margherita, fotografati al lampo di magnesio, “scintilla che portava sempre con sé”[16],  e passare quindi ad alcuni dei gruppi statuari più significativi: il Martirio di Sant’Eusebio; la Concezione di Maria, con le due figure dei fondatori conti di Gattinara; la Natività di Maria e l’Annunciazione, per chiudere infine col presunto autoritratto di Tabacchetti, ancora a Varallo. Sono gli stessi soggetti sui quali si eserciterà, come si è detto, anche Secondo Pia con inquadrature sottilmente differenti, più schematiche e immobili, specialmente preziose oggi anche quale documento delle mutate condizioni di conservazione; sono quelle stesse immagini che entreranno a far parte  per lungo tempo del repertorio  iconografico della pubblicistica relativa al Sacro Monte che sempre più nei decenni a cavallo tra i due secoli riconquista quelle attenzioni prima destinate prevalentemente al Santuario.

Così se dal 1891 al 1900, dalla Relazione della Solenne Incoronazione di Damonte ai Brevi cenni storici di Locarni, le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea si limitano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese di Negri, e in Crea 1900 la sola cappella documentata è quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già fotografata da Negri ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto de Amicis, in Crea, 1913, a queste si aggiungono le immagini relative ai rifacimenti ottocenteschi (Sposalizio di Maria Vergine, Presentazione di Gesù al Tempio, Gesù coronato di spine) e si assiste al progressivo accrescimento del corredo fotografico che  assume una forma articolata e complessa ne Il Santuario di Crea, 1914, primo esempio compiuto di guida a più voci corredata di fotografie che illustrano i più diversi aspetti del luogo, dalla statuaria agli affreschi, alle nuove oreficerie, senza dimenticare alcuni esempi di scene di vita e di cronaca (L’incoronazione della Madonna,  5 Agosto 1890) né la discreta presenza dei frati, a cui  è dedicata anche una interessante serie di cartoline edite negli stessi anni.[17]

La successiva occasione editoriale è data dal Congresso Mariano del 1923, per il quale vengono pubblicati sia la “storia popolare” di Padre Francesco Maccono sia “un Album, in veste di lusso, che riproduce i principali monumenti d’arte del Santuario”[18] in quaranta tavole, affidando alle sole immagini la testimonianza del patrimonio artistico e architettonico. Le singole riprese, così come l’Album non portano indicazione d’autore ma sono da assegnare prevalentemente a Negri anche le  immagini nelle quali i gruppi statuari – diversamente da quanto accadeva nel saggio del 1902 –  sono documentati nel loro insieme di opera, con viste grandangolari che li collocano precisamente nello spazio architettonico, restituendo così compiutamente l’approccio complesso dell’autore casalese.

La scelta di affidare alla sola fotografia il compito di illustrare il Sacro Monte costituisce una novità assoluta rispetto alla pubblicistica precedente, certamente favorita dalla positiva  contingenza -anche economica- costituita dal Congresso Mariano ma derivata da una comprensione più profonda e specifica delle potenzialità del mezzo, quella stessa che porta a formulare  “L’idea geniale di fotografare tutti i pellegrinaggi della settimana del Congresso”[19] e di utilizzare in modo sempre più massiccio l’illustrazione fotografica sulle pagine del periodico del Santuario che ha da poco mutato testata.[20]

“Nessuno certo ignora i grandi vantaggi che apporta la fotografia associandosi allo storico fermando sullo strato sensibile di una lastra o pellicola le svariate scene che si svolgono di continuo. Pellegrinaggi, feste tradizionali spingono quassù fiumane di devoti. Schierati sull’ampio piazzale lo riempiono letteralmente e lo spettacolo si consegna alla cronaca in tutta la sua fedeltà numerica.”[21] Questi concetti, espressi nel 1925 sulle pagine del bollettino del Santuario, indicano chiaramente quali fossero le lucide intenzioni e quale l’ispiratore della nuova politica di utilizzazione del mezzo fotografico: Padre Gian Giuseppe Valle (Padre Giovanni), giunto a Crea nel 1922-23[22], la cui passione per la fotografia lo trasformerà ben presto in una delle figure caratteristiche della comunità francescana del Santuario, col “suo vestito trasandato, colla macchina fotografica a tracolla, qua e là per il monte per accontentare i pellegrini o per fissare in una lastra qualche panorama o qualche singolare fenomeno della natura da mettere poi nel Museo.” (Maccono 1936, p.22)

Chiare sono  le  ragioni del suo operare:  la registrazione minuziosa e fedele dei gruppi di pellegrini costituisce testimonianza dell’ampiezza del fenomeno devozionale e -insieme- una ulteriore occasione per rinsaldare il legame tra  fedeli e  luogo in termini modernissimi di comunicazione per immagini attraverso la commercializzazione delle fotografie e la loro pubblicazione sulle pagine del bollettino, per quei lettori sempre più “avidi di figure sensibili”, mentre la documentazione delle opere d’arte, di “questa realtà che sfugge l’occhio di molti visitatori che non spingono lo sguardo dietro le inferriate delle cappelle”[23] ha un ruolo più culturalmente connotato e intrinseco alla diffusione della pratica fotografica sin dalle origini: la formazione di quel “deposito di preziose memorie” che è una delle forme del Museo, specialmente locale.

Qui a Crea, in questa prospettiva si era mosso già Francesco Negri raccogliendo frammenti dei gruppi plastici  negli stessi anni in cui ne andava fotografando il  patrimonio[24], registrandone anche le progressive trasformazioni e impoverimenti;  dopo la sua morte l’impresa viene proseguita “con assidua fatica” proprio da Padre Valle, il quale affianca alla raccolta di reperti quella di immagini fotografiche, per la maggior parte da lui realizzate, non disdegnando però il ricchissimo repertorio delle cartoline,  raccolte in album “che si stanno compilando esaurientemente: vedute del S. Monte (…) dintorni coi suoi attraenti quadri tratti colla telefotografia dai colli remoti (…) splendidi tramonti: scene notturne eseguite al chiaror della molle luce offerta dall’astro minore: la nebbia fitta lambente il limitare del colle eccelso (…).”[25] Il tono lirico e compiaciuto lascia trasparire  l’orgoglio dell’amatore fotografo di formazione pittorialista, sin troppo simile a pagine e pagine di retorica “artistica” pubblicate sui periodici fotografici dell’epoca e specialmente rilevanti in ambito torinese[26], ma anche qui – come a volte accade- la concreta produzione fotografica riscatta i riferimenti di maniera: non solo il progetto complessivo, dai gruppi di pellegrini alla cronaca dei lavori del Santuario, dalla documentazione delle opere d’arte[27] alla vita dei confratelli, dimostra una volontà di restituzione totale, di catalogazione fotografica del mondo che è lontana dalle più estenuate ricerche formali e più strettamente connessa semmai alla tradizione ottocentesca, ma anche quando i temi si fanno più prossimi al repertorio “artistico”, come è per alcune nature morte di fiori e piante e per i paesaggi, lo sguardo si rivela dotato di una propria particolare fisionomia, sempre obliquo e complesso, inatteso, seppure non sempre sostenuto da una adeguata maestria di stampa, lasciando trasparire una concezione del paesaggio come sistema complesso di relazioni tra presenza architettonica ed elementi naturali, ancora una volta con rimandi precisi a Negri ma qui con un impianto compositivo più aggiornato, dove i solidi geometrici delle architetture sono come scomposti, incrinati dalle scritture organiche dei rami e delle loro ombre, in una lettura in cui il gesto fotografico si propone esplicitamente quale atto palese e significante, mai neutra registrazione invisibile e indifferente, non finestra sul mondo ma sua interpretazione mediata, sovente significata dalla presenza di elementi di filtro, quasi di ostacolo ad una visione presunta naturale, posti in primissimo piano, ad indicare la fisicità di una presenza, a storicizzare metaforicamente l’atto del guardare per vedere.

È questa consapevolezza che lo fa sentire – pur nel suo francescanesimo –  orgogliosamente diverso da quella “pleiade di [inetti] dilettanti muniti di un apparecchio fotografico” che per “carpire un lembo di questo suolo storico, un panorama più o meno ampio (…) una comitiva”, hanno invaso  gli spazi occupati dai venditori ambulanti solo cinquant’anni prima.

 

 

Note

[1]La cartella di fotografie relative a Chiese della provincia di Alessandria, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, M-XXVIII (1-45, nn. 24-26) a cui pervenne verosimilmente a chiusura della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, comprende immagini prevalentemente di V. Ecclesia (Casale: S. Evasio; Cortazzone: S. Secondo; Crea: Santuario; Vezzolano: S. Maria;  Asti: Cattedrale, S. Giovanni, S. Pietro, torre di S. Secondo; Bagnasco: cappella del cimitero; Albugnano, cappella del cimitero; Montechiaro d’Asti:S. Nazario;  Moncucco: castello) a cui si aggiungono quattro immagini dovute a Carlo Migliore di Casale Monferrato, relative alla chiesa di San Domenico. Sono tutte stampe all’albumina virate all’oro in formato 30×40 circa montate su cartoni 50×65 circa.  Per quanto riguarda le immagini di Ecclesia la presenza sul supporto secondario dell’indirizzo di Asti, via San Martino 19, prima sede locale dello studio, consente di datare le immagini al periodo 1878/80, realizzate forse poco dopo l’Album artistico della città di Asti/ 1878, cfr. Fotografi del Piemonte, pp.29-30, tavv.XXVIII, XXIX; per una corretta ricostruzione e datazione delle vicende professionali di Ecclesia cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia 1990.

[2] Sulla figura e l’opera di S. Pia, che meriterebbe ancora uno specifico approfondimento, si vedano Tamburini, Falzone Barbarò 1981;   Falzone del Barbarò, Borio 1989 ed i più recenti cataloghi di mostre prodotte in concomitanza con l’ostensione torinese della Sindone: L’immagine rivelata 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone 1998.

[3]Per un confronto e per una verifica della diffusione di questo stereotipo rappresentativo, evidentemente connesso anche ad una economia di rappresentazione, essendo il punto più favorevole per mostrare l’insieme, si rimanda alla bibliografia generale, segnalando qui due sole eccezioni costituite dalla veduta acquerellata compresa nella Descrizione dei Santuari del Piemonte, 1822 (cfr. Castelli, Roggero 1989, p.20)  e dall’incisione in antiporta a Tarra 1890, forse derivata dalla prima, entrambe con vista da sud-ovest e significativa modificazione delle relazioni orografiche necessaria per accentuare la presenza del santuario;  operazione evidentemente impossibile con i vincoli proiettivi geometricamente determinati propri della successiva produzione fotografica.

[4]Dal confronto tra il  “Regesto autografo delle Campagne di Secondo Pia” (cfr. Tamburini, Falzone Barbarò 1981, pp.55-58) e le immagini reperite nel corso della presente ricerca si ricava la seguente cronologia delle riprese:

15-09-1885, Panorama.

21-08-1888, Tavola di Guglielmo Fava detto Macrino;

25-08-1888, Cappella di Santa Margherita, affreschi. A questa data gli affreschi erano appena stati scoperti (cfr. Giorcelli 1900, pp.5-6)

1890, Immagini o documenti non reperiti

23-06-1893, ConfessionaleDipinto in stucco rapp.te Madonna col bambino con iscrizione.

15-10-1898, Due tavolette [ritratti di Lodovico di Saluzzo e della moglie Giovanna di Monferrato]; San Bernardo, affresco di G.Caccia detto il Moncalvo.

25-10-1902, Statua od erma antica della Madonna.

26-10-1902, Facciata della chiesa – stile dorico; Interno della chiesa;  Cappella I: Martirio di Sant’Eusebio; Vetri dipinti nella sacrestia a forma di lunetta.

12-10-1909, Crea [Veduta del Santuario scorciata dal basso], autocromia.

25-10-1909, Pianeta donata da Pio V; Reliquia del piede di S.Margherita; Ostensorio istoriato.

1909-1910, Tavola Macrino d’Alba, autocromia.

30-03-1910, Casale – pianeta di Crea santuario [pianeta donata da Pio V], autocromia.

1913, Immagini o documenti non reperiti

11-09-1919, Cappella IV, Concezione di Maria Vergine; Cappella V, Natività di Maria; Cappella VIII, Annunciazione di Maria Vergine, particolari dei gruppi dell’Eterno e di Giuditta.

Salvo diversa indicazione si tratta di riprese effettuate con lastre alla gelatina-bromuro d’argento nei formati dal 13×18 al 24×30 e quindi stampate per contatto su carte all’albumina o al citrato, successivamente montate su cartoni corredati di annotazioni autografe. Le stesse stampe venivano successivamente rifotografate per ricavarne piccole riproduzioni da inserire nelle schede analitiche che costituivano la struttura finale del sistema archivistico di Pia. Tali schede, confluite nel Fondo Pia della Confraternita del SS. Sudario di Torino, riportano la sigla di collocazione della relativa stampa a contatto, la numerazione progressiva della scheda; localizzazione, titolo  ed eventuali misure dell’oggetto fotografato corredate di sintetiche notizie storico-critiche; data, formato e collocazione del negativo di ripresa.  Prive di schede di riferimento sembrano essere invece le autocromie. Una elencazione  dei diversi fondi fotografici  di Pia  è stata recentemente fornita da Boschiero 1998,  ma a parziale integrazione di quanto indicato si deve ricordare che presso la Biblioteca Reale di Torino oltre all’album dedicato a Vittorio Emanuele III (1919?) è conservato anche un album precedente, datato 1907, dedicato a “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” relativo a Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte, entrambi con immagini relative a Santa Maria di Vezzolano e a Sant’Antonio di Ranverso, cfr. Cavanna 1997.  La notorietà e autorevolezza della sua opera così come l’estesa rete di relazioni con informatori e studiosi fa però sì che immagini di Pia siano presenti  in sedi e collezioni diverse, pubbliche e private, non sempre note. Per l’interesse relativo a questa ricerca segnalo il piccolo album, conservato presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato e verosimilmente proveniente dal lascito Negri: Secondo Pia,  Affreschi della Cappella di S.Margherita di Antiochia nell’Abbazia di Crea Attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona, [1900ca], quattro pagine, copertina cartonata rossa con impressioni in oro; contiene tre stampe [manca la ripresa relativa alla volta] all’albumina virate all’oro, cm.20x25ca, con  timbro a secco: “Secondo Pia/ Torino” in basso a sinistra. Nonostante la classificazione di “Monumento Nazionale” negli anni a cavallo tra i  due secoli il Sacro Monte di Crea non è ancora entrato a far parte del panorama “ufficiale” del patrimonio artistico ed architettonico piemontese, tanto che gli operatori degli Alinari inviati nella nostra regione nel 1898 non lo comprenderanno nel proprio itinerario di lavoro, nel quale sono invece compresi il Sacro Monte di Varallo (14 settembre) e quello di Orta (18 settembre), cfr. Sansoni 1987. Neppure nella successiva campagna del 1912  Crea sarà compresa nel loro repertorio (cfr. Alinari 1925) mentre alcune riprese erano state effettuate dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo.

[5]Luigi Gabotto 1925b; questo testo, estratto dalla commemorazione ufficiale tenuta a Crea il 28 maggio, fa seguito ad un primo necrologio pubblicato a febbraio (Gabotto 1925a).  I legami tra i due personaggi e la comune passione per questi luoghi sono ricordati nella dedica  autografa “All’avvocato Francesco Negri/ che mi ha fatto conoscere ed / amare Crea” con la quale Gabotto  accompagna il proprio volume del 1924 corredato di  foto Negri e dei “Frati di Crea” (Padre Giovanni). Sul fotografo casalese, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890 e Ispettore agli Scavi e Monumenti dal 1907 (Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 253-268)  si vedano Colombo 1969; Greco 1969. A conferma della funzione di laboratorio svolta complessivamente da Crea ricordiamo che nel Fondo Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato (BCCM/FN) sono conservate le riprese di selezione e le singole gelatine colorate necessarie alla realizzazione di alcune riprese per tricromie qui realizzate, datate 1904 (BCCM/FN, B14) poi non completate.

[6]Per una ricostruzione delle vicissitudini dell’eredità Negri rimando a Cavanna 1991; Id. 1992.

[7]Per Samuel Butler cfr. Festing Jones 1920; Durio 1940; Holt 1989.

[8] La  lunga e amorevole consuetudine di Bultler  con l’Italia  induce nel 1880 il suo editore a offrirgli 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese; il manoscritto è completato entro la metà dell’anno successivo ma il testo viene rifiutato e sarà pubblicato a spese dell’autore nel 1882,  corredato di disegni ricavati sia da fotografie eseguite da autori locali come Vittorio Besso (per il cortile superiore di Oropa, ad esempio) sia da schizzi dal vero. Da questa rassegna era stato volutamente escluso il Sacro Monte di Varallo che Butler considerava il più importante dei santuari dell’Italia settentrionale e al quale si riprometteva di dedicare uno studio specifico, anche su precisa sollecitazione di Dionigi Negri, segretario comunale a Varallo e in contatto con lo  scrittore sin dalle sue prima vacanze valsesiane nell’agosto del 1871. Per meglio affrontare lo studio di questo complesso Butler moltiplica i propri soggiorni italiani, estende le ricerche su Tabacchetti a Casale Monferrato (dove si reca nel settembre del 1887 da Ivrea, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen), e prende lezioni di fotografia per poter utilizzare questo nuovo strumento documentario sia in fase di studio sia in occasione della pubblicazione (Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore). L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, amico varallese di Butler, latinista, benemerito CAI, che nel 1897-98 contribuì economicamente al restauro della Chiesa della Madonna di Loreto presso Varallo, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio dopo che il volume era stato rifiutato dagli editori milanesi Treves e Hoepli, con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varalo e di Crea) e con un apparato iconografico lievemente ampliato. La consuetudine della documentazione fotografica rimarrà immutata anche nei decenni successivi  e nel 1891 Butler realizzerà alcune immagini relative a Crea: “Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, scrive ad Arienta il 31 ottobre 1891 (Durio 1940, p.86).

[9]Datata 5 novembre 1900, è pubblicata in facsimile in Greco 1969, p.24. La stima di Butler per lo studioso casalese è chiaramente espressa in una lettera a Giulio Arienta del 31 ottobre 1891: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.” (in Durio 1940, p.86). Quale concreto segno di  stima Butler  finanzierà la realizzazione dei cliché fotografici a corredo del saggio di Negri sul santuario di Crea (Negri 1902, p.76). Le lunghe frequentazioni tra i due sono  documentate anche  da una lastra 13×18 in cui sono ritratti Butler e Festing Jones nel giardino di casa Negri a Casale (BCCM/FN, sc.B20) e da una ripresa stereoscopica datata 1898 (BCCM/ FN, sc.E13) in cui i due inglesi sono ritratti a Camino insieme a Cesare Coppo, amico comune i cui congiunti (la moglie e il figlio Angelo) visiteranno Butler a Londra proprio nel 1900.  Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.Festing Jones e R.A. Streatfield doneranno a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p.22, nota 3).  Prima di tradurre in inglese l’Iliade (1898) e l’Odissea  (1900) Butler aveva pubblicato The Authoress of the Odissey London: Longmans, 1897, libello nel quale sosteneva che l’autrice fosse una sacerdotessa trapanese che si nasconde nel racconto nel personaggio di Nausicaa: “un altro modo di dare l’assalto al mito, di riportare l’opera dell’uomo sul piano disincantato, casalingo, irritante e libero del reale.” (Drudi Demby 1993).

[10]Butler 1888 (trad. it. 1894, p.299). In Negri 1902, p.43 l’opera è  attribuita a Paolo Giovenone.

[11]Negri 1902, p.33. Nello stesso anno erano state fotografate da S. Pia, vedi Nota 4. Le due vetrate, che nel 1914 si trovavano nei locali della Amministrazione del Sacro Monte,  passarono poi ai Musei Civici di Torino.

[12]Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8-9-10 ottobre 1900, pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani et alii. Il fascicolo costituisce il primo esempio di quella lunghissima serie di pubblicazioni ibride, tra  foglio devozionale e  guida turistica, che verranno pubblicate a Crea nei decenni successivi, sovente senza variazioni sostanziali di contenuto né testuale né iconografico. Limitatamente a quelli in cui compaiono diverse edizioni del testo di Negri ricordiamo: Pel pellegrinaggio a Crea. Nel Giubileo dell’Immacolata. CasaleMonferrato: Tip. G. Pane, 1904;  Crea. Guida Storico-artistica. Casale Monferrato: Tip. Massaro, 1908;  Crea. Storia -Cronologia – Arte – Culto. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta G. Pane, 1913; Il Santuario di Crea. Guida storico-artistica edita in occasione delle feste dell’anniversario della nuova Incoronazione. Crea 2-3 agosto 1914. Casale Monferrato: Tip. G. Pane, 1914. Lo stesso Negri ritornerà su questi temi  in una conferenza per l’Unione Escursionisti di Torino tenuta nel 1908, cfr. Negri 1908, corredandola – come era allora consuetudine – di diapositive che verosimilmente corrispondono a quelle oggi conservate nel Fondo Valle del Parco Regionale di Crea.  Per il ruolo sociale e culturale svolto dall’Unione Escursionisti cfr. Garimoldi 1996.

[13]Negri 1902, p.36 e segg. Le riprese più tarde (BCCM/FN, B13-9, B8-5) vennero realizzate ben oltre la pubblicazione di questo testo, nell’agosto del 1904 dopo i restauri condotti da Bigoni.

[14]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture 1991; Skulptur in Licht der Fotografie 1998.

[15]”Io son quasi d’opinione che il Vecchietto viene da Crea” scrive ad Arienta il 14 ottobre 1888 (Durio 1940, p.60). Alcuni studiosi di Butler (Hotl 1984, p.85) sostengono che il fascino esercitato da quest’opera possa essere meglio compreso se la si considera come una possibile “incarnazione” del vecchio John Pontifex, il  capostipite della famiglia protagonista del romanzo autobiografico The Way of All Flesh  (trai. it. Così muore la carne, a cura di E. Giachino. Torino: Einaudi, 1939) scritto tra 1872 e 1884 ma pubblicato postumo nel 1903.  Molte delle affermazioni e opinioni di Butler verranno ben presto  confutate proprio da Giulio Arienta, col quale egli ammetterà onestamente di “aver fatto tanti errori che ora non posso correggere” (30 giugno 1896) e di dover fare “modificazioni assai gravi nelle opinioni riguardo alle cappelle del Sacro Monte” (21 marzo 1896) (cfr. Durio 1940, pp.112-113). L’immagine pubblicata in Negri 1902, tav.1 si discosta parzialmente dalla ripresa per un diverso taglio della figura e per un tono generale più scuro, che la isola dal contesto.

[16] “Lo rivedo ancora nella buia cappella (…) a rivelarmi  le bellezze in essa racchiuse mediante il lampo del magnesio.” (Gabotto 1925b, p.82)

[17]Il volume ripropone sostanzialmente invariati i due saggi del Canonico Prof. Evasio Colli, parroco di Occimiano, poi vescovo di Acireale,  e di Francesco Negri, già pubblicati l’anno precedente nel “Numero unico” edito dalla tipografia G. Pane di Casale, che nello stesso 1914 pubblica a firma degli stessi autori  e con un apparato fotografico dovuto al sacerdote vercellese Alessandro Rastelli, Il B.Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio (nuova ediz. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna) singolare volume in cui il tema apparentemente agiografico si risolve in un contributo storiografico (Colli) intriso di propaganda sociale e politica fortemente influenzate dalla Rerum Novarum di Leone XIII, proprie anche di altri titoli dello stesso editore-tipografo (La Lega Internazionale dei Lavoratori spiegata al popolo), in accurate e innovative ricerche su temi di storia dell’arte locale (Negri) e in un corretto apparato fotografico dovuto ad un sacerdote dilettante fotografo.

Le prime  cartoline in cui sia registrata la presenza dei frati, comunemente ritratti in meditazione o in preghiera affacciati al pronao della cappella della Salita al Calvario o a quella del Paradiso secondo uno schema iconografico inaugurato intorno al 1865 da Giorgio Sommer con la sua veduta di Amalfi dal Convento dei Cappuccini (cfr. Palazzoli 1981, tav.45; Miraglia, Pohlmann 1992), erano edite dalla stessa ditta Pane, da A.Tabusso e dalle Sorelle Capra di Crea, mentre quelle più tarde (1930ca) sono pubblicate da Fotografia e Arti Grafiche, via Garibaldi 3, Torino, di Guido Cometto,  intimo amico di Padre Giovanni del quale realizzerà anche due intensi ritratti. Alla crescente diffusione della cartolina illustrata è dedicata una breve riflessione nel bollettino del Santuario in cui  dopo averla definita “Simpatica messaggera dei vari sentimenti dell’animo nostro [che] parla al cuore di chi è inviata con una sintesi meravigliosa”  così prosegue: “Ma ahimè, che in mezzo a tanta dovizia di cartoline belle e morali, ne insorgano altre laide e oscene, allettatrici di sensuali istinti forniti di insani desideri (…) Oh! Facciamo una guerra spietata a questa immonda messaggera di Satana” (Passiflora 1922).

[18] Maccono 1923;  Santuario di Crea. Album, 1923.

[19]Nota della Direzione 1923, che così prosegue: “Annunziamo ora che teniamo a disposizione un forte stock di fotografie formato cartolina a L.0,50 l’una. Coloro che desiderano la fotografia del proprio pellegrinaggio si rivolgano alla Direzione di questo periodico indicando il numero di cartoline che desiderano.”  Foto di gruppo di pellegrini erano però già state pubblicate nel 1922.

[20]Col 1 gennaio 1922, a.XIV, n.1 la vecchia denominazione di “Maria. Bollettino del Santuario di Crea”  muta in “La Madonna di Crea. Periodico del Santuario di Crea” e si inizia ad utilizzare la fotografia, prima completamente assente, per modernizzare un canale di comunicazione che fosse strategicamente adeguato a quegli anni cruciali.

[21]P.G. [Padre Giovanni Valle]  1925, p. 69; il testo venne ripubblicato con lievi varianti testuali in Valle 1926.

[22]Padre Giovanni Giuseppe della Croce, questo il suo nome di religioso (Mazzè: 13-5-1872 / Crea: 16-1-1936) inizia a fotografare nei primi anni del Novecento quando è Guardiano al Santuario di Belmonte nel Canavese (1901-1904) e prosegue questa sua attività specialmente a Crea, dove giunge secondo Maccono 1936, nel 1923 ma la data va anticipata di almeno un anno come confermano alcune riprese da lui realizzate  e specialmente l’Album artistico di Crea/ 1922 da lui composto che costituisce il modello della pubblicazione edita nel 1923 (cfr. Nota 17). Anche Luigi Gabotto lo ricorderà affettuosamente con “la sua macchina fotografica, curiosa scarabattola (…) Con la sua rustica cesta fratesca, il cavalletto sotto braccio, la bisaccia a tracolla [che] scalava i colli, si arrampicava sulle piante o su palchi di fortuna senza badare a pericoli ed alla sua povera tunica, pur di trovare un punto di vista e una luce perfetta.” (Gabotto 1936) traducendo in parole l’immagine bonariamente caricaturale, testimoniata da una riproduzione fotografica conservata nei depositi del Museo di Crea,  che di lui ci ha lasciato Carlo Pintor, pittore e restauratore sardo che risulta attivo – come mi ha segnalato Maria Carla Visconti, che ringrazio – nella “Cappella Reale” della Natività di Maria nel 1935 (SBAAP, Archivio corrente, Serralunga di Crea – Santuario).  Padre Giovanni costituisce sinora l’esito più interessante del fenomeno di diffusione della pratica fotografica amatoriale che si registra tra il clero nel  Piemonte centro-orientale (senza dimenticare la presenza torinese di Don Eugenio M. Casazza) nei primi decenni del secolo, che annoverava sinora i nomi di F. Origlia e A. Rastelli entrambi a loro volta in relazione con F. Negri, col canonico Colli e con le edizioni Pane di Casale Monferrato (cfr. Nota  16), secondo una trama di rapporti e intenzioni  culturali ancora tutta da indagare che comprendeva certamente anche Secondo Pia e viveva sotto il segno di un rinnovato interesse della chiesa e del clero per la fotografia – apprezzata da Leone XIII – dopo le riprese della Sindone nel 1898,  ma anche, per quanto riguarda la diffusione delle immagini fotografiche, del modello salesiano, la cui tipografia torinese si era dotata sin dal 1877 di un laboratorio per il trattamento e la stampa delle fotografie (Marchis 1989, pp.230) diretto da Carlo Antonio Ferrero, già titolare a Torino di un Emporio Fotografico specializzato in fotografia scientifica.

[23]Valle 1925, p.69. Questo accenno significativo allo sguardo “distratto” dei visitatori, che non sembrano interessati proprio agli elementi narrativi della macchina teatrale del Sacro Monte (tantomeno al loro valore artistico) ribadisce la centralità del problema delle strategie comunicative messe in atto dal discorso delle cappelle.

[24]Ibidem.  Il ruolo svolto da Negri nella ideazione e prima strutturazione del Museo del Sacro Monte, curiosamente dimenticato dagli stessi necrologi redatti da Gabotto (cfr. Nota 5)  è confermato dal medaglione con lapide commemorativa posto nell’atrio del museo: “ In memoria di / Francesco Negri / che illustrò Crea tanto amata / nei suoi ricordi gloriosi / Nella realtà fulgida di sue naturali bellezze / Gli amici tutti con affetto / Anno 1929”.  Poiché sappiamo da Gabotto 1925, che Negri si era recato a Crea per l’ultima volta il 16 ottobre 1921, vale a dire prima dell’arrivo di Padre Giovanni, dobbiamo supporre che la conoscenza tra i due e il volontario ruolo di prosecutore svolto dal francescano si fondassero su di un rapporto precedente e consolidato  che potrebbe essere fatto risalire al 1899-1901, quando Padre Giovanni era Maestro dei Chierici di Casale,  senza dimenticare però che egli si recava occasionalmente a Crea anche prima di stabilirvisi, come dimostra una sua immagine della cappella del Paradiso datata 19 febbraio 1920 (A9/8).

[25]Valle 1925, p.69. La parte più consistente dell’archivio fotografico di Padre Valle oggi costituisce il fondo omonimo conservato presso la sede del Parco del Sacro Monte di Crea. In attesa di una specifica catalogazione, una sommaria  ricognizione consente di definirne in prima approssimazione la consistenza:  4000ca negativi su lastra e pellicola alla gelatina-bromuro d’argento, nei formati dal 6,5×9 al 18×24, questi ultimi forse da attribuire a Francesco Negri, al quale vanno assegnate anche i 110ca positivi su vetro per proiezione, alla gelatina-bromuro d’argento, nel formato 8,5×10 la cui presenza è connessa all’idea “di far contemplare sullo schermo con nitide proiezioni il complesso storico ed illustrativo di Crea” (Valle 1925, p.70). I circa 1500 positivi (in prevalenza al bromuro e clorobromuro d’argento, in formati compresi tra il 9×12 e il 24×30) sono stati raccolti dallo stesso Padre Giovanni in 10 album insieme ad alcune centinaia di cartoline tipografiche e ad alcune stampe all’albumina ancora di F. Negri, a volte con annotazioni autografe al verso. Le date di esecuzione sono comprese tra 1890ca e 1910ca per Negri e 1920-1935 per Padre Giovanni. Un più ridotto numero di positivi (alcune decine) è stato individuato nel corso di questa ricerca anche tra gli eterogenei materiali conservati nel Museo del Santuario tra i quali si trovano anche alcuni apparecchi fotografici a soffietto da viaggio, un apparecchio fotografico tipo folding e uno tipo box oltre a cinque obiettivi, piastre portaottica e otturatori  che per tipologia ed epoca di costruzione avrebbero potuto appartenere a Francesco Negri, sebbene la loro utilizzazione da parte di Padre Giovanni sia parzialmente documentata da una fotografia datata 1928ca, oggi in collezione privata. Se ricerche successive dovessero confermare la provenienza di questi materiali, si tratterebbe di un ritrovamento di grande rilevanza per la comprensione dei modi operativi di Negri, del quale – come è noto – ben pochi strumenti e apparecchi sono conservati nel Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato.

[26]La nascita e lo sviluppo delle tendenze “artistiche” nell’ambiente fotografico torinese nei primi decenni del nostro secolo sono ormai ampiamente studiati,  cfr. Luci ed Ombre, 1987; Costantini 1990; Miraglia 1990; Fotografia luce della modernità 1991; Mario Gabinio 1996.

[27] “La maggior parte delle fotografie che illustrano questo studio mi vennero offerte dal dott. Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino, e dal padre Gian Giuseppe Valle del Santuario di Crea.” (Gabrielli 1934, p.5, nota 1); mentre l’autrice parla di foto “offerte”,  la recensione comparsa sul periodico del Santuario di Crea sottolinea come “le fotografie che riguardano la Cappella sono opera del nostro ben conosciuto ed amato P. Gian Giuseppe Valle.”  (Recensione 1935, p.27)

 

 

 

Bibliografia citata

 

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Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia luce della modernità 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, saggio storico di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1991

 

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Padre Francesco Maccono, Il Santuario di N.S. di Crea nel Monferrato. Storia popolare. Casale Monferrato: Tip. Miglietta, 1923 (II edizione riveduta e corretta, Casale Monferrato: Tip. di Miglietta, Milano e C. – Succ. Cassone, 1931)

 

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Nota della Direzione 1923

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Palazzoli 1981

Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981

 

Passiflora 1922

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Recensione 1935

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Sansoni 1987

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Sculpter-Photographier 1993

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre – Marval, 1993

 

Secondo Pia 1998

Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia : immagini di Asti e dell’Astigiano , catalogo della mostra (Asti, Archivio storico del Comune, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998), a cura di Gemma Boschiero.  Asti: Comune di Asti, 1998

 

Sertorio Lombardi 1978

Sertorio Lombardi Cristina , a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato  e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Skulptur im Licht der Fotografie 1997

Skulptur im Licht der Fotografie: von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Wien,  Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1997), hrasg. Erika Billeter. Bern : Benteli, 1997

 

Tamburini, Falzone Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Tarra 1890

Giulio Tarra, Il Santuario di Crea. Torino: Tipografia dell’Ateneo, 1890

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, “L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

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Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

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Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

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Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

Bibliografia citata

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Massimo Cova, Due professionisti dell’epoca del collodio: Pietro Poppi e Giorgio Sommer,  in  Alle origini della fotografia: Un itinerario toscano: 1839-1880, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Vecchio, Sala d’Arme, 28 settembre-26 novembre 1989), a cura di Michele Falzone del Barbarò, Monica Maffioli, Emanuela Sesti.  Firenze: Alinari, 1989, pp. 145-147

 

Cozzi 1987

Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 22-31

 

Cresti 1987

Carlo Cresti, Fondo Coppedè: Eclettismo come stile di vita, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 13-21

 

Cristofori 1992a

r.c. [Roberta Cristofori], Anriot, Emilio (1826 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, p. 270

 

Cristofori 1992b

r.c. [Roberta Cristofori], Bertelli, Luigi (1832 – 1916); Fotografia dell’Emilia (attiva 1865 – 1940), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/14, I/15, pp. 118-119

 

Cristofori 1992c

r.c. [Roberta Cristofori], Poppi, Pietro (1833-1914), in Benassati,  Tromellini 1992, pp.  276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna: Le fotografie, 1 : Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, a cura di Franco Cristofori, Giancarlo Roversi.  Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Dall’Armi 1915

Gian Carlo dall’Armi, Il Barocco Piemontese. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915]

 

Emiliani, Zannier 1993

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il Tempo dell’Immagine: Fotografi e Società a Bologna: 1880-1980.  Torino: SEAT, 1993

 

Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Alphonse Bernoud. Firenze: Mauro Pagliai Editore, 2012

 

Ferretti 1980

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle riproduzioni d’arte. In: L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Modena – Firenze: Istituto per i Beni Artistici Culturali Naturali della Regione Emilia-Romagna, Comune di Modena –  Istituto Alinari, 1980, pp. 37-51;  ora in Fotologia”, n. 23-24, 2003, pp. 2-11, con minime varianti al testo

 

Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Fotografia pittorica 1979

Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte sacra in San Francesco: recupero di una documentazione fotografica, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, 1998, pp. 35-41

 

Frisoni 2008

Cinzia Frisoni, Leggere, interpretare, formalizzare: esempi di morfologie delle schede, “Acta Photographica”, 3 (2008), n. 1, gennaio-giugno, pp. 63-69

 

Gaetano Chierici 1986

Gaetano Chierici: 1838-1920, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 15 Febbraio – 31 Marzo 1986), a cura di Elio Monducci. Reggio Emilia: Tipolitografia, 1986

 

Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

Grandi 1983

Renzo Grandi, Pietro Poppi, in Dall’Accademia al vero: La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio-aprile 1983), a cura di Renzo Grandi. Bologna: Grafis, 1983, pp. 212-213

 

Gray 1992

Michael Gray, Il reverendo Calvert Jones in Italia, in Benassati,  Tromellini 1992, p. 69

 

Guidotti 1996

Paolo Guidotti, Gli stemmi del Palazzo dei capitani della montagna a Vergato: una memoria visiva di secoli di storia dell’Alto bolognese (restauro 1992-1994);  “Accademia Clementina di Bologna: Saggi studi ricerche”. Bologna: CLUEB, 1996

 

Hanlon 1997

David R. Hanlon, Inventory of the Sturgis Photographic Collection: a complete listing of mounted photographs, loose prints and the contents of travel albums collected by Russell Sturgis at Washington University.  St. Louis, Mo. : [Washington University], 1997

 

Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890

Hugo Hildebrandt, Wladimir Köppen, Georg Balthasar von Neumayer, Wolken-Atlas – Atlas des nuages – Cloud-Atlas – Moln-Atlas. Hamburg: G. W. Seitz, 1890

 

Hildebrandsson, Osti 1879

Hugo Hildebrandt Hildebrandsson, Henri Osti, Sur la classification des nuages employée à l’observatoire météorologique d’Upsala.  Upsala: Berling, 1879

 

Inchiesta 1873

Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Atti del Comitato dell’inchiesta industriale, III, Deposizioni scritte. Cat. 13, § 2, incisione, Litografia e Fotografia. Roma : Stamperia Reale, 1873

 

L’insistenza dello sguardo 1989

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989),  a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Laudisa 1995

Ilderosa Laudisa, Ritratto di una città: Storia della fotografia leccese dell’Ottocento. Lecce: Edizioni Del Grifo, 1995

 

Le Polley Fonteny 2003

Monique Le Polley Fonteny, Alinari e Giraudon: una storia parallela, in  Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 71-86

 

Lebart 1996

Luce Lebart,  Les archives du ciel, “Études photographiques”, 1 (1996) n. 1,  novembre, pp.56-72

 

Lotze 1984

Lotze: Lo studio fotografico 1852-1909, catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 26 luglio-30 settembre 1984), a cura di Pierpaolo Brugnoli, Sergio Marinelli, Alberto Prandi. Verona: Comune di Verona – Museo di Castelvecchio, 1984

 

Luigi Sacchi 1998

Luigi Sacchi: Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte, 8-28 maggio 1998), a cura di Roberto Cassanelli. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Maffioli 1996

Monica Maffioli, Il BelVedere: Fotografi e architetti nell’Italia dell’Ottocento. Torino, S.E.I., 1996

 

Maffioli,  Quintavalle 2003

Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002, pubblicato in occasione della mostra omonima (Firenze, Palazzo Strozzi, 2 febbraio-2 giugno 2003).  Firenze: Alinari, 2003

 

Malaguzzi Valeri 1893

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa della Madonna di Galliera in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 6 (1893) n. 1, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1894

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il portico di San Giacomo in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 7 (1894) n. 5, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1895

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il convento di S. Michele in Bosco. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1895

 

Malaguzzi Valeri 1896

Francesco Malaguzzi Valeri, La Chiesa della Santa a Bologna, “Archivio storico dell’arte”, serie II, 2 (1896), n. 1-2

 

Malaguzzi Valeri 1899

Francesco Malaguzzi Valeri, L’architettura a Bologna nel Rinascimento. Rocca S. Casciano: Licinio Cappelli Editore, 1899

 

Malaguzzi Valeri 1928

Francesco Malaguzzi Valeri, Il palazzo Zacchia-Rondinini Reggiani, “Cronache d’Arte”, 4 (1928) n. 3, pp. 45-64

 

Marangoni 1999

Fabio Marangoni, Pietro Poppi (1833-1914) fotografo bolognese dell’Ottocento. Tesi di laurea in Storia dell’Arte Contemporanea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in D.A.M.S., relatore Stefano Susinno, a.a. 1998-1999

 

Marangoni 2001

Fabio Marangoni, L’Album delle fotografie della Repubblica di San Marino e regesto dei cataloghi della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 7 (2001), febbraio, pp. 38-47

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Martelli 1867

Diego Martelli, Esposizione triennale di Belle Arti in Bologna,  “Gazzettino delle Arti del Disegno”, 1 (1867), nn. 39, 40, 4, 17 novembre, pp. 306-307, 316-317

 

Matarazzo 2004

Carmela Matarazzo, Le testimonianze del quadraturismo bolognese nelle campagne fotografiche di Poppi, Croci, Alinari e Villani, Tesi di laurea, Corso di laurea in D.A.M.S., indirizzo Arte, relatore Marinella Pigozzi, a.a. 2003-2004

 

McCauley 1994

Elizabeth Anne McCauley, Industrial Madness. Commercial photography in Paris, 1848-1871. New Haven, London: Yale University Press, 1994

 

Melani 1907

Alfredo Melani, L’Arte nell’industria: lavori di legno e pastiglia, lavori di metallo, lavori di pietra, marmo. Milano: Vallardi, 1907-1911.

 

Moggi, Maffioli, Sesti 1994

Guido Moggi, Monica Maffioli, Emanula Sesti, a cura di, Fotografia e botanica tra ottocento e novecento. Firenze: Alinari, 1994

 

Mormorio 2000

Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000

 

Mozzo 2004

Marco Mozzo, Note sulla documentazione fotografica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento tra tutela, restauro e catalogazione, in Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di, Arti e storia nel Medioevo, 4: Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004, pp. 847-870

 

Novara 2006

Paola Novara, L’ attività di Luigi Ricci attraverso i cataloghi del suo laboratorio. Ravenna : Fernandel scientifica, 2006

 

Paoli 2000

Silvia Paoli , Pietro Poppi, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia.  Milano: Electa, 2000, p. 164-165

 

Papone 1999

Elisabetta Papone, Il mare di vetro: Genova e le Riviere tra veduta e documentazione nell’archivio di Alfred Noack, in  Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999) a cura di Giovanna Ginex, Sergio Rebora. Milano: Mazzotta, 1999, pp. 199-213

 

Pedrini 1929

Augusto Pedrini, Il ferro battuto sbalzato e cesellato nell’arte italiana : dal secolo undicesimo al secolo diciottesimo.  Milano: Ulrico Hoepli, 1929

 

Pettina 1905

Giuseppe Pettina, Vicenza. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1905

 

Poppi 1871

Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna/ Palazzo Rodriguez, via S. Mamolo N. 101 primo. S.l. : s.n. [Bologna: Tip. Fava e Garagnani], s..d. [1871]

 

Poppi 1879

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne : Imprimerie Fava et Garagnani, 1879

 

Poppi 1883

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne (Italie): Établissement Typographique successori Monti, 1883

 

Poppi 1888

Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, s.d. [1888]

 

Poppi 1890

Appendice I al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1890

 

Poppi 1896

Appendice 2a al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna : Premiata Tip. L. Andreoli, 1896

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Recine 2006

Francesca Recine, La documentazione fotografica dell’arte in Italia dagli albori all’epoca moderna. Napoli: Scriptaweb, 2006

 

Ricci 1903

Corrado Ricci, La Repubblica di San Marino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903

 

Ricci, Poppi 1888

Corrado Ricci, Pietro Poppi, Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV. Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, 1888

 

Roncuzzi Roversi-Monaco 1992

Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Il ritratto della città, in Benassati,  Tromellini 1992,, pp. 83-87

 

Rubbi 2010

Valeria Rubbi, L’ architettura del Rinascimento a Bologna: passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri.  Bologna: Editrice Compositori, 2010

 

Rubbiani 1886

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna; con atlante di nove tavole. Bologna: Nicola Zanichelli, 1886

 

Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

Un lungo sguardo (2013)

in  Fotografare le Belle Arti : appunti per una mostra: un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 Maggio – 28 Giugno 2013). Roma: ICCD, 2013, pp. 77-80

 

Una lunga teoria per meglio dire, conservando le plurime accezioni del termine, tra materialità e concetto, per rendere ragione della ricchezza testimoniale e culturale restituita dalle centinaia di migliaia di stampe che costituiscono questo fondo fotografico e di cui si presentano alcuni esemplari: quasi degli indizi. Più di un secolo di sguardi portati alle Belle Arti con intenzioni e modi, con pensieri diversi. Già solo la varietà dei temi, considerata cronologicamente, ci descrive quale sia stato il progressivo estendersi delle categorie considerate tra i beni della nazione, a partire da quegli Elenchi “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani […] i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali” di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[1] . In continuità con quell’iniziativa si collocava la prima sistematica ricognizione fotografica a scala nazionale avviata a partire dal 1878, opera sempre di operatori locali altamente qualificati, ai quali dobbiamo, in quel torno di tempo e magari per iniziativa personale, la ricchissima documentazione dei nostri centri ‘minori’, quelli storicamente esclusi dal repertorio canonico del Grand Tour. Quando il Ministero concepirà una nuova campagna, quella che darà forma all’Apulia Monumentale di Romualdo Moscioni nel 1892, l’impianto della ricognizione sarà concettualmente diverso, privilegiando ora l’indagine analitica di un territorio, passando quasi dal concetto di emergenza monumentale alla restituzione del tessuto archeologico e architettonico (non ancora paesaggistico) di un’intera regione. Furono questi, per quel che ci è dato di sapere sinora, alcuni dei materiali che alimentarono quella “Collezione fotografica di Belle Arti” del Ministero di cui ci parlano certi timbri al verso delle stampe, ma certo non i soli, o i primi, poiché la presenza di riprese di più alta datazione (come quelle relative a Roma e Venezia) testimonia una fase antecedente e suggerisce occasioni diverse di raccolta che non siamo ancora in grado di definire compiutamente.

In quegli anni i modi della rappresentazione contemplavano l’alternanza di vedute d’insieme e dettagli architettonici o d’ornato, con rare figure: sempre in posa. La loro presenza assumeva ragioni funzionali di riferimento scalare ovvero simboliche, di romantica meditazione sul fascino dell’antico e delle rovine, mentre solo più tardi, ormai alle soglie del pittorialismo, l’architettura medievale sarà trasformata in scenario per le gesta di una figura d’armigero (come ad Aosta). Il ricorso alla fotografi a era entrato a far parte delle buone pratiche degli interventi di restauro ben prima delle messe a punto normative: memore delle indicazioni di Viollet-Le-Duc[2] piuttosto che di Ruskin, il progettista dell’intervento sul Cortile del castello dei Pio a Carpi  richiese una doppia serie di riprese, metodologicamente rigorosa, che implicava la riproposizione esatta dello stesso punto di vista tanto quanto il rispetto del parallelismo tra i piani, qui ottenuto con i limitati mezzi di uno sconosciuto fotografo. Sono gli stessi anni, tra 1875 e 1877, in cui anche il Ministero raccomandava, in una circolare redatta da Cavalcaselle, di “far cavare una fotografi a prima del restauro” dei quadri più importanti, mentre un’analoga precauzione non sarebbe comparsa nel Regolamento ministeriale del 1879 in merito ai dipinti murali, alcuni dei quali furono oggetto nel decennio successivo di innovative letture fotografi che. Mentre la produzione dei grandi studi (da Alinari a Sommer) non offriva ancora esempi di ricognizione analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne dei cicli o alla ricerca del più accattivante motivo, nel lavoro di Pietro Boeri dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli, del 1886, ci troviamo di fronte a una vera e propria lettura fotografica dell’opera e delle scene narrate. Le sessantaquattro immagini che costituiscono la serie restituiscono volti e gesti a un livello di dettaglio inattingibile dalla comune osservazione diretta, mentre danno conto dei modi e della tecnica del pittore, aprendo inedite possibilità d’indagine alla storiografia artistica come alle metodiche finalizzate al restauro, analogamente a quanto sarebbe accaduto con la campagna realizzata da Achille Ferrario sul Cenacolo leonardesco, riprodotto in scala 1:1 in una serie strabiliante di riprese di grande formato realizzate in previsione dell’intervento di Luigi Cavenaghi del 1907-1908, sviluppando la prima ricognizione condotta nel maggio 1895 per iniziativa dell’Ufficio Regionale lombardo. Resta aperta di fronte a queste produzioni la questione dell’autorialità: in quale misura essa debba essere riconosciuta al fotografo, alla sua sensibilità e accortezza professionale (e imprenditoriale) o se piuttosto non si debba (o almeno si possa) ipotizzare un suggeritore occulto, e magari un regista da ricercarsi necessariamente tra gli storici dell’arte (i primi in senso moderno, dopo la fotografia) o gli studiosi d’architettura. La questione non può che essere affrontata per singoli casi, attendendo la disponibilità di rilevanti messi di dati per provarsi a individuare tendenze: per ora ci sia sufficiente porre il problema. E aggiungerne un altro, forse più ovvio ma non più semplice, che riguardava (e riguarda ancora) la questione della riproduzione dei colori. Senza voler ripercorrere il dibattito ottocentesco sul tema, che in Italia data almeno da Macedonio Melloni (1839), ricordiamo come in questo ambito la presunta fedeltà riproduttiva del medium fotografico sia stata per tutto il XIX secolo (e oltre) ottenuta soprattutto facendo ricorso all’uso raffinatissimo del ritocco manuale, indispensabile per ovviare all’imperfetta resa tonale dei valori cromatici delle emulsioni fotografiche, progressivamente migliorata con l’aggiunta di sensibilizzatori ottici. Da qui le successive campagne di ripresa dei grandi atelier, che tornavano a distanza di anni a riprodurre le stesse opere con lastre e poi pellicole ortocromatiche e infine pancromatiche. In attesa del colore. Nei lunghi decenni della monocromia si perseguiva il miglioramento della resa tonale e della stabilità dell’immagine ricorrendo alle possibilità offerte dalle diverse tecniche di stampa (carta salata, albumina, carbone) o di intonazione (viraggio all’oro), accoppiate all’uso di lastre di grande o grandissimo formato, stampate sempre a contatto, mentre la spettacolare ripresa della volta di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, venne realizzata intorno all’anno 1900 da Anderson con l’allora innovativa emulsione alla gelatina. Solo apparentemente più semplice si presentava il problema della rappresentazione della scultura: dopo gli entusiasmi antiaccademici e positivi di Ruskin, per il quale non si doveva avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni”[3]   o – in Italia – di Biscarra, che nella fotografia riconosceva l’opera “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”[4], le successive generazioni di studiosi, cresciuti con la fotografia, erano ormai in grado di valutarne criticamente gli esiti considerando in particolare l’incidenza del punto di vista (di ripresa) nella restituzione corretta (non: oggettiva) dell’opera.  Wölfflin, certo, che nel 1896 si scagliava contro la “veduta ‘pittorica’ laterale” per privilegiare criticamente la ripresa dal “punto di vista principale”[5], inteso come quello stabilito dall’autore dell’opera. Solo pochi anni più tardi questa concezione ancora fiduciosamente neutrale del processo fotografico sarebbe stata corretta da uno specialista come Santoponte[6] , che richiamò l’attenzione sulla necessità di considerare criticamente la stessa strumentazione adottata, valutando in particolare l’ampiezza dell’angolo sotto il quale l’opera era ripresa, consapevole della necessità metodologica di far coincidere la “prospettiva geometrica” dell’obiettivo con la “prospettiva soggettiva” della percezione diretta. Resta per noi difficile comprendere se e in quale misura gli esempi di documentazione plastica qui presentati avrebbero potuto soddisfare le diverse sensibilità dei due studiosi. Forse entrambi avrebbero considerato con un qualche sospetto la magnificenza spettacolare della resa del gruppo dei Lottatori (Alinari) o del particolare michelangiolesco del capo di Giuliano de’ Medici (Brogi), sentendosi magari più prossimi alla semplice intenzione documentaria di Filippo Lais, che nascose con un’ampia e un poco sommaria mascheratura il contesto in cui era collocata la statua acefala di Afrodite. Il confronto tra queste realizzazioni, pur così diverse tra loro, e la ripresa fortemente scorciata del rosone del Duomo di Orvieto, morbidamente stampata alla gomma, fa emergere con lampante evidenza la distanza fotografica e culturale (registrata e certificata dalla cronologia) che separa queste produzioni. In quest’ultimo esempio la pura intenzione documentaria ha lasciato ormai posto all’interpretazione autoriale e si è ormai operato il ribaltamento: la fotografia (cioè la stampa) è l’opera mentre il soggetto arretra quasi a pretesto. Questa fotografia documenta (anche) altro: la concezione dell’immagine mostra la tensione irrisolta tra l’impostazione modernista della ripresa fortemente scorciata e una modalità espressiva ancora pittorialista, affidata alla stampa ai pigmenti. Nonostante il soggetto sia piegato e quasi sottomesso all’interpretazione autoriale, la fotografia mantiene però integro il proprio valore d’uso documentario, dice qualcosa a proposito dell’è stato della cosa fotografata. Una irriducibile referenzialità di cui dovevano essere ben consapevoli i fruitori coevi se l’accolsero tra i materiali dell’Archivio. Si muovono su questa linea fecondamente ambigua anche le immagini di paesaggio che chiudono cronologicamente questo breve excursus, testimoniando i nessi di una stagione della cultura e della storia italiane in cui la “questione del paesaggio”[7] , si affacciava come soggetto autonomo sia nella produzione fotografica divulgata dalle pagine de “La Fotografi a Artistica”, sia nel più ampio dibattito politico che avrebbe portato alla promulgazione della Legge 778 del 1922 sulla tutela delle “bellezze naturali”, comprese quelle “panoramiche”. Ancora una volta le immagini di quello che a buona ragione possiamo definire un genere ci interrogano sulla loro particolare natura di documento o – meglio – sulla complessità di questa accezione, in cui il puro referente non è che uno dei termini costitutivi, essendo l’altro rappresentato dalle forme culturali della sua manifestazione non meno che della sua ricezione, coeva e attuale. Così le pecore al pascolo che attraversano le paludi della tenuta di Coltano, che in quegli anni rappresentavano uno dei più forti e ricorrenti stilemi di quella fotografia “che sola merita il nome di Arte”[8] , sarebbero poi divenute oggetto degli strali della nuova generazione che si affacciava dalle pagine dell’annuario del 1943 di “Domus”, sospettosa certo anche nei confronti di una veduta come quella di Capo Miseno, costruita avendo ben chiari i modelli delle incisioni ottocentesche ma drammatizzata da un viraggio che accentuava il cielo corrusco di nubi, in un anticipo di tragedia.

 

 

Note

[1] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”, avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.”, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”.

[2] L’opinione che “la photographie présente cet avantage de dresser des procès-verbaux irrécusables et des documents qu’on peut sans cesse consulter”, espressa da Eugene Viollet-Le-Duc nella voce Restauration del suo Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle, VIII. Paris:Librairies Imprimeries Réunies, [1860], pp. 33-34, doveva essere ben nota e condivisa dall’ing. Achille Sammarini, responsabile del restauro.

[3] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, II edizione. Sunnyside – Orpington, Kent:  George Allen, 1883, pp. 21-22.

[4] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica: Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia : rivista mensile di belle arti”,2  (1870), IV, p. 58.

[5] Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008.

[6] Giovanni Santoponte, Sulle applicazioni della fotografia all’archeologia, comunicazione presentata al III Congresso archeologico internazionale di Roma, 1912, ora in Id., Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Casa Editrice Italiana, 1913, pp. 36-48 (38).

[7] “È lecito che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”, Giovanni Rosadi, Per la difesa delle bellezze naturali, in Id., Difese d’arte. Firenze:  Sansoni, s.d. [1921], pp. 51-61 (55).

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, gennaio, pp. 4-5.

Mostrare i documenti: una questione diplomatica (2012)

in  Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, pp. 175-193

 

In memoria di Roberto Signorini

 

 

 

Una finzione è un documentario, ed è anche la realtà.

Nobuyoshy Araki, 2004

 

La conoscete anche voi, ne sono certo, la sensazione che si prova: mostrare i documenti è sempre perturbante. Specialmente quando questa richiesta ci è rivolta (magari) dal rappresentante di una qualche autorità (magari) in uniforme: spersonalizzato. Un brivido freddo, umido, per quanto leggero – non più di un fastidio – ci scivola lungo la schiena come la bava di un cane pavloviano. Affiora un senso di colpa e di pericolo insieme. Nasce dal confronto, impari, tra due opposti: la mia identità è indagata, messa in dubbio da qualcuno che nasconde la propria.

Inevitabile il disagio: in fotografia vengo così male!

Non mi riconosco e mi perdo, forse perché – come ha scritto il Barthes più lucidamente letterario – “non appena io mi sento guardato dall’obiettivo (…) mi trasformo immediatamente in immagine”[1], abdico alla mia identità, alla mia complessità quindi, a favore di un canone. Dev’essere per questo che “in fondo, una foto assomiglia a chiunque, fuorché a colui che essa ritrae”[2], ovvero che “a rigor di termini da una fotografia non si capisce mai nulla.”[3] È per questa consapevolezza, anche. È per questa somiglianza impossibile, che pare vanificare ogni sforzo e ogni eventuale volontà di collaborazione, che mostrare i documenti costituisce un problema, una vera e propria questione che supera i rituali della diplomazia per chiamare in causa le ragioni della diplomatica[4] e apre il fotografico vaso di Pandora della funzione documentaria, del nesso possibile tra somiglianza e testimonianza.

Le riflessioni che seguono non riguardano perciò, almeno non principalmente, lo “stile documentario” (Evans), né l’ “arte del documento” (Lugon) o le “platitudes” studiate da De Chassey[5]; semmai quei documenti che assumono la forma di fotografie, cioè tutte le fotografie (analogiche). Vorrei ragionare intorno alla Fotografia come Documento, e del cosa, sapendo che  “Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, ‘prendere posizione’ riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità.”[6]

È arduo se non impossibile, forse non solo qui, ripercorrere le vicende che hanno segnato il formarsi e il modificarsi del “pregiudizio realista”[7], del carico documentario della fotografia; dell’espiazione di quel peccato originale da cui da sempre i fotografi (e i critici, dopo) hanno tentato di liberarla e di liberarsi utilizzando le più diverse strategie, poiché anche solo tentare di metterne a punto la successione costituirebbe un impegnativo progetto storiografico.  Basti forse provarsi a dire che tutte queste strategie si sono rivelate necessarie e inevitabili quanto inutili. Inefficaci: perché la referenzialità costitutiva della fotografia resiste a ogni tentativo di negarla. Inevitabili e storicamente necessarie perché è negli sforzi compiuti per accogliere come per superare questa referenzialità sorda che ha preso corpo, che si è mobilmente definito non solo il campo dell’espressività del mezzo e della conseguente riflessione intorno alla definizione della figura e del ruolo dell’ autore[8], ma anche l’insieme dei discorsi intorno e sulla natura stessa della fotografia. Per gran parte della cultura del XIX secolo questa è stata considerata testimonianza fedele del reale[9]; questo era considerato il suo maggior pregio, il suo massimo valore d’uso: il suo dato ‘positivo’. Se ne discutevano i modi semmai, non i fondamenti. Nella metafora quasi animista di François Arago ( 1839) le fotografie erano considerate “immagini [che] creavano sé stesse”; “specchi dotati di memoria” per Oliver W. Holmes (1856). Ancora all’inizio del XX secolo la convinzione di uno studioso raffinato come Peirce era che le fotografie fossero molto istruttive “poiché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente come gli oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali da dover corrispondere punto a punto alla natura.”[10] In questa pura constatazione fenomenologica, nell’inedito paradigma della costitutiva assenza di autorialità risiedeva il loro confortante statuto di prova e – ancor prima, ancora adesso – il loro insostituibile valore d’uso. Non toccate da mano d’uomo: non manipolate. È su queste basi che la fotografia venne quasi immediatamente accolta nel laboratorio dello scienziato come nella camera di sicurezza del criminologo; nello studiolo dell’architetto restauratore o dello storico dell’arte.

Considerando che “nella sua definizione classica, la fotografia non è altro che un processo di registrazione, una tecnica di iscrizione, in un’emulsione a base di sali d’argento, di un’immagine stabile generata da un irradiamento luminoso”[11], e che l’accezione diplomatica di documento è quella di “una cosa normalmente mobile (…) prodotta su un supporto (…) tramite un mezzo scrittorio (…) o un dispositivo [che è a sua volta, in senso neppure troppo lato, un mezzo scrittorio] per fissare l’immagine o la voce o, contestualmente, l’immagine e la voce”[12], allora possiamo non solo riconoscere che tutta la cultura del XIX secolo ha legittimamente considerato la fotografia come la più soddisfacente forma di documento visivo, ma anche provare ad avanzare timidamente l’ipotesi che una fotografia, quindi ogni fotografia sia di per sé un documento anche in senso diplomatico archivistico.  La contrapposizione ad alcune recenti posizioni di radicale revisionismo antibarthesiano non potrebbe essere più netta: “poiché la fotografia non è per sua natura un documento” – ha scritto André Rouillée – “il documento non sarebbe in grado di costituire una qualsivoglia essenza o noema della fotografia. Se la fotografia non è per sua natura un documento, ogni immagine racchiude comunque un valore documentario che, lungi dall’essere definito e assoluto, deve essere considerato nella sua variabilità nel contesto di un regime di verità; un regime documentario.”[13]

Resta per ora inevasa l’altra fondamentale questione del cosa una fotografia documenti: “Evidentemente il documento interessa per il suo contenuto, per le informazioni che tramanda, tuttavia le notizie che vi sono rappresentate o descritte richiedono in chi le confeziona delle capacità tecniche che si traducono in canoni di rappresentazione che a loro volta possono costituire oggetto di analisi essendo essi stessi testimonianza diretta dell’attività di documentare.”[14] La definizione diplomatica orienta inevitabilmente il nostro interesse verso il riconoscimento del contenuto e delle informazioni che il documento fornisce, ma ci invita anche a sfuggire al rischio del sinonimo, a scavare una piccola rete labirintica di solchi intermedi, interstiziali. In una distinzione che è più semplice verificare in termini empirici possiamo allora far corrispondere “il contenuto” al dato referenziale, alle notizie “rappresentate o descritte”, mentre nella più generale categoria delle “informazioni” possiamo comprendere tutti gli elementi canonici (storici, culturali, materiali) che determinano la forma, che informano la rappresentazione del contenuto stesso. Da ciò consegue che gli elementi di maggiore ‘valore documentario’ possano essere costituiti  proprio dalle relazioni tra contenuto e canone, tra rappresentato e rappresentazione, connotando in senso più ricco e complesso lo stesso concetto di documento.[15] La verifica sperimentale di questi nessi raggiunge tensioni problematiche particolarmente elevate, genera illuminanti corto circuiti in grado di verificarne la tenuta, quando rappresentazione e rappresentato vengono a coincidere, quando entra (letteralmente) in campo il soggetto autore, non troppo implicito antagonista della neutra oggettività della Natura nello spietato conflitto per la conquista della Verità sotto specie fotografica. Sin dalle origini la sua costitutiva esclusione aveva rappresentato il fondamento, e la garanzia, dello statuto di prova dell’immagine fotografica[16] ovvero, a voler essere precisi, del fototipo, e conseguentemente la negazione di ogni possibilità espressiva, ponendo la pratica e la produzione fotografica al di fuori di ogni possibile paradigma artistico. Non si trattava però di una verità assiomatica o sperimentale, semmai di un luogo comune, per quanto efficace.  Si consideri uno dei progetti più felicemente sofisticati di quella stagione: il notissimo autoritratto di Hippolyte Bayard intitolato Le Noyé, datato 18 ottobre 1840, del quale si conoscono tre varianti[17]. La suprema efficacia di questo modello di strategia comunicativa si fondava proprio sulla consapevolezza e sull’appropriato e conseguente uso narrativo della convenzione in base alla quale il documento (qui: la fotografia) assume validità di prova, accresce il proprio valore testimoniale in misura direttamente proporzionale alla scomparsa (della figura individuale) dell’Autore. E allora: quale miglior ritrarsi del suicidio.  Al verso di una di queste varianti[18] si può leggere l’altrettanto famosa lettera: “La salma che qui vedete è quella di M. Bayard, inventore del procedimento che vi è appena stato illustrato, e di cui vedrete presto i meravigliosi risultati. (…) Il governo che ha sostenuto M. Daguerre più del necessario, ha dichiarato di non essere in grado di fare qualcosa per M. Bayard, e l’infelice si è gettato nel fiume per la disperazione. Oh, incostanza umana! Per molto tempo artisti, scienziati e la stampa si sono interessati a lui, ma ora che giace da giorni alla Morgue nessuno l’ha riconosciuto o ha reclamato la sua salma! Signore e signori, parliamo d’altro in modo che il vostro senso dell’odorato non venga offeso perché, come probabilmente avrete notato, il volto e le mani hanno già cominciato a decomporsi. H.B., 18 ottobre 1840.” L’eccezionale interesse di questo insieme documentario risiede non solo (non tanto?) nelle diverse informazioni contenute, quanto nelle questioni che pone, per la chiarezza esemplare con cui mostra quanto la funzione documentaria di questa nuova categoria di immagini avesse sin dalle origini basi ontologiche e convenzionali a un tempo. Accogliendo l’autenticità del testo che la correda, siamo legittimati a dire che questa è proprio la prima fotografia destinata a valere come prova. Subito vera e falsa. Esemplare di tutti i discorsi che poi verranno fatti e si potranno fare; per questo assume un valore paradigmatico. Per questo bene si presta a essere studiata con gli strumenti analitici della diplomatica, nel cui ambito “lo studio del documento conduce inevitabilmente a porre in rilievo il rapporto tra la natura dell’atto giuridico e la forma dell’atto, e a evidenziare – astraendo dalla storicità del contenuto dell’atto – le connotazioni formali del documento.”[19] L’analisi diplomatica dei suoi caratteri[20] intrinseci (autore, data, contenuto) ed estrinseci (materia e tecnica, ‘stile’ e connotazioni culturali), mostra quanto alcuni possano essere dati per solidamente acquisiti (autore, data, materia e tecnica), mentre altri restano da considerare e circoscrivere; tutti per certi versi relativi alla definizione del contenuto informativo, pur avvertendo che ciò non necessariamente implica un giudizio di verità: non “se dice il vero”, ma “cosa dice, e perché”. È innegabile che l’intenzione dell’immagine apparente (non dell’autore) fosse esplicitamente documentaria, fondata sull’evidenza che ciò che si dava a vedere aveva tutte quelle caratteristiche – immediatamente recepite – di oggettività naturale, attribuite a ciò che oggi chiamiamo fotografia. Questa sua capacità persuasiva era poi ribadita, confermata e certificata dal titolo. Anche la semplicità della ripresa e l’assenza di manipolazioni evidenti, propria della fotografia delle origini, qualificavano (inevitabilmente?) lo stile come documentario; ciò che ulteriormente confermava l’osservatore del suo valore di prova. A questo statuto di traccia indiziaria si accompagnava però, senza contraddirlo, una sintassi compositiva tutta interna alla tradizione culturale dell’Accademia artistica, dove l’iconografia richiamava (se non proprio citava) La mort de Marat  di Jacques-Louis David (1793).  L’intenzione narrativa (dell’autore, quindi) era invece pragmatica (propositiva, pubblicitaria): tendeva a convincere, a costituirla – diremmo oggi – anche come immagine “agente di storia”. Questa somma di ragioni indica come questa fotografia sia sotto un certo rispetto autentica (prodotta intenzionalmente dall’autore dichiarato) e per un altro aspetto falsa, poiché ci inganna sulla realtà che pretende di mostrare. Questa attestazione di falsità è però vera e costituisce (non troppo paradossalmente) l’esito e la conseguenza del testo (che possiamo pensare come didascalia, per quanto insolitamente lunga) redatto dallo stesso autore, che mina la veridicità dell’immagine nel preciso momento in cui la propone come testimonianza documentale. La fotografia non riproduce (il mondo esterno) ma produce (messe in scena del mondo) e ciò nonostante ci consente di interpretarla come testimonianza o almeno come indizio. Non solo di dire che ci sono certamente stati un tempo e un luogo in cui una persona che nominiamo H.B. si è posta in posa di fronte all’obiettivo, ma anche quali fossero le sue sembianze. Non solo quale fosse la sua strategia politica, ma anche la sua cultura visiva; quale la sua competenza (tecnica, espressiva), quali gli oggetti di cui si circondava, quale forma avesse il cappello che usava per i lavori in giardino. Ennesima prova, se mai se ne sentisse il bisogno, di quanto il contenuto del documento fotografico, e l’interesse che può determinare in noi, non possa mai essere ridotto al puro referente fisico, sebbene senza di questo, qualunque sia il modo della sua restituzione, non si dia fotografia.  La pura referenzialità (indicale e primaria, fondante e irriducibilmente resistente) risulta inscindibilmente marcata (ma non eliminata) da connotazioni più o meno consapevoli o intenzionali (iconografiche, simboliche) che non possono che essere di tipo storico culturale e – nello specifico – artistiche.[21] Appartenenti cioè alla storia e alla cultura delle immagini. È questo che rende immediatamente problematica e riduttiva la nozione positivista di documento applicata alla fotografia, ma soprattutto dimostra come sin dalle origini l’antinomia documentario/ artistico, documentario/ narrativo, o documentazione/ finzione che dir si voglia, si dimostri inefficace se non inconsistente, forse semplice eredità della reazione modernista al perdurante pittorialismo. Negli stessi anni (1887-1908) in cui questo aveva cercato di ridurre al limite della riconoscibilità la relazione referenziale della fotografia, accentuandone le valenze simboliche e allontanandosi dal ‘fotografico’, Charles Peirce dava forma logica alla concezione che le aveva assegnato la cultura del XIX secolo[22] mettendo a punto quella teoria del “segno in relazione al suo oggetto” che tanto avrebbe influito decenni più tardi sulla definizione semiotica della fotografia e sull’analisi della sua funzione documentaria, sebbene la compresenza di indice e icona aprisse già allora lo spazio alla pratica artistica.[23] “Una fotografia è un indice avente un’icona incorporata in sé” affermava Peirce nel 1903[24] precisando e arricchendo alcuni cenni precedenti.[25]  “Il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.” E inoltre: “Il valore di un’icona consiste nel suo esibire i tratti di uno stato di cose considerato come se fosse puramente immaginario. Il valore di un indice è che ci assicura di fatti positivi. Il valore di un simbolo è che serve a rendere razionali il pensiero e la condotta e ci consente di predire il futuro. Spesso sarebbe desiderabile che un representamen esercitasse una di queste tre funzioni con esclusione delle altre due, o due di esse con esclusione della terza; ma i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile.”[26]

Sono queste le condizioni che consentono di dire che la fotografia è un esempio perfetto di segno, nel quale la funzione documentaria non può essere ridotta al suo valore indicale, ma neppure che questo può essere escluso quando prevalgano le componenti o le funzioni iconiche e simboliche, se lo spazio narrativo abitato dall’autore assume una dimensione preminente. Circa gli stessi anni, indizi sparsi di una concezione della fotografia meno manichea di quella modernista si ritrovano nelle affermazioni, magari ingenue e teoreticamente poco consapevoli, di Alfred Liégard,  promotore per la Francia della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, per il quale “l’arte e il documento possono, anzi devono, intendersi sul terreno della fotografia (…). Il fotografo artista dovrebbe disdegnare il documento? Per quanto mi riguarda non lo credo. Nulla gli impedisce di trattare artisticamente il documento.”[27] Ma anche, sul versante della critica politica dell’indice, nelle parole di Bertold Brecht per il quale “una semplice restituzione della realtà [meno che mai] dice qualcosa sopra la realtà. (…) La realtà vera è scivolata in quella funzionale.”[28]  Paradigmatico in tal senso il caso delle riprese aeree, figlie del primo conflitto mondiale, quando guerra e fotografia si allearono per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo, che ben esemplifica i termini della questione documentaria, rendendo evidenti i problemi che ci sono in ogni fotografia. L’automatismo di ripresa, l’esclusione programmatica di ogni intenzione autoriale rendevano ciascuna di queste immagini l’esempio più puro di documento, sebbene risultassero di fatto incomprensibili, cioè prive di qualsivoglia valore documentario (e strategico),  a meno di possedere gli strumenti adatti per la loro decifrazione. D’altro canto offrivano quella “esperienza più completa dello spazio (…) uno spazio in tutte le sue dimensioni, uno spazio senza limitazioni”[29] che tanto avrebbe inciso sulla cultura visiva e sulle avanguardie di primo Novecento, dal Futurismo alla Nuova Visione almeno. Reagendo alle manipolazioni della stagione pittorialista, all’equivoca, ingombrante presenza dell’Autore nella determinazione dell’immagine finale, è stato – come è ben noto – il modernismo a recuperare criticamente il valore positivo, specificamente fotografico, della rilevanza del mezzo e del dispositivo, con l’intenzione “di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva”[30], nella convinzione che potesse “essere assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.”

Da queste posizioni, ampiamente condivise dalla cultura fotografica occidentale tra le due guerre, prende l’avvio la questione dello stile documentario, il cui termine qualificativo lo stesso Walker Evans considerava “ingannevole”[31], ma che ha influenzato intere generazioni di autori, rappresentativi di quella che De Chassey ha definito come fotografia “piana”.  “Per funzionare come documenti – ha scritto Lewis Baltz – le fotografie devono innanzitutto persuaderci che esse descrivono correttamente e obiettivamente il loro soggetto; devono in primo luogo convincere il loro pubblico [sic] che si tratta veramente di documenti, che il fotografo ha pienamente utilizzato la propria capacità di osservazione e che ha messo da parte la sua immaginazione e i suoi ‘a priori’.[32] (…) Idealmente il fotografo dovrebbe essere invisibile e il mezzo trasparente; per lo meno è a questo livello di obiettività cui io aspiro. Io voglio che il mio lavoro sia neutro, diretto e libero da ogni intenzione estetica o ideologica affinché le mie fotografie possano essere viste come delle dichiarazioni fattuali sul loro soggetto piuttosto che come espressioni di ciò che io ne penso.”[33] La poetica della (presunta) “cancellazione del soggetto agente”, che si riappropria criticamente delle posizioni ottocentesche attraverso W. Evans, costituisce per Olivier Lugon “la regola fondamentale dello stile documentario”[34], ma si fonda a mio parere su di una concezione semplicistica e fondamentalmente errata.  Non sono infatti i modi (quindi neppure lo stile) a determinare lo statuto di documento di una fotografia, ma il suo essere (originata da) un fototipo[35], comunque consapevoli che questo, come ogni altro documento del resto, non possa mai essere letto come una “dichiarazione fattuale” della realtà: semmai di una realtà o – meglio – di una sua particolare porzione e manifestazione[36]. Come ha sarcasticamente dimostrato Duane Michals: There Are Things Here Not Seen in This Photograph, “Ci sono cose che non si vedono in questa fotografia: La mia maglietta era madida di sudore. La birra era buona, ma io avevo ancora una gran sete. Un ubriaco stava parlando a voce alta di Nixon con un altro. Io osservavo uno scarafaggio passeggiare lentamente lungo il bordo di uno sgabello. Dal jukebox, Glenn Campbell incominciava a cantare Southern Nights.  Avevo bisogno di andare in bagno. Un derelitto mi si stava avvicinando per chiedere soldi. Era ora di andare.”

Quella che per i critici delle origini era quasi solo una pura constatazione fenomenologica, e per i modernisti una rivendicazione estetica, è stata assunta da molti autori novecenteschi di tradizione, diciamo così, ‘topografica’ come posizione critica, senza rendersi conto (o non essendo interessati al fatto) che il funzionamento documentario è indifferente allo stile; che lo stile documentario è solo uno dei possibili; che ogni fotografia  (diversamente e più di ogni altro prodotto culturale) ha un elevato contenuto testimoniale dovuto al suo inevitabile carico referenziale. È dal seme della sua determinazione ontologica che germogliano poi le intenzioni, le condizioni e i condizionamenti del contesto e dell’autore, vale a dire tutti quegli ulteriori elementi che ne determinano/ configurano il senso storico e il valore documentario complessivo.[37]  Anche per questo risulta oggi difficile concordare con W. Evans quando affermava che “un esempio di documento in senso letterale sarebbe la fotografia di un crimine scattata dalla polizia. Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”[38] Di questa abusata citazione non mi pare possibile condividere la sostanza, e non solo perché la concezione di documento qui espressa appare irrimediabilmente datata e riduttiva per gli anni in cui è stata espressa (1971); non solo perché ogni opera (non solo fotografica, ovvio) può essere (usata come) documento, ma anche e soprattutto perché quando questa è una fotografia essa costituisce inevitabilmente un documento almeno nel suo più riduttivo senso referenziale, di segno indicale scalato nel tempo (“è stato”). Di più, e ribaltando in un qualche modo le convinzioni comuni, la storia della fotografia ci mostra come l’idea di documentario e la stessa realizzazione del documento non abbiano mai escluso la possibilità di interventi da parte dell’autore. La funzione documentaria convive da sempre con manipolazioni più o meno rilevanti, configurandosi come intenzione che accoglie i valori testimoniali di registrazione di ogni ripresa fotografica.  Si pensi ad esempio alla pratica di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle riprese ottocentesche: per ovviare all’inconveniente non c’era buon fotografo che non si dotasse di “numerosi negativi di nuvole nei quali la posizione del sole varia di molto; [così] accade che qualcuno di questi negativi si adatti perfettamente alle condizioni di luce del momento in cui opero normalmente. Quel cielo viene perciò riprodotto in più vedute.”[39] Tecnicamente: un vero e proprio fotomontaggio, non diverso (neppure nelle motivazioni generali di efficacia dell’immagine finale) da quelli che ha realizzato ad esempio un autore di grande maestria documentaria come Vittorio Sella, sia in alcune delle sue notissime immagini di montagna, aggiungendo nuvole o figure, sia in un contesto apparentemente meno problematico quale è quello della documentazione etnografica, quando, ad esempio, è intervenuto incollando la figura di un galletto per riempire il primo piano di una scena di paese.[40] Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà, se necessario spettacolarizzandola. Così resta difficile credere che “affinché [una fotografia] possa ‘passare’ per foto documento è necessario che non appalesi, a livello di traccia dell’enunciazione, il suo essere un fotomontaggio.”[41]  Condizione forse necessaria (a patto di ben definire cosa si intenda per fotomontaggio), ma certo non sufficiente, e comunque problematica, essendo determinata dalla doppia competenza del produttore e del fruitore. Direi piuttosto che è indispensabile che il suo contenuto iconico sia verosimile, cioè coerente con le aspettative legittimate dall’enciclopedia di conoscenze del fruitore stesso. È quindi una questione di ricezione e di giudizio, che rimanda all’esperienza; che si fonda – prima di ogni altra possibile valutazione – sul riconoscimento di quell’immagine come fotografia e sull’accettazione delle sue implicazioni.

Riconsideriamo allora un elemento centrale di una delle già citate affermazioni di Peirce:  “il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.”[42] Questo sapere, questa consapevolezza (per quanto problematica), questo riconoscimento è il fondamento della funzione del medium: “in ogni atto di ricezione di una fotografia vi è un momento iniziale che consiste nell’identificazione dell’immagine come un’immagine fotografica. È dal realizzarsi di questa identificazione che in gran parte dipende la costruzione del segno. Se infatti essa manca, l’immagine non sarà tematizzata come indicale: la si guarderà come semplice icona analogica.”[43] Riconoscendo quell’immagine come fotografica sono indotto a credere all’è stato di ciò che raffigura; a interrogarmi non sulla sua esistenza, certificata proprio dalla fotografia, ma sulla sua identità. Credo però che non si possa neppure escludere l’inverso: se la forma analogica, se l’icona non viene riconosciuta, se non si riesce a individuare un possibile referente poiché nessuna somiglianza è colta, possono non darsi ragioni per stabilirne la natura di indice. Nella nota definizione di Schaeffer la fotografia è quindi un “segno di ricezione”, il cui riconoscimento, la cui esistenza significante è condizionata dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché : una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica”[44], sebbene questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”  Riportando queste considerazioni al nostro discorso possiamo provare a dire che la possibilità di accoglierne il valore documentario (non il suo ‘stile’) dipende dalla duplice capacità del recettore di identificarlo in quanto fotografia, cioè di comprenderne la natura fondante e primaria di indice, e di riconoscerne il referente, almeno in termini generali poiché – come ha ricordato Paul Ricoeur – “affinché l’impronta sia segno di qualcos’altro, è necessario che in qualche modo indichi la causa che l’ha prodotta.”[45]

Dalla necessità di considerare come costitutiva (e produttiva) questa tensione tra indice e recettore derivano due conseguenze metodologiche: A- L’orizzonte disciplinare peirciano fornisce la strumentazione teorica necessaria per comprendere perché la fotografia documenta. B- Poiché la fotografia è anche “segno di ricezione” di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[46], quello stesso orizzonte risulta insufficiente e di necessità deve essere esteso facendo ricorso alle scienze storiche, all’interrogazione della fotografia in quanto prodotto culturale. Il passaggio dalla Fotografia alla fotografia implica il riconoscimento della connessione logica tra il suo processo generativo (e conseguente funzionamento semiotico) astorico, e la sua manifestazione concreta, oggettuale e temporale: storica. “Il significato di ogni fotografia – ha ricordato Geoffrey Batchen – è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che ] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa.  Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto storico politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria: impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.”[47] Questo porta a dire che “la mobilità semiotica della fotografia richiede certamente una storicizzazione altrettanto mobile.”[48] Semiotica e storiografia sono quindi i due ambiti teorici e metodologici solo apparentemente inconciliabili che ci consentono di dare sostanza attuale alla definizione di documento stabilita dalla diplomatica, indicando percorsi di ricerca e metodi che consentano di rispondere infine alla domanda cruciale del ‘cosa’ un documento significhi, di quali diversi ordini possano essere le informazioni che lo qualificano. A questo proposito può essere utile riflettere sulle corrispondenze esistenti tra la definizione peirciana di segno e quella di documento così come si è andata costituendo in ambito filosofico e storiografico francese nella seconda metà del Novecento. Sappiamo dalla semiotica che i segni puri sono estremamente rari, anzi “i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile”[49], e – analogamente – che i documenti non registrano meccanicamente il dato o l’evento, non costituiscono la descrizione oggettiva di un’ entità ‘reale’, ma sono essi stessi intrisi di valori simbolici e determinati da canoni rappresentativi. “La storia è ciò che trasforma i documenti in monumenti” ha scritto Foucault[50], aprendo lo spazio a quella revisione profonda del concetto, poi compiuta da Jacques Le Goff: “il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca, della società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche successive (…) e la testimonianza e l’insegnamento che reca devono essere in primo luogo analizzate demistificandone il significato apparente. (…) Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di sé stesse. Al limite non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo.”[51] Più in particolare – come ha ricordato Paolo Fossati – “è inutile fingere innocenza, distinguere tra creatività e documento (e non c’è idea peggiore che provarsi a farlo): bisogna manovrare, lì in mezzo”[52], rifiutando tra le altre cose la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto del lavoro fotografico, dell’opera di un fotografo.[53]

Come non esiste un segno che sia puro indice, una fotografia che sia puro “atto-traccia” al di fuori del momento della sua esposizione[54], analogamente non esiste un documento oggettivo. Per questo possiamo dire che ogni fotografia, in quanto segno nella sua pienezza, è un documento/ monumento ovvero

dati: I = indice; D = documento; M = monumento; S = simbolo

si può scrivere: I : D = S : M

che sviluppando diviene: I/ S = D/ M

che traduce in formula algebrica (affettuosamente dedicata a Peirce – Le Goff) le considerazioni espresse in precedenza. In questo senso credo si possa dire anche che ogni fotografia è un buon esempio di “semioforo, ossia un oggetto visibile investito della significazione”, secondo la nota definizione di Pomian, accompagnata però dalla precisazione necessaria che questo carattere non definisce tanto un’essenza quanto una funzione, poiché “i semiofori si distinguono dai sistemi di segni soprattutto per il fatto che nel loro caso la storia è il necessario complemento della teoria, e questo non perché rimandino a un presunto sostrato metafisico della continuità ma perché, essendo visibili e quindi caratterizzati da estensione e temporalità, si trasformano, si inabissano, cambiano di  posto e di significato sempre restando semiofori, oppure perdono la loro funzione, non circolano più e, se non vengono abbandonati come residui, cominciano a venir utilizzati come cose.”[55]

Così facendo assegniamo a ogni fotografia, un doppio valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del referente, rispetto alla quale il valore documentario prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Dal valore delle fotografie come documenti/ monumenti deriva la necessità di andare oltre la considerazione per la semplice registrazione del dato referenziale per prestare attenzione, per interrogarle (e interrogarsi) sui canoni e sui modi della rappresentazione; di dare un senso alla scelta dei temi, assegnando la stessa importanza alle presenze come alle assenze. Sono queste le ragioni che devono portare, anche per la fotografia, a considerare la singola immagine solo in senso relativo per collocarla all’interno di una serie, portando alla luce la rete di relazioni che questa sottende e implica.

 

 

Note

[1] Roland Barthes, La chambre claire: Note sur la photographie. Paris: Cahiers du Cinéma – Gallimard – Seuil, 1980 (trad. it. La camera chiara: Note sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1980), p. 12. Sulla tenuta delle posizioni espresse in questo notissimo testo, forse il più influente e citato saggio sulla fotografia degli ultimi decenni, oggetto in anni recenti di reazioni tardivamente isteriche, si vedano gli studi raccolti e l’ampia bibliografia citata in Geoffrey Batchen, ed., Photography Degree Zero: Reflections on Roland Barthes’s Camera Lucida. Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2009.

[2] Barthes 1980,  p. 103.

[3] Susan Sontag, On Photography. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1977 (trad. it. Sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1978, p. 22).

[4] Intesa secondo la definizione classica come scienza che si occupa del documento in sé, dei suoi elementi formali e contenutistici allo scopo di verificarne e mantenerne nel tempo l’autenticità. Utili riferimenti al dibattito intorno alle relazioni fra la fotografia e la diplomatica sono stati indicati da Tiziana Serena, L’archivio fotografico. Possibilità derive potere, in Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio (Venezia, 29 ottobre 2008), a cura di Anna Maria Spiazzi, Luca Majoli, Corinna Giudici. Crocetta del Montello: Terra Ferma, 2010, pp. 103-125 (105, nota 12)

[5] Cfr. Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”, 59 (1971), n.2,  March-April pp. 82-89 (87); Olivier Lugon, Le style documentaire. D’August Sander à Walker Evans 1920-1945. Paris: Éditions Macula, 2001 (trad. it. Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 -1945. Milano: Electa, 2008); Eric De Chassey, Platitudes. Une histoire de la photographie plate. Paris: Gallimard, 2006.

[6] Georges Didi-Huberman, intervistato da Isabella Mattazzi in occasione della presentazione del libro Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza,  “Il manifesto”, 40 (2010), n. 41, 20 febbraio, p. 11.

[7] Gérard Lagneu, Illusione e miraggio, in Pierre Bourdieu, dir., Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie. Paris:  Les Editions de Minuit, 1965 (trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media. Rimini: Guaraldi, 1972,  pp. 211-228 – 215).

[8] Tra queste una delle più interessanti e produttive è rappresentata dal paradosso della sua volontaria scomparsa quale strategia discorsiva destinata ad affermarne con maggior forza la presenza. Accogliendo le riflessioni ancora feconde di Vaccari e Flusser, per i quali l’autore si colloca buon ultimo nella determinazione dell’immagine, possiamo provare a dire che in alcune pratiche questo marca la fotografia in misura inversamente proporzionale alla sua esplicita volontà di farlo. Cfr. Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Torino: Agorà, 1979 (nuova ed. Torino: Einaudi, 2011); Vilem Flusser, Fur eine Philosophie der Fotografie. Göttingen: European Photography, 1983 (trad. it. Per una filosofia della fotografia. Torino: Agora, 1987; nuova ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006). Le vicende storiche delle diverse pratiche fotografiche, delle differenti concezioni della fotografia comportano anche un percorso distinto, sebbene fortemente intrecciato a quello qui considerato, a cui possiamo solo accennare: quello del passaggio (funzionale, culturale, mercantile) da documento a opera,  si veda P. Cavanna, Da strumento a patrimonio: documenti e opere, in Fototeche a Regola d’Arte, Atti delle giornate di studio (Siena, 30 novembre – 1 dicembre 2007), a curadi Giorgio Bonsanti, Siena, CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro – Fototeca Briganti, Atti disponibili in rete: https://www.yumpu.com/it/document/read/33408520/1863-4-giugno-inaugurazione-del-museo-civico-comune-di-siena (01 03 2023).

[9] La definizione puramente analogica della fotografia era condivisa anche dalle culture non occidentali: in giapponese ad esempio gli ideogrammi che corrispondono al termine fotografia (“Shashin”)  sono traducibili come “copia della realtà/ realtà copiata”. Con significativo parallelismo, nella concezione positivista anche il lavoro dello storico si proponeva come ‘trasparente’, nella convinzione ideologica di poter mostrare i puri fatti. Oggi, così come la fotografia non è più ‘invisibile’ e anzi ci interessiamo prevalentemente ai modi della sua visibilità, anche il lavoro dello storico si offre esplicitamente come discorso e narrazione, dove “il senso non deriva dai ‘fatti’ nudi e crudi e dagli ‘eventi’ isolati, bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporalità della narrazione”,  Iain Chambers, Culture after Humanism.  London: Routledge, 2001 (trad. it. Sulla soglia del mondo: L’altrove dell’Occidente. Roma: Meltemi, 2003, p. 18), che riprende Paul Ricoeur, Temps et récit.  Paris: Seuil, 1983-1985 (trad. it. Tempo e racconto. Milano: Jaca Book, 1986-1988). La pratica storiografica attuale adotta una “concezione dinamica delle fonti, con il richiamo alla loro creazione epistemologica da parte dello storico, [ciò che] segna il superamento sia dell’ ‘oggettivismo’ dell’impostazione positivistica, sia del soggettivismo intuizionistico dell’idealismo; oggetto e soggetto della conoscenza storica sono legati da una relazione di reciproca funzionalità.”, Giovanni de Luna, La passione e la ragione: Fonti e metodi dello storico contemporaneo. Milano: La Nuova Italia, 2001, p. 118, che rimanda alla concezione dinamica delle fonti di Jerzy Topolski.

[10] Charles Peirce, What is a Sign?, in Id., How to Reason: A Critik of Arguments (Gran Logic), 1909, citato in Roberto Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce,  2009, p. 203, disponibile sul sito della SISF – Società Italiana per lo Studio della Fotografia: https://www.sisf.eu/wp-content/uploads/2014/08/Signorini_Peirce_2009.pdf   [20 12 2022]. Questo contributo, che costituisce l’esito ultimo del costante, solitario e faticoso impegno di Roberto per l’accrescimento della cultura fotografica italiana, il suo ennesimo impervio sforzo per contribuire a colmare l’enorme divario che la separa – che ci separa – dagli universi della ricerca più attrezzata e avanzata che caratterizzano la scena degli altri paesi, ha costituito per me, come altre volte, non solo una fonte imprescindibile per accedere in modo sistematico al pensiero di Peirce, ma anche e soprattutto un’occasione di riflessione e quindi di crescita di cui gli sono debitore pur non condividendo sempre le sue conclusioni.

[11] Hubert Damish, Cinq notes pour une phénoménologie de l’image photographique, “L’Arc”, 1963, n. 21, printemps, ora in Id., La Dénivelée. À l’épreuve de la photographie. Paris: Seuil, 2001, pp.7-11 (7). Damish richiama poi l’attenzione del lettore sul fatto fondamentale, di cui qui non possiamo considerare le conseguenze, “che questa definizione non presuppone l’impiego di un apparecchio non più di quanto implichi che l’immagine ottenuta sia quella di un oggetto o di uno spettacolo del mondo esterno.” Analoghe considerazioni sono state espresse da Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Lazlo Moholy-Nagy: “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, cfr. Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86. Ben si adattano a questa concezione le riflessioni sulla fotografia condotte nell’ambito dei più recenti studi sul segno: “La modalità semiotica della fotografia è quella di una traccia su una superficie e che, in quanto traccia, adotta il regime dell’impronta.”, Hamid-Reza Shaïri, Jacques Fontanille, Approche sémiotique du regard photographique: deux empreintes de l’Iran contemporain, “Nouveaux Actes Sémiotiques”, nn.73-75. Limoges: Pulim, 2001, (trad it. Un approccio semiotico dello sguardo fotografico: due impronte dell’Iran contemporaneo, in Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero, Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi. Rimini: Guaraldi, 2008, pp. 217-242: p. 353, nota 209), con l’avvertenza che attenendosi alla sola “ontologia della traccia, che si imporrebbe al fruitore al di qua di qualsiasi interpretazione, la foto diverrebbe un oggetto teorico solo nel momento in cui è assunta come ‘testimonianza muta’, una ‘macula caeca rispetto all’interpretazione’. Ma (…) la percezione della fotografia o la sua apprensione affettiva passano per interpretanti (…) attraverso movimenti abduttivi.”, Pierluigi Basso Fossali, Peirce e la fotografia: abusi interpretativi e ritardi semiotici, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp.113-214 (207). Per queste ragioni la semiotica filopeirciana viene da questi autori considerata insoddisfacente, perché “ha ricondotto la significazione [della fotografia] all’atto produttivo, senza dedicare attenzione né alle forme testuali, né ai regimi discorsivi e alle prassi comunicazionali. Queste teorie, invece che moltiplicare gli strumenti metodologici per rendere conto delle diverse strategie estetiche ed enunciazionali delle occorrenze testuali, riducono il funzionamento del medium a un’unica definizione, a un’essenza (fotografia come icona, indice, simbolo del reale). (…) Chi sceglie invece la testualità come unità pertinente all’analisi (…) ha il merito di deontologizzare il discorso sull’immagine fotografica distaccandosi da una classificazione per medium produttivo e di aprire alla problematica delle diverse pratiche di interpretazione e fruizione della fotografia.”, Maria Giulia Dondero, Geografia della ricerca semiotica sulla fotografia, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp. 21-111 (21-22). Pur comprendendo la necessità di marcare il proprio territorio di ricerca mi pare che non poche siano le possibili intersezioni tra queste rivendicazioni della supremazia della testualità e le riflessioni di segno diverso di autori come Schaeffer o Ricoeur (cfr. nota 44 e testo relativo), mentre una sintesi efficace mi pare riconoscibile nel concetto di semioforo applicato alla fotografia, per quanto di cultura vi è nella sua produzione (determinata anche nella manifestazione concreta dell’atto-traccia da quello che Flusser ha chiamato “apparato”) e nella sua percezione, sempre storicamente mediata (cfr. nota 11 e testo relativo).

[12] Paola Carucci, Il documento contemporaneo: Diplomatica e criteri di edizione. Roma: NIS, 1987, p. 14.

[13] André Rouillé, La photographie. Paris: Gallimard, 2005, pp.25-26, che così prosegue: “Il valore documentario dell’immagine fotografica poggia sul suo dispositivo tecnico, ma non è garantito da questo. Esso varia in funzione delle condizioni di ricezione dell’immagine e delle convinzioni che si hanno su di essa. La registrazione, il meccanismo, il dispositivo contribuiscono a sostenere queste convinzioni, a consolidare la fiducia, a sostenere il valore, senza mai garantirli completamente. (…) Questa metafisica della rappresentazione, che si fonda tanto sulle capacità analogiche del sistema ottico quanto sulla logica dell’impronta del dispositivo chimico, conduce a un’etica della precisione e a un’estetica della trasparenza.”, Ivi, p. 73. Qui Rouillé pare non saper distinguere tra “valore documentario” (che può essere nullo, e che è inevitabilmente determinato dal variare del contesto storico culturale) e natura documentale della fotografia. Ricordo che, salvo diversa indicazione, le traduzioni dei testi di cui non è disponibile un’edizione italiana sono di chi scrive.

[14] Carucci 1987, p.14. La definizione non potrebbe essere più chiara e convincente, sebbene io consideri una necessità, e non una mera possibilità, l’analisi dei canoni adottati nella realizzazione del documento. Così se è vero che il documento iconografico prima di essere utilizzato quale “prova storica indubitabile” deve essere “liberato (…) da un complesso di superfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista” (Giovanni Romano, Iconografia e riconoscibilità, “Casabella”, 64 (1991), n.575/576, gennaio, p. 26), è innegabile che, oltre l’uso puramente referenziale della fonte, sia invece indispensabile per il procedere dell’indagine storiografica riconoscere e analizzare proprio quelle “superfetazioni” che costituiscono le condizioni che ne hanno determinato le stesse forme di esistenza, sino a “passare attraverso la mediazione della coscienza dell’autore della fonte.”, (Witold Kula, Riflessioni sulla storia, [1958]. Venezia: Marsilio, 1990 p.31, citato in De Luna 2001,  p.137). Per ricondurci al nostro contesto, risulta allora legittimo dire che “Ben più che un ‘è stato’ dell’oggetto, la fotografia attesta un ‘è stato vissuto’ dal fotografo” (Serge Tisseron, Le mystère de la chambre claire. Parigi: Flammarion / Les Belles Lettres, 1996, in Dondero 2008, p. 51), ma anche che “la fotografia riproduce meno di quanto non produca; o – piuttosto – essa non riproduce senza produrre, senza inventare, senza creare, artisticamente o meno, del reale; mai in alcun caso il reale”  (Rouillé 2005, p.169, corsivi dell’autore), senza per questo rinunciare al riconoscimento della sua natura di segno indicale.  Pur tenendomi prudentemente lontano dalle sirene del decostruzionismo ad libitum, per il quale “il senso non è immanente al testo, ma alla pratica di interpretazione” (François Rastier, Art et sciences du texte. Paris: Puf, 2001 – trad. it. Arti e scienze del testo. Roma: Meltemi, 2003, in Dondero 2008, p. 54) ovvero che “il segno deve essere studiato ‘sotto cancellatura’ [essendo] sempre già ‘occupato’ dalla traccia di un altro segno che non appare mai come tale; [ragione per cui] la semiologia deve lasciare il passo alla grammatologia” (Gayatri Spivak, Translator preface, in Jacques Derrida, Of Grammatology. Baltimora: Johns Hopkins University Press, p. xxxix, in Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History.  Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2002, p. 204, nota 36), sono convinto che la costante consapevolezza del documento come sistema complesso (nella sua costituzione) e aperto, nella sua ricezione e interpretazione, debba costituire la condizione fondante della strumentazione metodologica applicata allo studio della fotografia (ciò di cui si sente particolarmente il bisogno), ma che le riflessioni che da questa nascono possano essere feconde per tutta la riflessione storiografica sui documenti e quindi sulle fonti. Si vedano a questo proposito i diversi interventi contenuti nel numero monografico di “History and Theory” e in particolare le riflessioni della curatrice Jennifer Tucker: “Piuttosto che postulare una mancanza di ‘esperienza’ o di ‘metodo’ nell’uso delle fotografie [da parte degli storici], sarebbe forse più rilevante considerare la fotografia in relazione alla complessità dell’uso storico di qualsiasi documento. Ciò che dovrebbe essere chiaro in questo contesto è che le fotografie non sono né più né meno trasparenti di ogni altra fonte documentaria. (…) in altre parole, le fotografie non si limitano a mettere semplicemente in evidenza le potenzialità e i limiti della fotografia quale fonte storica, ma le potenzialità e i limiti di tutte le fonti storiche e dell’indagine storica quale progetto intellettuale. Così questa è precisamente la promessa e la maggiore potenzialità insita nello studio storico delle fotografie: che spinge i suoi interpreti ai limiti dell’analisi storica.”,  Jennifer Tucker, con Tina Campt, Entwined Practices: Engagements with Photography in Historical Inquiry,  “History and Theory”, 50 (2009), n. 48, December, Theme Issue, pp. 1-8 (5).

[15] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite. Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso rimando a Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire, in “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[16] In questa prima stagione era proprio il suo statuto di documento, e non di rappresentazione, ad attrarre operatori, pubblico e critici, nella convinzione comune che fosse “compi­to della pittura (…) quello di creare, della fotografia di copiare e riprodurre” (Antoine  Claudet, La photographie dans ses relations avec les Beaux-Arts,  discorso letto alla Photographic Society of Scotland, poi pubblicato in “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.101-114). Era infatti opinione diffusa che questa potesse restituire “le esatte apparenze della forma, ma non isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, 1852, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e C., 1859, pp. 338-339, ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945: Appendice di testi e documenti, “Storia d’Italia – Annali”, 2.2. Torino: Einaudi, 1979, pp.233-235.

[17] Tra le innumerevoli fonti bibliografiche che riproducono questa notissima fotografia segnalo il solo Helmut Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981, p.49, mentre rimando a Geoffrey Batchen, Le Noyé, in Id., Burning with Desire: The Conception of Photography. Cambridge Massachusetts – London:The MIT Press, 1997, pp.157-173 per una affascinante lettura critica e  per la riproduzione del testo. A partire da Bayard la storia fornisce innumerevoli e precoci esempi di confutazione del “pregiudizio realista” della fotografia tra i quali mi piace ricordare almeno il doppio autoritratto spiritista di Francesco Negri, 1870 ca, cfr. P. Cavanna, Il Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Casale ed una mostra, “Fotologia”, n.14/15, 1992, pp. 46-53 (46).

[18] Archivio storico della Societé Française de Photographie, Paris, n. 0024.269.

[19] Carucci 1987, p.27. Vorrei far notare che eliminando il qualificativo “giuridico” – per altro fondamentale per la diplomatica – e facendo corrispondere la “storicità del contenuto” al referente, questa considerazione si può applicare anche alla fotografia.

[20] Mi pare interessante sottolineare come la loro determinazione corrisponda di fatto alla catalogazione critica del fototipo, cioè alla sua descrizione (autore, data, materia e tecnica) e alla sua interpretazione (riconoscimento del contenuto e sua veridicità).

[21] Tra le innumerevoli, possibili esemplificazioni di questi nessi rimando a una delle più note fotografie di William Eggleston, The Red Ceiling, 1973, a proposito della quale lo stesso autore notava: “Quando ne osservi una stampa dye-transfer, sembra sangue rosso fresco sulle pareti.  Questa fotografia era come un esercizio di Bach per me, poiché sapevo che il rosso era il colore più difficile con cui lavorare.”, William Eggleston, Ancient and Modern. New York: Random House, 1992, pp. 28-29. Quel richiamo è stato poi criticamente sviluppato da Mark Holborn, per il quale “la campitura rossa ha un peso emotivo; è come se il soffitto stesse sanguinando. Qui, il colore rafforza il riferimento della struttura visuale alla bandiera della Confederazione; metaforicamente, un campo di sangue.” Mark Holborn, William Eggleston, Democracy and Chaos,  “Artforum”, 36 (1988), n.10, Summer, p. 91,  citato in William Eggleston: Democratic Camera, Photographs and Video, 1961-2008, catalogo ella mostra (New York – Whitney Museum, Monaco – Haus der Kunst, 2008),  Elisabeth Sussman, Thomas Weski, eds. New York – Monaco, Whitney Museum – Haus der Kunst,  2009, p. 12.

[22] Si veda Signorini 2009, p. 223.

[23] Uso qui i termini in modo ingenuo/ convenzionale senza addentrarmi (per manifesta incompetenza) nel ginepraio delle questioni poste dalle scuole semiotiche di derivazione greimasiana, che tendono a considerare inappropriata o comunque irrilevante la questione ontologica (l’in sé della fotografia) per spostare l’accento sulla sua semiotica testuale e ricettiva (vedi anche nota 11), partendo dalla constatazione – innegabile – che affinché si dia un segno occorre necessariamente la presenza di una funzione interpretante (di qualcuno che lo interpreti come tale) e che lo stesso Peirce, ad esempio in Of Reasoning in General, in Id., Short Logic, I, 1895 (in Signorini 2009, p. 151-155), ha parlato di indice, icona e simbolo, come rappresentazioni, cioè come azioni (che ci riguardano) e non come proprietà di entità che ci sono esterne. Resta però a mio avviso indispensabile provarsi a definire le caratteristiche distintive della Fotografia per riuscire a comprendere le diverse strategie  – storicamente determinate – che la riguardano.

[24] Charles S. Peirce, On Existential Graphs, 1903 ca, in Signorini 2009, pp. 174-177.

[25] 1895: “Una fotografia è un’icona” ; 1896: “L’icona, che è la fotografia della quale l’indice costituisce la legenda (…)”. Salvo diversa indicazione le citazioni sono tratte da Signorini 2009, pp. 210-215.

[26] Vedi nota 24.

[27] Alfred Liégard,  Le document et l’Art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

[28] Citato in Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, “Die literarische Welt”, 1931,  (trad. it. Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp.59-79: 75)

[29] Lazlo Moholy-Nagy, in Lugon 2001, p. 70. Le Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo italiano nel 1918 mostravano invece di temere la deriva ‘artistica’ dei loro operatori, tanto da imporre che non si dovesse tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cfr. Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp.9-20 (16). È appena il caso di ricordare qui le posizioni di Giuseppe Pagano, di Carlo Mollino e ancor prima di Boggeri che, nel generoso tentativo di trapiantare in Italia i canoni della nuova visione tra costruttivismo e Bauhaus  indicava “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari.”,  Antonio Boggeri, Commento, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[30] Alberto Rossi, Fotografia come arte, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII (XIV).

[31] Walker Evans, 1971, qui ripreso da Lugon 2001, p. 19, che ha opportunamente definito la “neutralità documentaria” nulla più che un’apparenza. Anche per un interprete raffinato come Ghirri “Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale.”, Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, in “Gran Bazaar”, n. 46, ottobre-novembre 1985, pp. 18-19, ora in Id., Niente di antico sotto il sole: Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte. Torino: Società Editrice Internazionale, 1997, pp.70-71, sottolineatura dell’autore; notazione tanto affascinante quanto problematica, dove “naturale” credo debba essere inteso nella doppia accezione di realizzato con naturalezza, ma anche – e insieme – di trasparenza, elemento da cui emergono le cose per quello che sono. O, almeno, “sembra”.

[32] Lewis Baltz, The New West by Robert Adams,  “Art in America”, 63 (1975), n. 2, March-April, p.41, in De Chassey 2006, p.152.

[33] Lewis Baltz, I want my work to be neutral and free from aesthetic or ideological posturing, in Carol Di Grappa, ed., Ladscape Theory. New York: Lustrum Press, 1980, p.26, in De Chassey 2006, p.153. Il riferimento esplicito è W. Evans, 1971 (vedi nota 5), che a sua volta si rifaceva a Flaubert (“L’assenza dell’autore, la non soggettività”), ma queste affermazioni hanno il sapore di una regressione. In Evans c’era la consapevolezza che si trattasse di uno ‘stile’ mentre Baltz, nonostante le buone intenzioni programmatiche, è proprio di un’ideologia che si appropria, quella mitica della neutralità oggettiva, della fotografia trasparente; mostra cioè di volersi ritrarre come autore proprio nel momento in cui definisce più precisamente il proprio ruolo, la sua presenza. Se proviamo a definire semioticamente lo stile documentario come quel modo di connotare le immagini in cui appare una corrispondenza massima tra indice e icona, tra registrazione e raffigurazione, con una rilevanza sostanzialmente nulla – in termini costitutivi – della componente simbolica, ne deriva che in questo dovrebbe essere il dispositivo a prevalere sull’autore, la componente materiale a vincolare quella culturale, ma allora: lo stile documentario non può esistere in sé, proprio in quanto scelta d’autore. Dove c’è volontà d’autore non può esservi stile documentario, ma può esserci – c’è – documento, poiché l’immagine risultante non può prescindere dalla messa in ordine della visione imposta e concessa dall’apparato fotografico, dalla sintassi propria della fotografia in quanto immagine ottica. Analogamente, il fatto che la fotografia sia (anche) indice non la riduce per ciò stesso a essere trasparente, oggettiva, a-narrativa. Semmai è proprio nella tensione tra queste polarità che risiedono tutte le sue potenzialità. Anche dal punto di vista ottico lo “stile documentario” è l’esempio massimo di convenzione, di finzione che si mostra autentica e come naturale: basti ricordare come il cono visivo che penetra il corpo della macchina venga ridotto sul piano a una innaturale per quanto ragionevole figura angolare, imponendo che una parte dell’immagine si riversi su superfici insensibili. Un furto, una perdita irreparabile della quale neppure ci rendiamo conto, ingenuamente certi che tutto accada entro i rassicuranti margini della ‘inquadratura’. Il cerchio è la forma dell’immagine pura. La sola che noi conosciamo (inconsapevoli), riversa al fondo del nostro occhio. È la figura primaria corrispondente alla formazione ottica di ogni immagine: analogamente a quanto accade nella proiezione retinica, non esiste figura rettangolare che racchiuda l’immagine proiettata da un sistema ottico. Dal foro stenopeico a qualsivoglia sistema di lenti, l’area della proiezione è sempre circolare: solo le convenzioni storico culturali e alcune difficoltà tecnologiche (quindi culturali anch’esse, ovvio) hanno fatto sì che anche la fotografia fosse comunemente racchiusa tra quattro angoli retti.

[34] Lugon 2001, p. 156. Per quanto risaputo, credo sia necessario ribadire che questa condizione costituisce la base di tutta la fotografia nominalmente documentaria (giudiziaria, scientifica e simili), nella quale la scelta non si opera per ragioni di stile ma normative: “Abbiamo trattato le nostre macchine fotografiche come strumenti di registrazione e non come apparecchiature per illustrare le nostre tesi” ha detto Gregory Bateson, a proposito del lavoro fatto con Margaret Mead a Bali (circa 25.000 scatti), cfr. Elizabeth Edwards,  Antropologia, in Robin Lenman, ed., Oxford Companion to the Photograph. New York: Oxford University Press, 2005 (edizione italiana a cura di Gabriele D’Autilia, Dizionario della fotografia. Torino: Einaudi, 2008, I, pp. 31-34: 32).  In questi ambiti la fotografia è intesa e utilizzata quale strumentazione scientifica in grado di fornire dati misurabili. All’indagine storico critica il compito di comprendere le ragioni per cui l’indicalità fotografica costituisca un dato positivamente acquisito in ambito scientifico e contemporaneamente negato in ambito espressivo e artistico, pur facendo ricorso alla stessa tecnologia. Non sono quindi i suoi principi a essere posti in discussione, ma gli usi e i canoni. Basti pensare alla diversa qualificazione del ruolo dell’autore, a cui nella fotografia documentaria non è dato di scegliere (meno che mai di ritrarsi), mentre nella fotografia ‘artistica’ questo comportamento si dà come alternativa possibile, scelta stilistica che ne ribadisce il ruolo e la presenza in absentia. Autorialità e crisi documentaria: se per la cultura delle origini della fotografia la sua fedeltà al vero si fondava sul prevalere della ‘natura’ sull’uomo, fu l’affermarsi della fotografia come immagine e l’inscindibile affermazione della figura dell’Autore a mettere in discussione e in crisi la (concezione della) fotografia come documento, sebbene nel solo ambito ristretto della fotografia ‘artistica’. Nessun tecnico di laboratorio, nessun operatore dei grandi studi internazionali attivi nel campo delle riproduzioni d’arte, della fotografia industriale e simili ha mai messo in dubbio questa accezione, prodigandosi semmai per individuare e adottare le migliori soluzioni tecniche e tecnologiche necessarie a che il compito potesse essere svolto nel migliore dei modi. Più interessante risulta oggi il riconoscere una valenza etica “nel ricorso a forme di immagini che propongono un concentrato di umiltà, di distanza riflessa e di audacia a privilegiare una forma ornata di virtù di fondo. Il documento è una risposta al mondo delle immagini sul terreno stesso delle immagini, forse il solo mezzo per opporsi al regno assoluto dello spettacolo. (…) è quindi un’utopia (…) il documento incarnerebbe così ‘l’ultima immagine’. L’ultima immagine possibile dopo le disillusioni e i dogmatismi (…) un’esperienza limite che contiene la promessa di una rivoluzione. (…) La potenza speculativa del documento risplende al giorno d’oggi come la sintesi improbabile di rappresentazione e informazione.”, Michel Poivert, La photographie contemporaine. Paris: Flammarion, 2002, p.140.

[35] In ambito fotografico, per fototipo si intende un’immagine positiva o negativa visibile e stabile ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.

[36] Si pensi alla riproduzione Alinari del dipinto di Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1505, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze: un caso esemplare di documento fotografico se mai ve ne fu uno. Il confronto con l’opera di Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, fotografia su tela emulsionata, 30×24, da Ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro, 1967, spalanca però all’improvviso l’abisso del contesto: le due immagini – identiche (specie in una qualsiasi versione a stampa) – sono portatrici di informazioni per la gran parte radicalmente diverse, pur condividendo lo stesso contenuto referenziale, corrispondente al dipinto di Lotto, alle sue condizioni di esistenza in un momento dato e al livello tecnologico della riproduzione monocroma di un dipinto.

Un’eco della suggestione concettuale dell’opera di Paolini risuona anche nell’incipit de La camera chiara: “in quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: ‘Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore’.”,  Barthes 1980, p. 5.

[37] Per questa ragione non potrei essere più lontano dalle posizioni di chi sostiene che “non sono i segni – e a maggior ragione le loro tipologie – a interessarci; sono le forme significanti, i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia, come di ogni immagine o di ogni testo, un oggetto di senso”, come se le due posizioni fossero antitetiche e inconciliabili. Soprattutto mi pare infondato sostenere che “il voler a ogni costo definire lo specifico della Fotografia impedisce di lavorare sulle fotografie e nega ogni possibilità, ogni probabilità, di smentire il suo a priori. Parlare di Fotografia, come di Pubblicità, significa accettare il taglio socio-culturale, dunque relativo e storico, dei linguaggi e dei mezzi di espressione. Cercare la loro specificità significa, tutt’al più, esplicitare un sistema connotativo.”, Jean-Marie Floch, Les formes de l’empreinte. Périgueux: Fanlac,  1986 (edizione italiana a cura e con traduzione di Luisa Scalabroni,  Forme dell’impronta. Roma: Meltemi, 2003) pp. 8-9. In parte diverse sono le ragioni di dissenso nei confronti delle riflessioni di John Tagg, sebbene complessivamente più stimolanti e articolate. “Il medium della fotografia non era dato e uniforme. Costituiva sempre un esito localizzato, l’effetto di una particolare delimitazione del campo discorsivo, la funzione di uno specifico apparato o macchina, nel senso in cui Foucault ha utilizzato questi termini. Il medium doveva essere costituito e venne definito in maniera molteplice. (…) Il medium non è qualcosa di semplicemente dato. Deve essere costituito, e deve essere istituito. E non è istituito uniformemente e omogeneamente, ma, piuttosto, in modo discontinuo, localizzato ed eterogeneo, quale proprietà di particolari strutture istituzionali e quale effetto di  specifiche delimitazioni del campo discorsivo.”, Tagg  2009, p. XXVIII, p. 15. Il riferimento, condiviso con Batchen, alla lezione magistrale di Foucault, il quale si proponeva di definire gli oggetti senza far riferimento al loro fondamento, ma mettendoli in relazione con il corpus di regole che consente loro di formarsi come oggetti di un discorso e porre così le condizioni per la loro comparsa storica, è prezioso, ma mi pare che proprio la possibilità del medium fotografico di costituirsi localmente in contesti e modi diversi non possa che essere fondata (e storicamente data) su quello che a suo tempo Barthes ha individuato quale noema della Fotografia. Voler negare questo dato sarebbe come dire che non riconosco legittimità o rilevanza ai principi della termodinamica perché il mio ambito di studio sono le funzioni storiche e sociali delle ferrovie. Non credo sia possibile comprendere dal punto di vista storico culturale “i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia un oggetto di senso” senza interrogarsi, e capire, cosa sia la Fotografia, perché solo a questa condizione sono in grado di identificare geneticamente le ragioni e i modi del suo essere nella storia e nella cultura, nella cultura storica.

[38] “Talvolta vengo definito un ‘fotografo documentario’ – proseguiva Evans – ma questo presuppone la consapevolezza della sottile differenza che ho appena enunciato, che è piuttosto nuova. Si può agire in base a questa definizione e ricavare un piacere maligno dall’invertire i termini. Spesso faccio una delle due cose mentre si crede che stia facendo l’altra”, in Katz 1971, p. 87. Alla luce di queste dichiarazioni risulta criticamente infondato, per non dire gratuito, l’accanirsi nel verificare lo stato attuale dei luoghi a suo tempo ripresi da Evans. Più appropriata e fruttuosa ci pare la sua definizione, di poco precedente, dell’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p.301. In termini più complessi un analogo concetto è stato sviluppato da Flusser, che ha definito l’immagine tecnica quale apparato destinato a produrre simboli, e di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti.”, Flusser 1987, p.  31. Anche l’interpretazione antropologica, sintetizzando una lunga serie di riflessioni, ha riconosciuto come “rispetto all’ideologia (…) la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”, Francesco Faeta, Wilhelm von Von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Mi pare invece appropriata la qualificazione di stile documentario per molte produzioni artistiche di area concettuale, in particolare per quelle in cui entra in gioco l’elemento di archivio o la classificazione tipologica, come in Christian Boltanski e nei coniugi Becher, ma anche per le Esposizioni in tempo reale di Vaccari, nelle quali si ritrova, pur nelle diverse forme e intenzioni espressive, una evidente coerenza tra ‘stile’  (qui ‘documentario’) e intenzioni progettuali e discorsive.

[39] Da una lettera di Farham Maxwell Lyte al “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, in Bernard Marbot, Des ciels dans les paysages photographiques, dossier della mostra Quand passent les nuages ( Paris, Bibliothèque nationale, 1988), consultabile all’indirizzo  http://expositions.bnf.fr/legray/reperes/nuages/index.htm   (11-05-2011). L’esempio più noto di questa pratica è certo la Vallée de l’Huisne  (River Scene, France) che  Camille Silvy espose al Salon parigino del 1859, cfr. Mark Haworth-Booth, Camille Silvy: River Scene, France. Los Angeles: Getty Museum Studies on Art, 1993; Id., Camille Silvy: Photographer of Modern Life 1834-1910. Los Angeles: Getty Trust Publications, 2010.

[40] Piazzetta della chiesa con muli, 1890, stampa all’albumina con fotomontaggio, ritocchi e annotazioni, prova di stampa per Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890, t.36, Biella, Fondazione Sella.  Questa fotografia è stata pubblicata anche da Piergiorgio Dragone, La fotografia di Vittorio Sella, in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, p. 275. Per altri fotomontaggi di Sella vedi Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982. Sulla figura di Vallino rimando a P. Cavanna Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995),n.122, pp. 124-127. Analoghe pratiche di verosimiglianza segnarono anche molta fotografia modernista, come fu ad esempio per Cesare Giulio, cfr. Sul limite dell’ombra. Cesare Giulio fotografo, (Torino, Museo nazionale della Montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2007. Anche la fotografia etnografica propriamente detta, dietro e oltre una metodologia connotata da precise intenzioni documentarie lascia emergere pratiche meno lineari, che non escludono il ricorso all’artificio, quale ad esempio la ricostruzione della scena fotografata; cfr. Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: uno sguardo antropologico. Milano: Mazzotta, 2006 e, per l’analisi di un caso specifico, P. Cavanna, Di un viaggio in Italia, passando per il Piemonte, in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932, II. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp. 319-331.

[41] Basso Fossali 2008, p. 15. Un’efficace testimonianza di quanto possa essere osmotico (quindi problematico e attraente) il confine che delimita l’area del documento fotografico è costituita da questa dichiarazione di Jeff Wall a proposito di Man with a Rifle, 2000, frutto della sintesi digitale di dieci distinte riprese: “Penso sia evidente che tutte le parti  assemblate per realizzare Man with a Rifle sono esempi di fotografia diretta [straight photography]; eccetto la performance dello sparatore (…) la maggior parte sono fotografie documentarie. (…) è anche importante notare che la cosiddetta ‘azione drammatica’ nell’immagine è una ricostruzione il più possibile precisa di un istante che accadde in strada, nella quotidianità. È parte della quotidianità, non è inventata.”, cfr.  Friederich Tietjen, Interview with Jeff Wall, “Camera Austria”, 24 (2003), n. 82, pp. 6-18.

[42] Vedi nota 24. La questione dell’atto culturale del riconoscimento non é però così semplice né così scontata. Sono note non poche esperienze etnografiche e antropologiche in cui l’immagine fotografica risulta priva di valore indicale poiché non viene neppure riconosciuta come icona (cfr. Vittorio Lanternari, Sensi, in “Enciclopedia”, v. 12. Torino: Einaudi, 1981, pp. 730-765). Questo fatto ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, mentre d’altro canto alcune ricerche di neuropsichiatria infantile hanno dimostrato che “il bambino dal terzo mese in poi non solo è in grado di riconoscere la madre tra le altre persone quando essa è presente, ma la riconosce anche in fotografia.”, Maria E. Barrera, Daphne Maurer, Recognition of mother’s photographed face by the three-month-old infant, “Child Development”, 52 (1981), n. 2, giugno, pp. 714-716, citato in Nicola Peluffo, Immagine e fotografia. Roma: Borla, 1984, p.13, nota 3. Altrettanto significativi i casi in cui la decifrazione dell’immagine fotografica, cioè il riconoscimento del suo contenuto indicale è reso problematico da ragioni percettive, di percezione della forma in particolare. Quando l’icona gioca con le nostre convenzioni rappresentative, improvvisamente risulta difficile stabilire di cosa, di quale referente quell’immagine sia indice e traccia. Si veda, a puro titolo di affascinante esempio la sequenza di Duane Michals, Things Are Qeer (Le cose sono strane), 1973 (cfr. Jonathan Weinberg, Things are Queer, “Art Journal”, 55 (1996), dicembre  , ora consultabile all’indirizzo  https://www.academia.edu/10840375/Things_are_Queer  – 22 12 2022). La questione resta quindi per molti versi ancora aperta, ma il fatto che in un determinato contesto o in certe condizioni di ricezione il riconoscimento divenga problematico sino a far perdere lo specifico statuto di segno non mi pare che possa di per sé inficiarne la primaria natura indicale. Non è la mancata comprensione da parte di un particolare interprete a stabilire la specificità del segno. Più difficile valutare le conseguenze in termini di analisi culturale del precoce riconoscimento infantile della raffigurazione fotografica come analogo del reale, a meno di sottolineare come questo prendesse corpo – letteralmente – nella figura della madre, come suggerisce anche l’episodio descritto dall’antropologo Melville Herskövits riportato da Allan Sekula, On the Invention of Photographic Meaning,  “Art Forum”, 13 (1975), n. 5, gennaio, pp. 36-46, ora in Victor Burgin, ed., Thinking Photography.  London: Macmillan, 1982. Anche le riflessioni ultime che Barthes ha dedicato alla fotografia ne La camera chiara si sono dipanate dal groviglio del rapporto proustiano con la madre.

[43] Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire. Du dispositif photographique. Paris: éditions du Seuil, 1987, p. 111, (edizione italiana a cura e con traduzione di Marco Andreani, Roberto Signorini, L’immagine precaria: Sul dispositivo fotografico. Bologna: CLUEB, 2006). La funzione necessaria del riconoscimento è stata ribadita in termini più generali anche da Ricoeur, per il quale “la traccia lasciata è anch’essa un’impronta offerta alla decifrazione. Tuttavia, così come è necessario sapere – un sapere anteriore ed esterno – che qualcuno ha coniato la cera con il sigillo, è necessario sapere che un animale è passato di là, addirittura saper distinguere la traccia di un cinghiale da quella di un capriolo. Così l’enigma dell’impronta si ripete in quello della traccia; è necessario un sapere teorico preliminare riguardo le abitudini di chi ha lasciato la traccia, e un sapere pratico riguardo l’arte della decifrazione della traccia, che, solo allora, funge da effetto-segno del passaggio che ha lasciato la traccia.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, pp.12-14. Pur senza addentrarci qui in una problematica tanto affascinante quanto complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia.  In questo orizzonte risulta particolarmente stimolante e produttiva la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[44] Schaeffer 1987, p. 111. Queste posizioni sono state polemicamente contestate da André Rouillé: “Di fatto, se c’è del vero in una fotografia – documento, non è in ragione di una corrispondenza, e neppure di un adeguamento alle cose. La porzione di verità che può essere accreditata all’immagine risiede meno nella sua somiglianza con le cose che nel contatto che stabilisce con quelle. Si tratta di una modalità nuova della verità: una verità per contatto invece che per somiglianza.  In termini peirciani, la verità fotografica è più indicale (indiciaire) che iconica. L’impronta prevale sulla mimesi. O, piuttosto, la mimesi descrive mentre l’impronta attesta. È precisamente questa dialettica tra descrizione (ottica) e attestazione (chimica) che costituisce la forza della fotografia, e non la sua precarietà come crede  Jean-Marie Schaeffer nella sua opera L’Image précaire. Du dispositif photographique.”, Rouillé 2005, p. 118, che non ha però voluto tenere nel debito conto il fatto che il processo ricettivo stabilito da Schaeffer accoglie in pieno la concezione indicale di Peirce.

[45] Ricoeur 2004, p.19.

[46] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[47] Batchen 2002, pp. viii-ix.

[48] Ivi, p. 106.

[49] Vedi nota 24.

[50] Michel Foucault, L’Archeologie du savoir. Paris: Gallimard, 1969, p. 15.

[51] Jacques Le Goff, Documento/Monumento,  in “Enciclopedia”, v. 5, 1978, pp.38-48, ora in  Id., Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp.443-456. È interessante e utile accostare queste considerazioni a quelle espresse circa gli stessi anni da Barthes a proposito della fotografia, che “essendo per natura tendenziosa (…) può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.” (Barthes 1980, p. 87) In un ambito più circoscritto, anche Schaeffer 1987, p. 158, ha notato come “l’arte fotografica in quanto istituzione museale, sembra oscillare in permanenza tra il documento e il monumento.”

[52] Paolo Fossati, Appunti sull’autore e sul suo libro, in Angelo Schwarz, La fotografia tra comunicazione e mistificazione. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1980, p. 12. La posizione espressa da Fossati rispecchia quella di un altro intellettuale, anch’egli torinese ed einaudiano, come Giulio Bollati che nell’aprire gli Annali della “Storia d’Italia” dedicati alla fotografia dichiarava programmaticamente di voler situare quel libro “in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”, Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 3-55 (5).

[53] Per queste ragioni risulta indispensabile riflettere anche sulla “questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno comunemente inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura.”, Ian Jeffrey, Photography. A concise History. London: Thames and Hudson, 1981, p. 7.

[54] Philippe Dubois, L’acte Photographique. Bruxelles: Éditions Labor, 1983, (edizione italiana a cura di Bernardo Valli, L’atto fotografico, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1996, p. 53).

[55] Krzysztof Pomian, Histoire culturelle, histoire des sémiophores, in Jean-Pierre Rioux, Jean-François Sirinelli, dir., Pour une histoire culturelle.  Paris: Seuil, 1996, pp. 73-100 (trad. it., Storia culturale, storia dei semiofori, in Pomian, Che cos’è la storia. Milano: Bruno Mondadori, 2001, pp.129-155), che sintetizza la riflessione ventennale dell’autore intorno a questa categoria di “oggetti che non hanno utilità” ma sono “dotati di significato” in quanto “partecipano allo scambio che unisce il mondo visibile a quello invisibile”, in accezione non necessariamente metafisica, cfr. K. Pomian, Collezione, in “Enciclopedia”, v. 3. Torino: Einaudi, 1978, pp. 330-364.

Fotografia e tutela del patrimonio architettonico in Valle d’Aosta nella seconda metà dell’Ottocento (2012)

“Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali” [della Regione autonoma Valle d’Aosta], 8 (2011- 2012),  pp. 293-302

 

Scriveva Alfredo d’Andrade al Prefetto di Torino nel 1888: “Avendo bisogno di consultare le fotografie dei monumenti regionali per il servizio del Ministero della Pub[blic]a Istruzione del quale sono delegato […] regionale per i Mon[ument]i del Piemonte e della Liguria occorremi sovente di dover consultare la raccolta delle fotografie di monumenti piemontesi (in deposito presso questa Prefettura) fatte dai fotografi Berra ed Ecclesia per ordine e conto del Ministero predetto. Sarei quindi a pregare la S.V. Ill.ma a volere impartire gli ordini opportuni perché temporaneamente vengano le predette fotografie depositate presso quest’Ufficio, e ciò a mente della circolare N° 776 del M. Istr. P. in data 6 giugno 1885”[1]. Nonostante il puntuale, burocratico richiamo il Prefetto declinò fermamente l’invito poiché, spiegava, “Le fotografie […] fanno parte dell’inventario di questa R[egi]a Prefettura; ed inoltre ogni qualvolta la Commissione Consultiva Conservatrice dei Monumenti d’Arte e d’Antichità lo crede opportuno ne chiede visione, epperciò bisogna che le abbia costantemente a di Lei disposizione. Sono quindi spiacentissimo di non poter corrispondere alla richiesta della S. V. Ill.ma, ma le dichiaro contemporaneamente, che le predette fotografie sono sempre a sua disposizione”[2]. Questa schermaglia, che si risolverà in data non meglio precisata a favore di D’Andrade, come conferma la presenza di alcune di queste stampe negli archivi fotografici dell’Ufficio beni archeologici della Soprintendenza per i beni e le attività culturali di Aosta e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino[3], fornisce indizi ed elementi in merito a due aspetti non secondari della storia della tutela del patrimonio culturale in Valle d’Aosta: il contrasto, neppure troppo velato e a volte aspro, tra la Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino (insediata nel 1878) e i neonati (1884) Delegati regionali designati dal Ministero e la rilevanza che si attribuiva alla campagna fotografica documentaria promossa nel 1882 dalla Commissione stessa, testimoniando quale fosse l’idea di ‘monumento’ e quindi di patrimonio da conoscere e tutelare espressa dalla cultura torinese e aostana in quegli anni.

Le vedute, di mano di autori stranieri che per le più diverse ragioni avevano attraversato la Valle richiamando per la prima volta l’attenzione sullo stato dei luoghi (Christian Friederich Müller, 1805 circa; James Pattison Cockburn, 1822-1823)[4], offrivano sporadiche e spesso fantasiose rappresentazioni dei soggetti architettonici, col gusto per il pittoresco a forzare la mano, specialmente nelle tavole dedicate a illustrare le guide, in cui prevaleva l’attrazione tutta romantica per gli elementi naturali, orridi o sublimi. Diverso il caso dell’album di Henriette-Ann Fortescue-Hoare[5], 1817, in cui a una raffigurazione convenzionale e pacata degli elementi naturali corrisponde un’attenzione certo inedita per le architetture anche minori, mentre i castelli già illustrati da Cockburn in una forma scenograficamente idealizzata fanno la loro sistematica comparsa;prima vera anticipazione di uno dei topoi dell’immagine e   dell’immaginario valdostano. I monumenti archeologici romani, appena considerati da Müller (Porta Prætoria, ponte di Châtillon) vennero per la prima volta descritti dal barone De Malzen (1826), in una più ampia rassegna dedicata agli Stati di terraferma del Regno di Sardegna[6], illustrati con belle litografie ricavate significativamente dai disegni di un architetto di gusto neoclassico come Giuseppe Talucchi, appena pochi anni prima che prendesse avvio la ricognizione graficamente più approssimativa ma sistematica di Clemente Rovere, che tra 1829 e 1830 percorse la Valle fornendo descrizioni attendibili dello stato dei luoghi, alternando le vedute alpine con quelle di città e paesi (Aosta, Courmayeur, Montjovet, Verrès, Villeneuve, Piccolo e Gran San Bernardo, il Monte Bianco), alcuni resti romani (Arco e Teatro ad Aosta, l’arco a Donnas, Pont d‘Aël, il ponte di Châtillon), pochi monumenti aostani (cattedrale, castello di Bramafam, Torre del Lebbroso), il ponte-acquedotto di Porossan, ma soprattutto moltissimi castelli: Aymavilles, Châtillon, Fénis, Montjovet, Introd, Quart, Sarre, Saint-Denis, Saint-Pierre, Verrès, mentre molti altri (tra cui Issogne e Ussel) inspiegabilmente mancano[7]. L’iconografia della Valle incominciava ad articolarsi definendo la propria immagine eterogenea e complessa e forse non è un caso che questa fosse dovuta a uno sguardo più topografico che erudito, a un’intenzione esplicitamente documentaria, che per questo si apriva a considerare anche il paesaggio alpino e le montagne, tema che ritroveremo ancora segnalato sin dal titolo nella ben nota tavola litografica di Enrico Gonin, Vues principales de la cité et de la Vallée d’Aoste, des eaux minerales et des plus hautes montagnes d’Europe, 1851, con le vedute alpine impaginate quasi a formare  una veduta circolare, posta a coronamento del panorama del capoluogo[8]. È sufficiente scorrere questa breve serie di esempi per rilevare come non compaiano ancora, in quegli anni, autori  valdostani a descrivere e rivendicare il patrimonio artistico quale elemento costituente dell’identità valdostana, ancora in bilico tra romanità centrifuga, in qualche modo extraterritoriale, e Medioevo centripeto, tutto e fortemente locale, tutto aostano, questione resa ancor più complessa da un altro, forte conflitto identitario: quello tra natura e cultura, tra montagne e architetture. “Combien de fois […] murmurai-je  contre les peintres qui, selon moi, perdaient leur temps près des murs délabrés de nos vieilles tours du moyen âge?”[9]  scriveva Georges Carrel circa gli stessi anni presentando il  suo Panorama Boréal de la Becca di Nona (1855), costretto a disegnarlo di propria mano (con l’aiuto della camera obscura) e a fotografarlo dopo il rifiuto opposto da tutti i pittori a cui lo aveva proposto, tra i quali Conrad Zeller[10]  di Zurigo. Carrel si risolse a “prendre le crayon […] sans avoir aucune notion de dessin, et j’esquissai de mon mieux, à l’aide d’un prisme de foyer de 50 centimètres environ et même du daguerréotype, le Panorama de la Becca di Nona, dont je ne publie qu’un tronçon en forme d’essai”. Questa testimonianza risulta fondamentale anche per quel che riguarda  la nascita della fotografia in Valle d’Aosta, sebbene la data in cui Carrel inizia a praticare l’ancora relativamente nuova e sorprendente tecnica del dagherrotipo debba essere anticipata almeno di alcuni anni se nell’edizione del 1853  del romanzo di Xavier de Maistre, Le Lépreux de la Cité d’Aoste, Aosta, Damien Lyboz, curata dallo stesso Carrel, compare una “Tour du Lépreux Daguerréotypée” (siglata G.C.C.A) certamente dovuta al curatore, che già nel 1845  non solo si era fatto acquistare a Torino, dall’amico Louis  Jules Ransis, dei composti chimici certamente necessari per il trattamento delle immagini come il cloruro d’oro e l’iposolfito di sodio, ma aveva realizzato un ritratto al dagherrotipo di Émilie Argentier in tenuta da alpinista, poi appartenuto al figlio Anselme Réan e un altro non meglio specificato “portrait au daguerrotype” di un comune amico del prevosto del Gran San Bernardo, Joseph Deléglise[11]. La bella veduta della Torre del Lebbroso, che per ora conosciamo solo nella versione incisa, potrebbe allora essere la più antica fotografia di un monumento aostano ed è rilevante notare che le motivazioni da cui nacque questo interesse, questa prima eccezionale realizzazione, fossero storico letterarie piuttosto che storico artistiche, a  conferma delle posizioni del canonico.

Si dovrà attendere quasi un ventennio perché fosse affidato alla fotografia il compito quasi sistematico di illustrare i “principali Monumenti antichi” della Valle, seguendo una direttrice geografica che partendo da Pont-Saint-Martin giungeva sino ad Aosta: La vallée d’Aoste monumentale: photographiée et annotée historiquement, che i due avvocati e “amateur photographers J. Riva e P. Meuta” (questo l’ordine con cui firmano l’introduzione, mentre al frontespizio è “Meuta e Riva”), pubblicarono ad Ivrea presso la tipografia Garda nel 1869[12], un bell’album contenente trentuno stampe all’albumina corredate di brevi testi esplicativi da loro stessi redatti, in francese[13], che potrebbe aver avuto come modello editoriale l’analogo Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure aveva pubblicato solo due anni prima in un più lussuoso formato, affiancando alle vedute “variati articoli dettati da distinti scrittori”[14].

I monumenti romani rappresentati erano numerosi (Pont-Saint-Martin, Donnas, Châtillon, Liverogne, il Pont d‘Aël e, per Aosta, Arco di Augusto, mura romane, Porta Prætoria, il Teatro), forse risentendo degli studi di Jean-Antoine Gal (Coup-d’œil sur les antiquités du Duché d’Aoste) e di Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis, entrambi editi nel 1862, ma le presenze medievali erano in assoluto prevalenti, nonostante alcune clamorose e apparentemente ingiustificabili assenze come Sant’Orso e, ancora, Issogne. Risiede nella natura fotografica dell’opera il valore storico documentario di questa impresa, diverso e più attendibile di quanto non potesse essere quello reso possibile dalla sistematica raccolta iconografica del solo, vero e qualificato antecedente: La Vallée d’Aoste che Édouard Aubert aveva pubblicato a Parigi, presso Amyot, nel 1860, dopo quasi un decennio di perlustrazioni e indagini, svolte anche con la collaborazione di Jean-Antoine Gal e specialmente di Georges Carrel[15]. Quelle che compongono l’album sono fotografie di grande interesse, che mostrano una notevole cura compositiva, attenta specialmente a restituire le relazioni spaziali piuttosto che le singole architetture isolate dal contesto, seguendo in questo, e a volte quasi citando proprio le tavole di analogo soggetto pubblicate da Aubert (si confrontino, a puro titolo di esempio, la ripresa di Pont d‘Aël o quella dell’Arco di Augusto, con cui condividono la distanza e il punto di vista). Diversamente dalle incisioni, queste fotografie possiedono come si è detto anche un più stringente valore documentario, poiché descrivono in modo necessariamente, culturalmente più fedele, lo stato dei luoghi negli anni immediatamente successivi all’Unità, vale a dire ben prima che l’interesse erudito per il patrimonio archeologico e architettonico valdostano producesse interventi di restauro della più diversa natura e livello qualitativo. La produzione dei fotografi valdostani (o attivi in Valle) in quel periodo è ancora quasi del tutto sconosciuta, ma risulta difficile credere che la stereoscopia del castello di Verrès realizzata da Julien Vuillier di Courmayeur intorno al 1870 non facesse parte di una serie più ampia di cui oggi si è persa traccia[16], utile anche per comprendere quanto gli studi e le pubblicazioni erudite potessero aver influito su una produzione decisamente commerciale e a basso costo quale era quella delle stereoscopie e, ancor più, delle immagini in formato carte de visite.

Erano gli anni in cui il nuovo stato unitario iniziava a prestare una precisa attenzione alla conoscenza (e in parte alla tutela) del patrimonio architettonico. Il 6 maggio 1870  Cesare Correnti, ministro della Pubblica Istruzione, scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, precisando in una successiva comunicazione, indirizzata alle Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti, di essere “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”[17].  A queste lettere di intenti fece seguito il decreto ministeriale del 3 agosto dello stesso anno, a cui il Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio rispose dichiarando tutta la disponibilità “ad additare al Governo le opere e gli edifizi più degni di conservazione e di restauro per antichità, per memorie storiche, per interesse artistico che si trovano in Piemonte”, dove il richiamo ai concetti di conservazione e restauro introduceva una importantissima variazione nella gerarchia dei parametri di giudizio, ormai non più meramente conoscitivi ed eruditi. La Commissione, presieduta da Panissera e composta da Francesco ed Enrico Gamba, Bartolomeo ed Andrea Gastaldi, Federico Pastoris, Vittorio Avondo, Carlo Ceppi, Edoardo Arborio Mella e Carlo Felice Biscarra, comunicò l’esito delle proprie indagini alla Giunta di Belle Arti istituita presso il Ministero, Sottocommissione per i Monumenti Nazionali, il successivo 27 aprile 1871; per la Valle d’Aosta, nella selezione operata dal “pittore e antiquario” Avondo, erano indicati solamente la chiesa e la “collegiale” di Sant’Orso, il duomo di Aosta, e i castelli di Fénis, Issogne e Verrès, non considerando quindi alcuna testimonianza di architettura romana, lontana dagli interessi del Commissario a cui era stata assegnata la ricognizione di questo territorio[18].  L’esito di questa campagna nazionale venne pubblicato nel 1875 sotto forma di Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni[19], mentre la parte relativa al Piemonte, ovviamente comprensiva della Valle d’Aosta, venne edita nel 1879 da Carlo Felice Biscarra, col titolo, a quella data un poco fuorviante, di Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte[20]. Frattanto il Ministero aveva emanato il Decreto di istituzione delle Commissioni conservatrici, su modello fiorentino, modificandone nel contempo la giurisdizione, che passava da scala regionale a provinciale, ciò che portò nel triennio 1874-1876 a un incremento di ben ventisette nuovi organismi locali, che vennero ad aggiungersi a quelli già attivati nel 1866, legati da un programma unitario ma nei fatti fortemente differenziati a seconda delle specificità locali.

La Regia Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e di antichità per la Provincia di Torino venne istituita il 18 maggio 1876 avendo per membri sette soci della Società di Archeologia[21]  che divenne “organo della commissione conservatrice dei monumenti di Belle Arti e di Antichità”, pubblicando periodicamente nei propri “Atti” i principali argomenti trattati nelle diverse riunioni, presiedute dal Prefetto. Dal 31 ottobre 1878 al 15 luglio 1879 la Commissione tenne quattro sedute; nel corso della prima, oltre a discutere del progetto di restauro dell’ “antico granaio militare di Aosta”, decidendo di attendere una specifica relazione di Promis, venne comunicata “la richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione di avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e che con la scorta dell’elenco dei monumenti, approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti, volesse la Commissione indicare per ciascuno dei più importanti monumenti le figure d’insieme e i dettagli che meglio valgano a darne una chiara idea”. I membri Biscarra e Fabretti fecero notare come quell’elenco fosse incompleto e opinabile, mancava infatti come si è detto ogni riferimento agli edifici romani e per questo affidarono poi allo stesso Biscarra il compito di “migliorarlo”[22].  Il ricorso alla fotografia nelle campagne di documentazione archeologica non era estraneo all’ambito operativo della Società di Archeologia e Belle Arti (poi SPABA), come risulta dai rendiconti di questi anni, che registrano acquisti da Felice Alman e dai fratelli Bruneri[23], ma l’iniziativa ministeriale costituiva, per sistematicità e chiarezza di impianto, un incommensurabile salto di qualità, ben esplicitato dalle indicazioni contenute nel prosieguo della stessa circolare: “Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30×0,40”[24].  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle più avanzate iniziative europee, sviluppate a partire dal modello costituito dalla Mission Héliographique promossa dal governo francese nel 1851[25]. Non sono sinora note le ragioni per cui intercorse un così ampio lasso di tempo tra la formulazione della richiesta  ministeriale e la sua attuazione, ma si dovette attendere la seduta del 18 giugno 1881 affinché la Commissione conservatrice deliberasse di “invitare i migliori fotografi ad una specie di concorso. Agli artisti prescelti si associerebbe [sic] un membro della Commissione per assisterli nelle operazioni di rilievo, e per indicare la parte di maggior importanza artistica da riprodurre”[26] e solo nella successiva riunione in data 8 febbraio 1882 la Commissione assegnava a Giovanni Battista Berra e Vittorio Ecclesia “l’incarico di rilevare i monumenti esistenti nella Provincia di Torino”, sottoponendo al Ministero le condizioni del contratto già approvato dalla Commissione stessa, “commettendo all’uno [Berra] i rilievi dei monumenti dei circondari di Torino e di Susa, e all’altro [Ecclesia] quelli dei circondari di Aosta e d’Ivrea, assistiti dai signori Biscarra e [Crescentino] Caselli”[27].

Le ricerche archivistiche sinora condotte non ci hanno purtroppo consentito di reperire l’elenco dei “migliori fotografi” piemontesi invitati al concorso, quindi neppure di ricostruire il dibattito che portò alla scelta dei due professionisti incaricati o alle caratteristiche del loro contratto, ma la scelta finale appare più che motivata in relazione al panorama del periodo. Nonostante la rilevanza del suo operato, risultano ancora sconosciute le ragioni che portarono Giovanni Battista Berra (Chivasso, 1811 o 1817 – Torino, 1894) ad abbandonare una pratica pittorica di discreta qualità (si veda il suo Ritratto di famiglia, 1856)[28]  per dedicarsi compiutamente alla fotografia, così come sono contraddittorie le informazioni relative alle date in cui avrebbe assunto la direzione della Fotografia Subalpina, fondata da Domenico Berra e Leone Mecco nel 1862, studio attivo sin dai primi anni nella documentazione delle opere d’arte, a partire dalle innovative illustrazioni per gli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino nel 1868 e oltre, ampiamente celebrate dalla stampa locale: “Il Berra è uno dei più distinti artisti di Torino […] come fotografo poi egli dà al pubblico dei lavori finiti, eleganti, irreprensibili. Speriamo che la fotografia del quadro del Gamba verrà posta in vendita, e non vi sarà amico dell’artista, ammiratore del quadro che non vorrà farne acquisto. La tela ce la pigliano gli stranieri, conserviamone noi la fotografia”[29]. Negli anni successivi la fama del fotografo si consolidava sia per la riconosciuta qualità delle produzioni autonome sia attraverso la realizzazione di importanti commesse, quali alcune riprese per l’album che la Città di Torino presentò all’Esposizione di Vienna del 1873 e il grande album dedicato ai dipinti e alle sculture esposte alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, Torino 1880, di cui strategicamente donò due copie a Umberto I e al Municipio di Torino[30].

Non meno noto e stimato era Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe, 1847-  Asti, 1928), sebbene da alcuni anni, dopo un importante apprendistato e avvio di attività torinesi[31], si fosse trasferito ad Asti dove nel 1878 aveva realizzato un bell’album contenente sedici vedute della città, premiato a Napoli nello stesso anno, mentre subito dopo “riprodusse, sotto la direzione degli ispettori degli scavi e monumenti antichi di Casale ed Asti, alcuni dei più importanti monumenti dei tempi andati […] rappresentati nell’assieme e nelle loro parti più importanti […]. Consta questa raccolta di 39 tavole in dimensioni non comuni (510x 400 mm)”[32]. L’importante documentazione del patrimonio architettonico monferrino, condotta per incarico dei Commissari astigiani dovette costituire la ragione della scelta dei colleghi torinesi, che proprio ad Ecclesia affidarono la parte più consistente del lavoro. La campagna fotografica, certamente avviata ad agosto[33],  venne conclusa entro l’inverno e nella seduta del 18 dicembre 1882 la Commissione conservatrice dei monumenti prese “cognizione delle fotografie dei monumenti esistenti nei Comuni della Provincia, eseguite dai fotografi cav. Battista Berra e Vittorio Ecclesia, lodandone il lavoro”[34], mentre una nota redazionale del periodico “Arte e Storia”, nel numero del maggio successivo, descrive la consistenza di questa serie di “grandi fotografie illustrative delle antichità della provincia di Torino che formano una raccolta specialissima di numero 103 grandi tavole [nel formato 30×40 cm richiesto dal Ministero] splendide per esecuzione e per impostazione di documento storicoartistico. L’egregio Biscarra presentò al Ministero della Pubblica Istruzione tale raccolta che figurerà nella grande esposizione generale italiana di Torino nella sezione di Architettura e desterà certamente vivo interesse negli estimatori delle artistiche antichità”[35].  Ad Ecclesia era stato affidato il compito più impegnativo sia per estensione territoriale dell’area considerata sia per il totale delle riprese commissionate, che per la sola Valle d’Aosta (escludendo quindi Ivrea) assomma a ben sessantatre, relative a diciotto diversi monumenti, prevalentemente aostani (undici)[36] dei quali in alcuni casi secondo una consuetudine comune a tutti gli studi fotografici ottocenteschi sono note anche stampe di dimensioni minori, e quindi più economiche, ricavate da riprese con apparecchi di differente formato poiché la stampa a contatto, allora la sola possibile, non consentiva di ricavare per proiezione, a partire da un unico negativo, quelle stampe di differente grandezza che erano necessarie a soddisfare le diverse esigenze di mercato[37]. Confrontando la campagna di Ecclesia con quella di Meuta e Riva[38] e non considerando per ora la qualità delle immagini, su cui torneremo, risulta evidente quanto fossero diversi gli scopi e di conseguenza le impostazioni. Mentre l’Album del 1869 voleva offrire uno sguardo antologico sulle architetture della Valle, con una scelta ampia e variegata ma dedicando a ciascun monumento una sola immagine, la regia della Commissione conservatrice impose a Ecclesia una selezione più rigida, dalla quale furono esclusi ad esempio i castelli “minori” e l’arco di Donnas, ma una lettura più analitica dei singoli edifici: sei e sette riprese rispettivamente per la cattedrale Santa Maria Assunta[39] e per Sant’Orso; quattro per la Porta Prætoria; dieci per Verrès e addirittura quindici per Issogne, con uno squilibrio certamente dovuto all’influenza sui membri della Commissione di Vittorio Avondo, con cui Ecclesia avrebbe realizzato due anni dopo uno specifico album dedicato al castello[40]. Nonostante questi squilibri il repertorio si presentava ben più ampio e articolato di quello compreso nell’Elenco del 1871, in particolare per la rilevante presenza delle più importanti architetture romane, sulle quali aveva recentemente richiamato l’attenzione il canonico Édouard Bérard, segretario dell’Académie Saint-Anselme, pubblicando il proprio, ricchissimo repertorio nella forma di una lunga lettera ad Ariodante Fabretti, anche allo scopo di “indiquer à S.E. le Ministre de l’Instruction Publique […]les réparations urgentes qu’exigent les antiquités de la vallée [sic] d’Aoste”[41].  Posto che il programma delle riprese, vale a dire l’elenco dei soggetti e dei loro eventuali dettagli venne certamente stabilito dalla Commissione conservatrice e dal membro incaricato di assistere il fotografo, Caselli, il confronto con le immagini comprese nell’album di Meuta e Riva, evidenzia sostanziali differenze di impostazione delle riprese, esaltate anche dall’uso di  lastre di grande formato (317×419 mm) alla gelatina bromuro d’argento. Ecclesia ha adottato punti di vista sempre ravvicinati, riducendo il contesto ai minimi termini per migliorare la leggibilità dell’edificio di volta in volta considerato o per esaltarne la monumentalità, come accade ad esempio nella ripresa scorciata di una porzione del fronte occidentale dell’Arco di Augusto o nella vista assiale dell’arcata del ponte romano di Pont-Saint-Martin, in cui ha adottato efficacemente i modi delle più innovative riprese di manufatti industriali in ferro, come i ponti ferroviari. Anche quando le condizioni ambientali imponevano un identico punto di vista, come per i resti del ponte di Châtillon le differenze, sebbene più sottili, risultano fondamentali: la scelta del momento della giornata, e quindi dell’illuminazione, rende perfettamente leggibili i resti altrimenti in ombra. Nella maggior parte delle riprese le luci quasi zenitali, le ombre sempre morbide, evidenziano i volumi senza celare neppure il minimo dettaglio, come nella migliore pratica e nella già allora consolidata tradizione della fotografia di architettura. Poi su suggerimento dell’architetto si trovava sempre un angolo verticale cui far aderire la stadia, portata dal giovanissimo assistente di Ecclesia che compare in molte di queste immagini, quasi sempre la sola figura ad animare la scena. Posto perfettamente in chiave all’arco, a misurarne direttamente spessore e altezza della spalletta nella ripresa da valle di Pont-Saint-Martin, o in collocazioni meno evidenti ma sempre appropriate, il riferimento metrico venne utilizzato in quasi tutte le riprese, per consentire una prima sommaria restituzione grafica degli edifici fotografati, alcuni dei quali erano proprio in quegli anni oggetto di particolari attenzioni, come la Tour du Pailleron, minacciata addirittura di distruzione, o la Porta Prætoria, di cui la serie documenta indirettamente anche i discussi interventi  in corso, su progetto dell’ing. Chabloz e del canonico Bérard, rispetto ai quali il Ministero aveva già chiesto un parere alla Commissione il 29 maggio 1879 e che saranno poi rimossi da Alfredo d’Andrade nell’ottobre del 1892[42].

 

 

Note

[1] Minuta di lettera, datata 14/11/1888, ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie.

[2] Lettera, s.d., ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, Carteggio dell’Ufficio, Fotografie, f. 2.

[3] Il testo che qui si presenta costituisce l’esito parziale delle ricerche svolte a supporto della campagna di catalogazione dei fototipi storici conservati presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino, promossa dal Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali dell’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione Autonoma Valle d’Aosta.

[4] Il tema della costruzione iconografica dell’identità della Valle d’Aosta è stato diversamente trattato in Valle D’Aosta nelle immagini dei viaggiatori dell’ottocento : collezione della Soprintendenza per i beni culturali della regione autonoma della Valle D’Aosta, catalogo della mostra permanente (Verres), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo nazionale della montagna, 1986; Marco  Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine: le antichità, le terme, la montagna alle radici del turismo alpino. Roma – Bari,Laterza, 1994; Daria Jorioz, Souvenirs d’ltalie. lconografia del Grand Tour nelle collezioni d’arte della Regione Autonoma Valle d’Aosta, in Memorie del Grand Tour. Viaggio in ltalia nelle fotografie degli archivi Alinari e nelle collezioni d’arte della Regione autonoma Valle d’Aosta, catalogo della mostra (Aosta, MAR, 19 dicembre 2008 – 3 maggio 2009), a cura di Angelo Maggi. Firenze: Alinari, 2008, pp. 14-17; Piero Malvezzi, Viaggiatori inglesi in Valle d’Aosta (1800-1860).  Milano: Ed. di Comunità, 1972; Ada Peyrot, La Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal IV al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese editrice, 1972; Ada Peyrot, Piero Malvezzi, Efisio Noussan, Immagini della Valle d’Aosta nei secoli, vedute e piante dal XVI al XIX secolo. Torino: Tipografia Torinese, 1983. Come ha ricordato Malvezzi 1972, p. 16, “La prima letteratura turistica sulla Valle d’Aosta, è letteratura inglese e non valdostana o piemontese.”

[5] Si vedano: Penelope Le Fanu-Hughes, One of your best pupils, Francis Nicholson and the honorable Henrietta-Ann Fortescue, in memory of Piero Malvezzi, “The Old Water-Colour Society Club”, 63 (1994), pp. 51-69; Pierre Tucoo-Chala, Les Pyrénées en 1818 : Dessins  inédits d’Henrietta-Ann Fortescue-Hoare, in Une Anglaise aux Pyrénées : Lady Fortescue, catalogo della mostra (Pau, Musée national du château, février-mars 1996). s.n. Portet-sur-Garonne, 1996; Giuseppe Garimoldi, Daniele Jalla, a cura di, Henrietta Anne Fortescue: viaggio in Valle d’Aosta, settembre dicembre 1817, catalogo della mostra (Forte di Bard, 2006). Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[6] De Malzen, Monumens d’antiquité romaine dans les états de Sardaigne en terre-ferme par M. le Baron de Malzen, Chevalier de l’Ordre de Malte, Ciambellan [sic] de S. M. le Roi de Bavière, et son Chargé d’affaires à la Cour de Sardaigne. Turin: s.n., 1826. I soggetti valdostani comprendevano tra gli altri il ponte di Pont-Saint-Martin, l’arco di Donnas, il ponte di Saint-Vincent, il Teatro di Aosta e il Pont d’Aël, anticipando l’attenzione per alcuni degli edifici poi studiati con ben altro rigore da Carlo Promis, Le antichità di Aosta: Augusta Prætoria Salassorum, misurate, disegnate, illustrate da Carlo Promis. Torino: Stamperia Reale, 1862.

[7] Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978.

[8]  Più convenzionale risulta, in questo senso, la serie litografica di Margherita Cornagliotto edita dai F.lli Doyen nel 1848: 1. Ponte acquedotto romano presso Aymavilles; 2. Castello di Sarre; 3. Castello di Fénis; 4. Castello di Quart; 5. Castello di Saint-Pierre; 6. Castello di Aymavilles; 7. Torre di Bramafam; 8. Acquedotto di Porossan; 9. Veduta generale di Aosta; 10. Cattedrale di Aosta; 11. Teatro romano di Aosta; 12. Ponti di Châtillon, cfr. Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, III, scheda n. 1431.

[9]  George Carrel, Les Alpes Pennines dans un jour, soit, Panorama boréal de la Becca de Nona depuis le Mont-Blanc jusq’au Mont-Rose.  Aoste: Lyboz, 1855, p. 7 passim. Mentre il frontespizio indica un editore aostano, la copertina dell’esemplare consultato presso    la Biblioteca Reale di Torino recita: The Pennine Alps viewed in a day’s journey. Panorama de la Becca de Nona Vallée d’Aoste, dess.ne [sic] d’après nature pendant l’été de 1854. Turin: Lit. F.lli Doyen, 1855, a testimonianza di una doppia edizione, tale da soddisfare la maggior parte dei possibili acquirenti stranieri. Anche il fotografo francese Aimé Civiale avrebbe realizzato un panorama fotografico dalla Becca di Nona circa 10 anni dopo, il 9 luglio 1866, ospite proprio di Carrel, cfr. Carla Fiou, Daria Jorioz, Georges Carrel: Scienza e religione in Valle d’Aosta nell’Ottocento. Aosta:  Le Chateau, 1999, p. 102.

[10] Johann Conrad Zeller (Hirslanden, 1807 Zurigo, 1856) nato da una famiglia di commercianti, dopo aver preso lezioni di disegno da Konrad Gessner, nel 1832 rinunciò alla sua carriera di imprenditore e si trasferì a Roma, dove venne introdotto da Hans Heinrich Keller nella cerchia di Thorvaldsen, Overbeck, Johann Anton Koch e Wolfensberger, per rimanervi sino al 1847, anno del suo ritorno a Zurigo.

[11] Fiou, Jorioz 1999, in particolare il paragrafo Fotografia (pp. 100-103) redatto da Jorioz. Secondo Albert-Marie Careggio, Le clergé valdôtain de 1900 à 1984. Notices biographiques.  Aoste: Imprimerie valdotaine, 1985, p. 45, segnalatomi da Maria Cristina Fazari che qui ringrazio, fu invece un altro religioso, Jean-Pierre Carrel (Valtournenche, 1826 Aosta, 1908), nipote di George, il primo ad utilizzare il dagherrotipo in Valle, ma credo che   tale attribuzione a mio parere errata, anche per ragioni cronologico   biografiche possa derivare dal ricorso a fonti piuttosto tarde, forse i soli necrologi del 1908, che verosimilmente riportavano in modo impreciso eventi ormai lontani più di mezzo secolo.

[12] Il volume ebbe immediata notorietà, tanto da essere compreso già nella bibliografia a corredo della terza edizione di John Ball, A guide to the Western Alps. London: Longmans, Green and Co., 1870. Per una sintetica descrizione dell’album si rimanda a Pietro Fioravanti, Daniela Giordi, ll restauro di una copia del volume fotografico La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et commentée par P. Meuta et J. Riva, edito nel 1869 a lvrea dalla tipografia Garda, “Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali”, 5 (2008 – 2009), pp. 310-315. Un esemplare dell’album e una selezione di immagini (in riproduzione) erano già stati esposti alla mostra tenutasi presso il Museo Archeologico Regionale nel 2008-2009 e pubblicati in Memorie del Grand Tour 2008.

[13] “Tutti i castelli, i ponti, gli acquedotti sono annotati, con alcuni cenni storici altrettanto esatti quanto concisi, e se un neo volessimo trovare in questo lavoro gli è quello di avere scritto le annotazioni in francese, mentre gli autori sono due buoni italiani; ma questo diffettuccio va spiegato come un tributo che essi vollero rendere ai buoni Valdostani descrivendo il loro paese colla lingua da essi parlata.”, Salvatore Olivetti, La Vallée d’Aoste monumentale, photographiée et annotée historiquement, par Riva et Meuta, “Gazzetta Piemontese”, n. 241, lunedì 30 agosto 1869, p. 3.

[14] Redazionale, Torino antico e moderno, “Gazzetta Piemontese”, n. 301, 8 dicembre 1867, p. 2. Per una riedizione del volume si rimanda a Michele Falzone Del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987.

[15] Peyrot 1972; Fiou, Jorioz 1999, p. 9. Qui si coniugavano per la prima volta paesaggio e storia. Le 90 incisioni pubblicate costituiscono un vero e proprio catalogo illustrato del patrimonio architettonico anche minore (Gressan, Porossan, Gignod, Châtelard, ecc.) oltre a molte vedute di paesi e paesaggi alpini. La presenza di Carrel accanto ad Aubert consentirebbe di formulare ipotesi rispetto al possibile uso della fotografia, del dagherrotipo in particolare, quale fonte intermedia per le incisioni, che il frontespizio dichiara ricavate “d’après les dessins de l’auteur”, sul modello delle parigine Excursions daguerriennes: vues et monuments les plus remarquables du globe (1841-1843) di Noël-Marie Paymal Lerebours e delle Vues d’Italie d’après le Daguerréotype pubblicate a Milano nel 1840-1847 dalla ditta Ferdinando Artaria e Figlio, ma non è questa l’occasione per condurre i necessari approfondimenti.

[16] l fotografi della Valle d’Aosta 1870-1940, catalogo della mostra (Aosta, Tour Fromage, 1986),  a cura di Gianfranco Maccaferri. Aosta: Regione Valle d’Aosta, 1986, p. 48. Di Vuillier è nota anche una veduta della Torre del Lebbroso, 1870 ca, in formato carte de visite, ma sono note anche due stereoscopie, dedicate rispettivamente a Fénis e a Ussel, realizzate circa gli stessi anni da uno dei più importanti studi fotografici europei: Adolphe Braun di Dornach.

[17] Lettere rispettivamente del 6 maggio e del 12 agosto, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”. Salvo diversa indicazione, tutti i documenti di seguito citati sono  compresi in questo fondo.

[18] L’assenza di sistematicità e il prevalere degli interessi dei singoli studiosi connotano tutta la redazione di questo primo elenco di beni.

[19] Elenco dei monumenti nazionali medievali e moderni.  Roma: Forzoni e C. Tipografia del Senato, 1875.

[20] Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, II, 1878, pp. 255-279; lo scarto tra compilazione e pubblicazione è confermato dai dati relativi a Issogne, che nel testo è ancora indicato di proprietà del “barone di Vautheleret” mentre in nota si registra ormai l’acquisto di Avondo “verso il 1872” (p. 264).

[21] Cfr. “Gazzetta Piemontese”, n. 311, 10 novembre 1876, p. 2. Va quindi corretta l’informazione contenuta in Ariodante  Fabretti, Atti della Società (1879),  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, III, 1879, Torino, 1881, pp. 9-15, che parla di 18 maggio 1878, esito forse di un banale refuso, successivamente accolto dagli studiosi che hanno utilizzato questa fonte. Membri della Commissione erano Nicomede Bianchi, Carlo Felice Biscarra, Gaudenzio Claretta, Ariodante Fabretti, Francesco Gamba, Andrea Gastaldi, Vincenzo Promis ed Ercole Ricotti.

[22] Fabretti 1881, pp. 10-11. I testi pubblicati negli “Atti” e, ancor più, alcuni documenti relativi alle sedute della Società rappresentano fonti  imprescindibili anche per la ricostruzione del vivace dibattito intorno ai restauri aostani.

[23] Archivio della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, m. 58/4, Rendiconti delle spese 1874-1910. Gli acquisti erano fatti da tale Francesco Pianta, che i documenti indicano come aiutante di un non meglio definito “fotografo”, mentre altre fotografie erano realizzate da E.  Mancarelli. L’uso però doveva essere piuttosto saltuario e incerto se ancora nel 1879 Enrico Gamba, discutendo di “pitture murali antiche non conosciute ancora” suggeriva di “mettere in pratica il metodo dei lucidi, da eseguirsi con tutta fedeltà sugli originali, da ridursi poi col mezzo della fotografia in una data proporzione a convenirsi per la pubblicazione, incidersi poscia od eseguirsi in litografia a contorni con massima cura per la riproduzione esatta del carattere dell’originale”; proposta sostenuta anche da Pastoris che citava “ad esempio molti studi visti da lui posti in pratica dal D’Andrade anche per quanto riguarda l’arte ornamentale”, osservazione che getta nuova luce sulla precocità del ruolo svolto da D’Andrade quale modello di riferimento metodologico per un’intera generazione di studiosi piemontesi, cfr. Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, m. AABA TO599, “Arte in Piemonte”, Verbali della Commissione Conservatrice.

[24] Il testo della comunicazione ministeriale, non reperito negli archivi torinesi, è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b. 44, f. 413. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali  altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali», Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id., Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni.  7 (1905). Roma: Tip. Della Casa Edit. Italiana, pp. 38-48.

[25] Anne De Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du patrimoine,  2002.

[26] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1880-1882), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 4 (1883), p. 13.

[27] Ibidem.

[28]  In  La borghesia allo specchio: il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Cavour, 26 marzo 27 giugno 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 171.

[29] Red., in “Gazzetta Piemontese”, n. 85, 26 marzo 1870, p. 2, corsivo di chi scrive.

[30] Per una prima ricostruzione dell’attività di Berra cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Allemandi,  1990, p. 358, pur con imprecisioni dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”. È infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che morì nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguita dalle due figlie Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, cui succederanno prima Baratelli e quindi Vittorio Rogliatti, cfr. P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli , a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98. Ricordiamo che nel 1880 venne anche esposta una ricca selezione di      opere d’arte decorativa, tra cui alcuni oggetti provenienti dal Tesoro della cattedrale di Aosta, da Sant’Orso e dalla chiesa di San Biagio di Villeneuve, poi pubblicata nella cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: F.lli Doyen, 1882, senza indicazione dell’autore delle riprese.

[31] Secondo quanto riportato in un foglio pubblicitario molto tardo (1907) Ecclesia avrebbe avuto una prima fase di apprendistato torinese presso Alberto Luigi Vialardi, per divenire quindi, dal 1864, operatore presso l’importante studio di Henri Le Lieure, prima di aprirne uno proprio in società con Rondoni, cfr. Miraglia 1990 p. 379; Pierluigi Manzone, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia. Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese.  Cuneo: Biblioteca civica di Cuneo – Nerosubianco, 2008, ad vocem.

[32] Giovanni Minoglio, Monumenti archeologici astigiani e casalesi, “Gazzetta Piemontese”, n. 21, 21 gennaio 1880, p. 2.

[33] Il 24 agosto Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo che Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo “e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea”, cfr. Sandra  Barberi , a cura di, Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo.  Torino: Allemandi,  1999, p. 93, n. 111. Le ricognizioni di Ecclesia dovettero incrociarsi con quelle di Carlo Nigra, che operava in preparazione del progetto per il Borgo medievale di Torino; così mentre lui fotografava la facciata e lo scalone di Fénis, Nigra riprendeva lo stesso scalone e la cappella adibita a fienile, non considerata dal primo.

[34] “Gazzetta Piemontese”, n. 2,  2 gennaio 1883, p. 3; cfr. anche Fabretti 1883, p. 16.

[35] Red., Torino Antichità torinesi,  “Arte e Storia”, 2 (1883), maggio, p. 168. Per l’elenco delle opere esposte si rimanda a Esposizione Generale Italiana, Arte contemporanea, Catalogo, 1884, p. 123 passim. Nella stessa occasione, nella cosiddetta casa di Avigliana del Borgo medievale, fu installato un chiosco per la vendita delle fotografie ricordo dell’esposizione, con gabinetto di camera oscura, gestito proprio da Ecclesia.

[36] Si fornisce di seguito l’elenco dei soggetti valdostani realizzati da Ecclesia. Aosta: Anfiteatro, Arco di Augusto, Cattedrale, Collegiata di Sant’Orso, Mura romane, Ponte romano (pont de pierre), Porta Pretoria, Priorato di Sant’Orso, Teatro, Torre di Bramafan, Torre del Pailleron. Aymavilles: Pont d‘Aël. Chatillon: Ponte romano. Fénis: Castello. Issogne: Castello. Pont-Saint-Martin: Ponte romano. Saint-Vincent: Ponte romano, resti. Verrès: Castello.

[37] Quale ulteriore indizio della loro circolazione si segnala che anche delle stampe di maggior formato sono note diverse edizioni, a volte distinte da più o meno significative variazioni del titolo o da altri interventi, verosimilmente realizzate in momenti e per fini diversi. Si vedano a titolo di esempio le due versioni della Tour du Pailleron, di cui quella non virata (e non numerata) presenta una rozza mascheratura in corrispondenza del tetto e dello spigolo nordorientale.

[38] Non può essere considerato in questo confronto l’album di Vittorio Besso, La Valle d’Aosta, 1880 ca, dedicato a Umberto I, conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, che contiene solo bellissimi paesaggi prevalentemente alpini (Gressoney, Valtournenche) e tre fotografie di stambecchi e camosci imbalsamati.

[39] Da alcune di queste riprese vennero tratte cartoline ancora all’inizio del ’900: si veda ad esempio quella relativa al portale della cattedrale, edita da Garlanda di Biella, conservata nel Fondo Valle d’Aosta della Soprintendenza torinese.

[40] P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005. Anche in questa occasione emerge la grande attenzione di Avondo per i possibili risvolti commerciali delle proprie iniziative culturali: non può essere casuale la scelta di pubblicare l’album nello stesso anno dell’Esposizione e in particolare della realizzazione del Borgo medievale, del cui gruppo di progetto lo stesso Avondo faceva parte.

[41] Édouard Bérard, Antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 3 (1881), pp. 119-120, successivamente aggiornato in Id., Appendice aux antiquités romaines et du Moyen-Age dans la Vallée d’Aoste, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 5 (1887), pp. 130-156.

[42] Si vedano a questo proposito gli “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della provincia di Torino”, 2 (1879), p. 14 e il resoconto contenuto in ASTO, Corte, Fondo D’Andrade, m. 67.

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Di un Viaggio in Italia, passando per il Piemonte  (2008)

in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932,  II, Le province di Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbania, Vercelli. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp.  319-331

 

L’immagine è semplice: al muro di fondo, basso, coronato di fogliame, con belle pietre squadrate all’angolo destro (il solo visibile) sono poggiati in bell’ordine alcuni oggetti: una scopa di saggina, una vanga, una forca a tre rebbi sul filo dello spigolo. A terra, un poco sulla destra, un annaffiatoio in metallo. Nessuna presenza ulteriore, nessun indizio che consenta di definire meglio il contesto, sebbene la disposizione niente affatto casuale degli attrezzi lasci intendere una certa cura, se non proprio un’ intenzione estetica a orientare le capacità descrittive proprie della tecnica fotografica.  Questo “angolo di muro soleggiato con attrezzi da giardino”, come lo descrisse John Herschel, porta la data del 2 maggio 1840 e la firma prestigiosa di William Henry Fox Talbot[1]. “Wall in Melon Ground, come l’autore identificava il proprio negativo, realizzato ancora con la tecnica del disegno fotogenico, è il primo esempio noto di natura morta fotografica con oggetti quotidiani, poi ripreso dallo stesso autore in The Open Door, 1844,  per la quale Larry J. Schaaf ha parlato di influenza evidente della pittura olandese del Seicento. Insieme costituiscono il prototipo se non proprio il modello, da ricercarsi semmai nella storia della pittura, di una vasta genealogia di immagini, e di modi di vedere, di cui è agevole ritrovare traccia ancora nelle fotografie di Paul Scheuermeier, e oltre.  

Nella produzione degli autori che hanno utilizzato il negativo di carta[2], e ancora in Talbot, si trovano anche i primi esempi del genere poi ampiamente frequentato delle scene di lavoro. Penso a Carpenters at Lacock Estate, del 1842-1845 (Bernard 1981, t. 1), ma anche a The Woodcutters – Nicole and Pullen Sawing and Cleaving, circa degli stessi anni (Schaaf 2000, p. 226), con la posa che mostra strumenti e gesti, con declinazioni e variazioni sul tema che dipendono e riflettono l’insieme complesso e ogni volta diverso costituito dai nessi tra il contesto di realizzazione, le ragioni e la cultura non solo visiva di ciascun autore. Sin dalle origini della fotografia infatti si ritrova “una miriade di esempi di significative convergenze tra l’occhio e i suoi prolungamenti e le teorie e le pratiche antropologiche”  (Faeta 2006, p. 11), che nello stesso periodo andavano definendo compiutamente le loro metodiche, anche mediante il ricorso sempre più consapevole e strutturato all’uso della fotografia[3].  Per gran parte del XIX secolo fu però un’intenzione che chiameremo genericamente ‘artistica’ a orientare l’attenzione dei fotografi verso temi e soggetti di carattere popolare, producendo immagini da vendersi a pittori e incisori, come agli epigoni del Grand Tour.  Per limitarsi all’Italia basti ricordare le opere di professionisti come Celestino Degoix a Genova, di Caneva e altri della Scuola romana, di Bernoud, Conrad  e Sommer a Napoli (anche nelle successive riproduzioni romane di Cesare Vasari), di Incorpora a Palermo[4]. In questa prima fase, che perdura per tutta la cosiddetta età del collodio, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, l’ambito resta quello della fotografia di genere, in relazione di mutua dipendenza con molta produzione pittorica coeva. Con una forte inclinazione per lo stereotipo e per il bozzetto pittoresco quindi, ma pure con una sua certa sistematicità e con l’inevitabile capacità intrinseca di restituirci almeno qualcosa, una qualche traccia di mondi e di modi di essere altrimenti inconoscibili.

Ben più complessa è stata la trama dei rapporti tra cultura fotografica e demologia[5] nei decenni che chiudono l’Ottocento, quando molta fotografia amatoriale rivolse la propria attenzione al mondo popolare, specialmente contadino, mentre la produzione dei grandi studi persisteva in una produzione di accattivante maniera;  valga per tutti l’esempio degli Alinari che nella serie di riprese napoletane del 1896-1897 rischiarono “di trasformare la realtà di una crisi sociale in un sistema di bozzetti di singoli mestieri.” (Quintavalle 2003, p. 410)  Le nuove possibilità offerte dalle emulsioni sensibili alla gelatina bromuro d’argento e il conseguente smisurato ampliarsi della pratica fotografica amatoriale tra la borghesia, per quanto piccola, e la nobiltà terriera inducevano e consentivano una produzione nuova, attenta all’intorno, alle figure del quotidiano e dei mestieri, che si distingueva in modo sempre più marcato (e sovente esplicito) dalla precedente fotografia professionale  di genere. Si sarebbe tentati di dire che con gli amateur la costruzione dell’icona passava in secondo piano, resa semmai implicita a favore di una narrazione della tranche de vie  che comportava di rivolgere l’apparecchio, e  lo sguardo prima verso quel mondo popolare con cui per ragioni e con ruoli diversi ciascun nobile, o borghese persino non poteva non entrare in contatto. Tutti incontravano qualche donna con la gerla, una qualche (bella) lavanderina[6]; tutti conoscevano un vecchio pescatore col corpo segnato dalla fatica e dalla salsedine; un massaro, un pastore  almeno.  Tutti li fotografavano anche senza chieder loro una posa: osti, elettricisti, falegnami e farmacisti, i molti sacerdoti attivi in tante piccole comunità del nord, ma anche i rappresentanti della più colta e letteraria “fotografia signorile”[7], meridionale e non solo. Quasi etnografi loro malgrado, in una singolare concordanza di tempi, che non può essere coincidenza, con quanto la cultura antropologica italiana, specialmente nell’ambito della cosiddetta “scuola fiorentina”, andava elaborando a proposito di uso documentario della fotografia.

Enrico Morselli, commissario per la Sezione di Antropologia dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,  raccomandava  di usare la fotografia “dal punto di vista antropologico” innanzitutto per ritrarre l’uomo “di faccia e di profilo” con intenti antropometrici, quelli stessi che accomunavano Bertillon e Lombroso, riconoscendo però che “alle fotografie scientifiche sarà utile aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale”[8]. Era  proprio in questa seconda accezione, lontana dalla crudele e metodica scientificità di cui gli studiosi si riservavano – almeno in questa prima fase[9] – l’appannaggio,  che la cultura dell’epoca coglieva una possibilità di dialogo, un possibile ruolo da assegnare ai dilettanti, esplicitamente invitati da Giulio Fano a rilevare nelle varie regioni di appartenenza quei tratti caratteristici della cultura e delle manifestazioni popolari che erano a rischio di estinzione per la forza “livellatrice” della “civiltà di fine di secolo (…) sotto l’influenza imperiosa, eminentemente  suggestiva della moda”[10].  La questione venne ripresa e precisata da Lamberto Loria, anch’egli membro della Società Fotografica Italiana, che raccomandava non solo che  le immagini fossero ottenute “per quanto possibile di sorpresa (…) perché nelle persone fotografate non abbiano a mostrarsi (…) atteggiamenti intenzionali”, ma anche che esse venissero integrate “di quelle indicazioni di luogo, di tempo e di misura che sono indispensabili a dare all’oggetto illustrato il suo vero carattere.”[11]  Sul rifiuto della  posa convenivano negli stessi anni anche alcuni fautori della fotografia artistica (in una delle molte accezioni che il termine assunse a cavallo tra Otto e Novecento). Così sulle pagine del “Progresso Fotografico”, nel 1906, si stigmatizzava l’opera di un amateur  “gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce talvolta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto” (Redazionale 1906),  e pochi anni più tardi  Stefano Bricarelli riconosceva a proposito della buona riuscita di scene animate che “una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…). Condizione questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata” (Bricarelli 1913). A questa convergenza di modi, pur con ragioni sottilmente diverse, corrispondeva anche un’unità di intenti che diremmo di conservazione contraddittoriamente nostalgica delle tracce di quel “mondo umile ma pur tanto artistico [i cui] costumi agonizzano sotto i colpi dell’industrialismo dominante”[12], che aveva caratterizzato sin dal periodo post unitario i programmi  e l’opera di organismi quali il Club Alpino Italiano (1863) e poi il Touring Club Italiano (1894), così come di molte altre forme minori di associazionismo ricreativo e culturale.

In questo contesto va collocata e compresa anche la serie fotografica dedicata ai Villaggi e montagne della Val d’Ala che il musicista Leone Sinigaglia, di cui è nota l’attenzione per i canti popolari piemontesi[13],  aveva presentato all’Esposizione di Fotografia Alpina[14] organizzata dal CAI nel 1893 a Torino, ma l’esempio più illustre e compiuto di questa etnografia ideologica, di questa demologia, è il volume che Vittorio Sella e Domenico Vallino[15] dedicarono al Monte Rosa e Gressoney, pubblicato nel luglio 1890 con un ricco apparato di  tavole fuori testo da fotografie di Sella ed immagini nel testo dovute ad entrambi gli autori. “Il traffico più attivo – si legge nell’introduzione all’Album – cancellerà la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire, il dialetto svizzero-tedesco, l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie; porterà un livello medio di civiltà, percorrendo il cammino che il filosofo chiama evoluzione naturale, che l’artista deplora, per la monotonia che ne deriva al quadro della vita umana” (Monte Rosa 1890, p.5). Erano quelli i caratteri che i due autori indagavano e descrivevano con affettuosa attenzione, ripercorrendone le vicende storiche e le forme culturali, esemplificate nella rappresentazione di ambienti e strumenti di lavoro. A questo accompagnando la registrazione delle forme dialettali  attraverso la raccolta dei termini relativi agli strumenti di lavoro, ma anche con la trascrizione di “alcune delle ultime canzoni cantate dalla gioventù, le quali forse non lo saranno più alla fine del secolo [poiché] l’afa che sale dalla pianura, con le maggiori facilitazioni di traffico, non tarderà ad intisichire anche questo fiore presso le sorgenti del Lys” (Monte Rosa 1890, p.53). Il corredo di immagini rivela però intenti più incerti, mostra oscillazioni continue tra il preteso rigore analitico della descrizione e le concessioni al pittoresco dei “quadretti graziosi” e delle “figurine moventesi nel paesaggio verdeggiante”, non senza ricorrere alla pratica del fotomontaggio per risolvere compositivamente un’immagine solo apparentemente documentaria, per rendere più efficace la messa in pagina di una sequenza narrativa. (Dragone 2000, pp.274-275).

Si producevano così testimonianze a futura memoria, quasi un’archeologia del presente, segnate però da quella tensione irrisolta tra razionalità e pittoresco che ritroviamo in molta della fotografia ‘artistica’ di soggetto popolare dei successivi decenni. Non è difficile infatti cogliere in molta di quella etnografia pittorialista un tono passatista: per molti di questi autori non si trattava di comprendere analiticamente una cultura in radicale e definitiva trasformazione, ma di illustrare, celebrare e magari conservare in effigie i reperti di un’arcadia in dissoluzione, proprio negli anni dei primi significativi conflitti sociali. L’attenzione non era ancora rivolta al territorio in mutazione, alle nuove strutture produttive, industriali o agricole, alla città che sale della modernità nascente, ma a ciò che resisteva al cambiamento, residuale e tradizionale, primitivo quasi. “L’etnografia generale – nelle parole pronunciate da Loria in apertura del I Congresso di Etnografia italiana del 1911 – può e deve servire allo studio del nostro popolo perché come il selvaggio ha analogie con l’uomo primitivo, così le nostre classi meno evolute, rimaste indietro nel cammino della civiltà, conservano ancora, nascosti e sopiti, taluni degli istinti e dei caratteri delle genti selvagge”[16].  Era questo il terreno insicuro su cui si muovevano negli stessi anni le pratiche della fotografia artistica e di quella documentaria o scientifica, con confini non immediatamente tracciabili e per molti versi inesistenti, che rappresentano piuttosto l’esito di una storiografia che ha postulato una dicotomia allora non chiaramente percepita né unanimemente condivisa. Se Rodolfo Namias lamentava quanto “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica [avesse] sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie [tanto che] nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra” (Namias 1907), per il  francese Alfred Liégard,  promotore della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie (…). Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document (…).  Il me semble qu’ à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons qui s’appelle l’appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.” (Liégard 1905). Nessuna contrapposizione allora, ma la consapevolezza pur non criticamente attrezzata delle possibilità inscritte nello statuto della fotografia, della sua capacità di mostrare al di là delle intenzioni e dello sguardo dell’operatore, di costruire immagini disponibili a diverse interpretazioni e letture: dal realismo al  simbolismo[17]. Era questa scrittura fecondamente ambigua che aveva attratto Verga, Capuana e De Roberto, quella con cui aveva signorilmente giocato Giuseppe Primoli; quella a cui si era dedicato Francesco Paolo Michetti nel più generale richiamo ideale alla semplicità del sentire proprio di molta cultura ottocentesca, alla sua diffidenza  e resistenza, quando non al rifiuto dell’industrialesimo. È quanto abbiamo già potuto riconoscere nel progetto di Sella e Vallino; è uno degli elementi che nutriva il neoclassicismo, per alcuni metafisico,  di molti autori della scuola di Taormina e di Wilhelm von Gloeden in particolare, di cui intorno al 1900 venivano pubblicate immagini di soggetto popolare sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” e quindi sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, tra 1909 e 1914[18]. Erano queste, insieme alla torinese “La Fotografia Artistica”, le testate che  divulgavano e attraverso cui si confrontava la produzione fotografica italiana, e internazionale in parte, che in modi diversi si richiamava alla fotografia pittorialista con più o meno esplicite attenzioni per il mondo popolare, senza dimenticare il rilevante ruolo svolto dagli editori di cartoline. Penso a Cesare Schiaparelli[19] e ad altri autori minori biellesi come Franco Bogge; penso a Luciano Morpurgo, che nel 1917-1923 realizzò una importante serie dedicata al pellegrinaggio al Santuario della Trinità a Vallepietra, nella Valle dell’Aniene, attratto negli anni precedenti da soluzioni marcatamente pittorialiste[20], ma specialmente ad Andrea Tarchetti,  notaio vercellese le cui Scene di vita e di lavoro ebbero ampia diffusione sulle pagine di quelle riviste[21]. Anche la sua descrizione della vita rurale mostra un approccio sempre in biblico tra bozzettismo e documentazione:  il documento si mescola alla scena di genere e a volte ne emerge con fatica, quasi solo per l’incapacità strutturale della fotografia a escludere il reale, in un processo che direi inverso a quello di molta fotografia etnografica, inevitabilmente segnata dalla cultura visiva del suo tempo. Le fotografie di Tarchetti, segnalate ai lettori quale esempio di eccellenza, venivano pubblicate da “Il Progresso Fotografico” come tavole fuori testo, dal 1904 stampate dallo Stabilimento eliografico Brunner & Co. di Como, avviato proprio in quell’anno da Jacques Brunner come filiale della Brunner & Co. Kunstanstalt di Zurigo, da anni tra i più qualificati stampatori europei, a cui si era rivolto nel 1890 anche Vittorio Sella per la realizzazione dell’album dedicato al Monte Rosa.

Lo stabilimento Brunner, noto editore anche di cartoline, era quindi uno dei luoghi in cui si concentrava e transitava molta della produzione fotografica italiana ed europea destinata alla pubblicazione; una delle sedi in cui migliore era la possibilità di conoscerla. Non è necessario abbandonarsi ad un rigido meccanicismo per immaginare quanto possa aver contato per il giovane Scheuermeier, nel formarsi una propria cultura visiva, lo stretto e duraturo legame con i cugini Brunner, per i quali – come è noto – lavorava sin dal 1895 come fotografo il fratello Willy, che Paul accompagnerà in un memorabile viaggio in Italia nel 1909 “Da Como fino in Sicilia secondo i desideri dei clienti e le necessità dell’azienda” (Scheuermeier 1969, p. 335). Se lo scopo del viaggio fu quello di “reperire nuovi soggetti” allora possiamo veramente riconoscerlo come l’asse portante del suo percorso di formazione fotografica, non solo e non tanto per l’acquisizione sul campo dei necessari rudimenti tecnici, quanto per l’assimilazione dei canoni di rappresentazione che comportava l’assistere alla scelta dei soggetti e delle vedute destinate all’edizione in cartolina. In assenza di specifiche indicazioni di prima mano credo che l’orizzonte entro cui può essersi formata la cultura visiva che si rivela nei modi e nelle scelte compositive delle sue immagini[22], sia da individuarsi nel contesto qui sommariamente delineato per l’ambito italiano; certo non troppo dissimile da quello europeo quale ci viene restituito dai periodici fotografici e dai cataloghi delle esposizioni coeve.

A questi possiamo aggiungere i modelli forniti dalle organizzazioni tassonomiche di oggetti tipiche dei cataloghi illustrati delle grandi collezioni museali come dei campionari industriali e artigianali,  ma soprattutto – credo – il riferimento costituito dalle riprese del suo maestro Jaberg, che già aveva fatto uso di fotografie nel corso delle sue ricerche in Piemonte (Gentili 1997, p. 19) e che fu suo costante punto di riferimento anche metodologico nel corso dei lunghi anni di peregrinazioni per la preparazione dell’AIS.

Quando attraversava la frontiera con l’Italia nei “primi drammatici giorni” del luglio 1920,  dopo le rilevazioni nel Cantone dei Grigioni, Scheuermeier possedeva certo la preparazione tecnica e il supporto logistico[23] necessari a condurre al meglio la campagna fotografica prevista a corredo e supporto dell’indagine linguistica. Possedeva anche una sua propria cultura visiva, mentre gli scopi e il metodo si sarebbero precisati e affinati nel corso del lavoro[24].

Inattese forse, e solo in parte dovute al clima incerto di quegli anni di primissimo dopoguerra,  furono invece le reazioni alla sua presenza di “straniero con la macchina fotografica”, impreparato  “ad avere sulla [sua] scia la voce sussurrata che [fosse] una ‘spia’ ” (Scheuermeier 1969, p. 342), obbligato quindi a rivolgersi al viceconsole svizzero a Como al fine di ottenere per suo tramite i permessi necessari a superare le prescrizioni di polizia[25].

Stupisce al contrario la grande disponibilità delle persone ad accondiscendere alle imposizioni registiche di Scheuermeier, tranne rare eccezioni:  “A Bagolino non mi è stato possibile fotografare un uomo in calzoni corti (…)  – scrive a Jaberg nel dicembre 1920 – tutti se ne scappavano, non ho potuto metterne neanche uno davanti alla macchina fotografica.” (in Caltagirone, Sordi 2001, p. 22) e ancora:  “con estrema difficoltà e solo grazie alle esortazioni dell’informatore mi è stato possibile portare delle ragazze davanti all’apparecchio fotografico. Tutte scappavano per timore che se ne facessero cartoline.” (ibidem). Scrivendo poi a Jud da Cuneo nel settembre del 1922, a proposito di una veduta di Via Roma con persone in posa in primo piano: “Un altro fotografo sfortunato: la gente fa attenzione alla sua posizione.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 48).

Questa sintetica notazione, quasi di sfuggita, individua il nodo problematico della relazione tra operatore e soggetto, tra fotografo e fotografato e, più in generale,  richiama tutte le implicazioni poste dalla scelta tra messa in posa e istantanea, tra osservazione partecipata e “immagine rubata”, riflettendosi anche sul rapporto complesso tra rappresentazione e autorappresentazione. Cosa poteva significare per quei ‘contadini’ la richiesta portata da quell’estraneo, straniero e colto che era Scheuermeier? Che funzione poteva svolgere nel loro sistema sociale e simbolico? Che ruolo era consentito loro di assumere (o di recitare) al momento della ripresa? Non ci è dato saperlo, se non provando a misurarci – non qui, non ora – con l’esercizio poetico dell’interrogazione a distanza di quelle decine di sguardi rivolti all’operatore.

Mettere in posa equivale a mettere in scena, a ricostruire una rappresentazione formalizzata dell’azione e del gesto collocandola in un contesto strutturato di indagine, con evidenti corrispondenze con l’uso del questionario.  Non esistevano infatti a quella data ragioni tecniche per escludere l’uso dell’istantanea, ma la  posa gli consentiva di riunire sinteticamente la maggiore quantità di informazioni possibili; soprattutto svincolava il tempo della ripresa dal tempo del lavoro, dalla stagione e dal calendario, recuperando infine gesti e strumenti ormai fuori dal tempo: inutilizzati. Sebbene restasse memoria del suono del loro nome.[26]

In questa scelta Scheuermeier ha rivelato una sorprendente modernità, ormai dimentica delle concezioni tardo ottocentesche. Se “l’istantanea riconduce al quadro critico dell’osservazione non esplicitata o dichiarata [poiché] le istantanee sono immagini che rinviano al loro autore, e segnalano un intento di esclusione dell’oggetto rappresentato dal procedimento creativo” (Faeta 2003, p. 114), mettere in posa vuole dire dichiarare il proprio esserci. Solo così è possibile porsi quale “presenza sociale in quel mondo” (Counihan 1980, p. 28), se non proprio agire da osservatore partecipante, come andava facendo circa gli stessi anni (1915 – 1918) Bronisław Malinowski, che ricorreva alle fotografie non solo come strumento di controllo e verifica delle note di lavoro ma anche quale mezzo di comunicazione non verbale con l’altro, come sarebbe stato in parte per Scheuermeier e soprattutto per Ugo Pellis[27]. Una relazione comunicativa in cui l’immagine genera la parola, anticipando per certi versi  la pratica recente della photo-elicitation.

La fotografia indica, la parola nomina: “ogni fotografia è dotata di un foglio di accompagnamento, che contiene una descrizione e la terminologia dialettale dell’oggetto rappresentato e dell’attività in questione.” (AIS-Introduzione,  p. 254). Esattamente: questo e non altro; ma è su questa relazione che si fonda la possibilità del discorso etnografico. La nota di accompagnamento, poi la didascalia, identifica e nomina, mette cioè in relazione quell’immagine, esito del taglio operato nel continuum spazio temporale, quindi anche geografico e culturale, col proprio contesto d’origine, espresso dalla testimonianza linguistica. Non sempre però questo processo si svolge in modo piano. In alcuni casi l’immagine sembra perdere la propria capacità referenziale o – meglio – non viene riconosciuta come icona, poiché l’informatore mostra scarsa “comprensione di figure e foto, che spesso, stranamente, coglie con difficoltà o non riconosce” (Sanga 2007, p. 38). Questo tipo di reazione, ben nota anche agli antropologi  (Lanternari 1981, p. 749) ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, su cui altri  studiosi[28] hanno poi ironizzato dimostrando la maggiore complessità del problema e richiamando l’attenzione sulla rilevanza determinante del contesto culturale. Al di là delle questioni ontologiche è infatti questo a consentire di definire la fotografia quale “segno di ricezione”, il cui riconoscimento è condizionato dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché: una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica” ha chiarito Jean-Marie Schaeffer[29], sebbene poi questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”

È proprio nel rapporto dialettico tra i differenti reciproci saperi che si definiva lo spazio di relazione di Scheuermeier con i suoi informatori, l’ambito di sviluppo del suo crescente interesse per la cultura materiale,  per le tecnologie e per l’uso di attrezzi e utensili. Fondamentali anche in questo le sollecitazioni di Jaberg che in una lettera del novembre 1920, dopo essersi complimentato per la qualità delle fotografie (“Davvero molto abili gli scatti con cui ha fissato il trasporto di legname a Borno”) lo invitava a concentrare la sua attenzione sulla “diffusione di singoli tipi (per esempio tipo ‘gerla’, tipo ‘cestone’). Sono mol­to istruttive anche le immagini della raccolta delle castagne. Allora, se si presenta l’occasione, ritrag­ga un po’ più in grande anche i vari attrezzi.” (in La Lombardia dei contadini 2007, p. 364). E ancora, nel gennaio successivo: “In questi ultimi giorni mi sono occupato degli at­trezzi per la trebbiatura. A questo riguardo le sue osservazioni ai margini  e le sue fotografie sono state preziosissime. Anche se dovesse perdere del tempo con queste osservazioni di cultura materiale ne vale veramente la pena; non vorremmo rinunciarvi per via della fretta. At­tendo con ansia la prossima spedizione delle sue fotografie (…). Vorrei anche rielaborare i materiali sulla sedia. Su questo punto si trovano specie per i Grigioni osservazioni preziose e anche due foto; in Italia, al contrario, mancano quasi del tutto le riprese d’interno che potrebbero documentare anche altri tipi di mobilio (letto, armadio ecc.), oppure dei gruppi di sedie, sgabelli, ecc. Non vorrebbe verificare se la macchina fotografica e la luce invernale lo consentono? Noi siamo intenzionati a redigere al più presto un inventario delle foto che permetterà a noi e a Lei di vedere meglio dove ancora dobbiamo rivolgere  l’obiettivo avido di sapere. D’altronde il solo materiale fotografico fino ad ora prodotto costituisce già di per sé una collezione unica in area romanza”[30].

Nell’arco di pochi mesi l’entità e la qualità della produzione fotografica di Scheuermeier erano già tali da costituire una raccolta eccezionale, in grado quasi di riorientare e condizionare  gli obiettivi e l’andamento di tutto il progetto. Prima di colmare “il buchetto piemontese” tra Ticino e Sesia (ma con una curiosa incursione a Pettinengo, nel Biellese) riprendeva il dialogo necessario col suo maestro in una lunga lettera datata Como, il 17 gennaio 1921: “Mi rallegra che Lei possa utilizzare anche le mie osservazioni, sia quelle di carattere etnografico, sia quelle di carattere generale. Mi rendo conto benissimo che nella concitazione della rilevazione queste possano risultare non proprio sistematiche ed equilibrate. (…) Per questo motivo accompagno sempre le fotografie con una spie­gazione il più possibile comprensibile. Nelle descri­zioni delle foto mi affido in gran parte alla mia esperienza diretta, mentre per le osservazioni al margine dei questionari mi attengo spesso alle sole affermazioni dell’informatore  (…).  La mia posizione al momento è quindi la seguente: nella rilevazione assumere obiettivamente ciò che viene spontaneamente dall’informatore, secon­do il suo carattere, e ciò che posso cogliere con lo sguardo veloce passando in gran fretta, per lo più di notte. Nel resto limitare alle foto gli studi approfonditi sulla cultura materiale con descrizione. In queste [foto] tutto dovrà essere registrato in maniera sistematica e io non posso far altro che rallegrarmi del nuovo indice per argomenti delle riprese fotogra­fiche come aiuto graditissimo per evitare delle man­canze. Finora ho fotografato soprattutto ciò che era nuovo e particolare e che non avevo ancora visto altrove.  (…) È d’accordo, insieme con Jud, sul mio modo di procedere? È sufficiente la quantità delle osser­vazioni etnografiche alla quale mi sono finora atte­nuto? Nel caso non fosse d’accordo in qualche punto, La prego di segnalarmelo al più presto; altrimenti devo presumere di poter proseguire come ho fatto finora” (in Gentili 1997, pp. 21-22). La procedura si precisa empiricamente, lasciando intravedere – mi pare – l’emergere di due pratiche ancora distinte, cui corrisponde la netta separazione degli strumenti della ricerca: il questionario per l’indagine linguistica, la fotografia per l’indagine etnografica sulla cultura materiale, sebbene Scheuermeier si mostrasse ancora poco consapevole di un suo possibile uso comparativo. Jaberg rispose a stretto giro di posta, il successivo 23 gennaio: “Credo che in linea di principio abbia ragione anche nella scelta delle fotografie; io mi comporterei in modo un po’ diverso, nel senso che non attenderei sempre nuove forme di cultura materiale o qualcosa di assolutamente sorprendente, ma fotograferei a grandi intervalli anche cose che mi sembrano identiche con altre viste in precedenza. Piccole differenze non vengono spesso rilevate, non si riesce a tenere ben separato ciò che è importante da ciò che non lo è, specialmente se si vive troppo vicino agli oggetti; e, inoltre, ci si inganna anche nel ricordarli. Quali fruitori del materiale dell’Atlante e di quello iconografico, si è contenti di ricevere esplicite conferme anche di cose identiche. Neanche qui sono completamente affidabili le conclusioni ex silentio” (in Sanga 2007, p. 33). Con tutta la cortesia necessaria e il rispetto dovuto all’immane lavoro sul campo che si stava conducendo, Jaberg precisava e modificava nettamente gli indirizzi operativi proprio alla vigilia del periodo in cui Scheuermeier si apprestava a percorrere tutta l’Italia settentrionale, dalla Liguria all’Istria, per giungere infine in Piemonte solo l’anno successivo. Fu quello il momento in cui si chiariva l’esigenza di evitare il ricorso soggettivo alla documentazione fotografica a favore di una rilevazione più sistematica, certo connessa al “rilievo crescente che veniva assumendo l’indagine sulla cultura materiale” (Gentili 1997, p.20), allentando anche la relazione di stretta interdipendenza col questionario.  Questo atteggiamento nuovo comportava, letteralmente, un allargamento di campo, ulteriormente evidente nelle campagne degli anni Trenta, quando la presenza di Paul Boesch lo sciolse dal vincolo della descrizione degli oggetti, ma provocò anche un certo disorientamento. Era lo stesso modo di procedere che mutava.

Ancora nell’ ottobre del 1921 Scheuermeier appariva quasi fotografo suo malgrado, tanto da proporre una riduzione del tempo dedicato alle riprese, così obbligando nuovamente Jaberg a prendere posizione:  “La Sua minaccia di rallentare la documentazione fotografica a favore della ricerca linguistica, mi amareggia. D’altra parte mi rendo conto che il tutto Le richieda molto tempo e che Lei sia ansioso di procedere con il lavoro.” (in Gentili 1997 p. 24) Quando nel 1931 si sarebbe soffermato a riflettere sulla prima parte di quell’esperienza, il quadro di riferimento era ormai radicalmente mutato e la prevalenza dell’approccio visuale risultava chiara: “Nessun questionario (…) potrà servire dappertutto. Il miglior metodo sarà sempre di andare sul posto a vedere gli oggetti e i lavori e di fissarne l’immagine in fotografie e schizzi accompagnati da descrizioni particolareggiate.” (Scheuermeier 1932, p. 97). In modo ancora più esplicito avrebbe descritto il procedere nella conferenza berlinese del 1934:  “Nel frattempo [che Paul Boesch disegnava] io con il mio informatore percorrevo, casa e stalla, cucina e cantina, villaggio e campagna, e fissavo in immagini fotografiche che venivano tutte fornite di una descrizione tutto ciò che mi appariva interessante. (…) D’altra parte il mio dovere più importante, quello di raccogliere le risposte al mio questionario sistematico, finiva per dover essere svolto nelle pause tra tutte queste attività, e soprattutto nel tempo in cui gli impegni relativi al disegnatore e alle fotografie non mi distraevano più.”  (Scheuermeier 1936,  cit. in  Caltagirone, Sordi 2001, p.29)

Parafrasando una sua notissima affermazione si può dire che “l’acchiappadialetti” partì linguista e ritornò fotografo, accogliendo serenamente la contraddizione interna tra rilevamento linguistico, concepito e restituito in uno spazio bidimensionale e sincronico, dove la variabile temporale se non proprio esclusa non era esplicitamente considerata, e ripresa fotografica, indissolubilmente legata al qui ed ora dello scatto. Solo con la messa in scena, destinata a restituire un tempo ‘altro’, a produrre una “autenticità rappresentata” (Marano 2007, p. 107) le due forme di rappresentazione sarebbero tornate per quanto possibile ad avvicinarsi.

Sono proprio le fotografie in cui sono presenti figure che maneggiano oggetti a costituire la maggior parte delle riprese. Tutte – salvo rarissime eccezioni – frutto di una posa ricercata e accurata, certo non attribuibile a presunte limitazioni tecniche. In questo grande insieme è però necessario distinguere due categorie diverse: nella prima le persone erano chiamate a mostrare più che a mostrarsi: esponevano gli oggetti, essendo a volte attorniate da altri con simili caratteristiche tipologiche o funzionali. Nella seconda ne veniva mostrato l’uso, accennando il gesto corrispondente, come nella migliore tradizione delle scene di lavoro. Il carattere più rappresentativo che descrittivo di queste immagini è però rivelato da alcuni elementi indiziari: si pensi allo sguardo in macchina dei soggetti ripresi, che rende esplicito l’artificio. Anche i gesti presentano lo stesso carattere. Essendo stabiliti e letteralmente fissati prima dello scatto non definiscono un istante, rimandando semmai all’azione del lavoro in un senso molto lato, evocativo. Per questo riesce difficile concordare con Scheuermeier quando afferma che “le fotografie possono mostrarci  l’uomo al lavoro”[31]. Non è qui in questione il valore della fotografia come documento quanto la corretta determinazione del contenuto documentario di ciò che lui fotografa, poiché nell’accezione e nell’uso consueto che ne ha fatto l’immagine fotografica funziona piuttosto da tableau vivant: è la parola che dà movimento, che racconta l’azione, nominandola. Non è l’iconografia, né il suo trattamento ciò che distingue la produzione fotografica di Scheuermeier: è la relazione col testo, col progetto che questo uso significa e a cui dà corpo; poiché infine erano le parole e le cose a interessarlo, non i gesti[32].

Quelle cose con cui costruiva le sue misurate nature morte di oggetti, morbidamente illuminati per essere pienamente leggibili in ogni dettaglio[33], solo a volte ripresi un poco da lontano e di scorcio, con scarsa attenzione per ciò che accadeva ai margini dell’inquadratura[34]. Nella maggioranza dei casi la ripresa è invece frontale, gli oggetti ordinatamente disposti secondo le consuetudini dei cataloghi illustrati. Lo si vede nelle immagini realizzate a Ronco[35] e a Vico Canavese[36] nell’ottobre del 1923, o nella serie più tarda di Montanaro del 1932[37], dove c’è ancora una luce di gusto pittorialista a illuminare gli interni[38]. Questa è però un’eccezione: in quegli ultimi anni le riprese si fanno in certa misura più complesse e articolate, prive di un unico centro di interesse e (quindi) di un ‘fuoco’ compositivo[39]. Sono meno costruite, più immediatamente referenziali; a volte il campo si allarga sino a far scomparire il soggetto dichiarato: “l’informatore dà da mangiare alle mucche”[40]  dice il testo, ma l’informatore non si vede, sta ormai oltre la soglia della stalla, mentre una ragazza si affaccia a guardare, imprevista.

Nella produzione di Scheuermeier sono complessivamente pochi i ritratti veri e propri, quelli in cui la persona si mostra doppiamente consapevole: di essere fotografata, certo, ma anche di costituire il solo elemento di attenzione del fotografo, di essere cioè compiutamente soggetto. Nascono sempre da legami personali. Sono alcuni informatori, a volte con le loro famiglie, ritratti nei modi propri di molta fotografia locale ancora in quegli anni: in esterni, con un fondale magari bianco[41] a isolarli dal contesto quotidiano o per proiettarli in un ambito più letterario e alto. Anche stereotipato però, com’è per quella “sposa lombarda”, la “classica «Lucia» (…) figlia dell’informatrice di Galliate” che costituisce il soggetto della cartolina inviata a Jakob Jud nel febbraio del 1921[42], e a cui Scheuermeier dedicò una particolare attenzione[43]. Sono i suoi diversi assistenti (a loro volta fotografi[44]) ripresi sul campo, comunque in posa, a volte mettendo argutamente in scena il dialogo tra le due culture, come nell’efficace ripresa realizzata a Borgomanero nel 1928 in cui “lo studente Walser di Zurigo (…) parla con il marito dell’informatrice”[45]. In altri casi la figura perde la propria identità di persona, ma non per questo diventa semplice elemento della scena: è il caso ad esempio della donna di Vico Canavese col suo carico di steli di granturco, incorniciata dall’arco in pietra[46], o del vecchio con la pipa seduto in controluce accanto al vano della porta, sempre a Vico[47]; proprio la sua presenza non necessaria, che anzi nasconde alla vista parte degli attrezzi fotografati, rivela l’intenzione estetica di Scheuermeier.  Questa raggiunge a volte sorprendenti effetti espressivi, come nel fienile di Rochemolles, dove la luce sottolinea il comune profilo nodoso dell’attrezzo e del contadino[48].

Un cenno a parte meritano i ritratti legati all’amorevole histoire romancée dell’incontro con la signorina Nicolet, tutti scalati negli ultimissimi giorni dell’agosto 1923 in valle Antrona. Le fotografie si rivelano come non mai catalizzatore e memoria di sguardi, e di sentimenti[49]: alla  “immagine riflessa” di lui viene fatta corrispondere “l’altra immagine riflessa” di Nellie che interroga lo specchio della lanca come un candido Narciso, mentre l’aspro fondale alpino è tenuto sapientemente fuori fuoco, secondo la migliore sintassi pittorialista. In questo felice momento della sua vita Scheuermeier si consentiva di intrecciare il rigore analitico dell’indagine con la tensione che nasce dal desiderio: “Sguardo nella stalla attraverso la porta (…) Dietro la kasínα dla zónt, dove ci si intrattiene nelle sere d’inverno per lavorare e chiacchierare. Un uomo sulla bánca che corre tutto intorno alle pareti. (…) dietro [biancovestita a illuminare il buio del fondo] la signorina Nicolet; dietro di lei un letto vuoto”[50]. Questa fotografia, come altre ma certo per ragioni più nette, non venne pubblicata nel Bauernwerk, per il quale non solo venne utilizzata una porzione ristretta dell’intera produzione di Scheuermeier, ma le stesse immagini selezionate furono a volte modificate per essere più pertinenti al testo, più funzionali all’uso comparativo previsto dal progetto finale[51].

Diverse sono le ragioni e gli esiti dell’attuale riedizione, che ripristina invece  nella loro interezza e articolazione le primitive sequenze di realizzazione, rivelandone i nessi non solo tematici con le specificità di ciascun punto di indagine. Vengono così recuperati e resi comprensibili  l’originario ritmo e tono narrativo, a quella data destinati ai suoi soli lettori privilegiati.  Jakob e Jud naturalmente, ma ancor prima gli informatori di Scheuermeier, che potevano misurarsi con la memoria di quell’incontro, con gli esiti delle loro strategie di autorappresentazione, quasi sempre implicite, ma soprattutto con le ragioni e il possibile senso dello sguardo portato dall’altro, dall’estraneo, “colpiti forse dall’onore che un signore sconosciuto veniva a fare alle loro povere cose.” (Scheuermeier 1963, p. 295).

Anche per Scheuermeier la rielaborazione dell’esperienza ha costituito il nucleo centrale e problematico del progetto. In particolare la traduzione, l’adattamento e (certo in parte) la reinvenzione del gesto e dell’oralità in scrittura verbale e iconica, sia nella fase interlocutoria del questionario, sia – specialmente – nella sistematizzazione successiva, a sua volta scandita in almeno due fasi distinte. Mentre nella redazione della singola didascalia testo e immagine funzionavano come due voci dello stesso coro, di cui l’etnografo era il maestro concertatore, nella messa in pagina editoriale l’operazione comportava un ulteriore distanziamento dal contesto di riferimento e di produzione; l’immissione in un nuovo e diverso sistema significante, in una nuova narrazione, in un ulteriore contesto d’uso che presumeva a sua volta una gamma solo parzialmente definibile a priori di contesti di ricezione[52]. A maggior ragione ciò accade nelle attuali edizioni sistematiche per serie locali o regionali.  Al determinante recupero delle inedite sequenze documentarie originarie  corrisponde un mutamento di posizione, della distanza critica da cui possono essere nuovamente studiate e osservate. Muta la nostra comprensione del procedere di Scheuermeier sul campo.

 

Note

[1] Schaaf 2000, pp.82-83. Nessuna immagine di lavoro venne invece inclusa in The Pencil of Nature, per la cui approfondita analisi si veda Signorini 2007.

[2] Il confronto qui si pone, ovviamente, con la coeva produzione di dagherrotipi, che avevano più rigidi parametri d’uso e un ambito di applicazione mediamente più descrittivo che narrativo: dal ritratto alla veduta urbana. Tra i non molti esempi di pose di lavoro si possono segnalare Terrasse de Lerebours, eccezionale dagherrotipo panoramico coi lavoranti della stamperia omonima realizzato da Noël-Marie Paymal Lerebours verso il 1845 (Bajac e De Font-Réaulx 2003, pp. 168-169) dove argomento e schema iconografico sono analoghi al coevo Il Laboratorio di Reading, di Talbot e Nicolaas Henneman, 1846 ca, carta salata da negativo (Gernsheim 1981, p. 186),  e il bellissimo dagherrotipo colorato di anonimo autore americano, 1850ca, con il fabbro e l’assistente al lavoro all’interno della fucina (Bernard 1981, p. 24). Non si conoscono invece dagherrotipi italiani di ‘lavoro’, cfr. Italia d’argento 2003.

[3] Antoine étienne Renaud Augustin Serres, famoso docente di anatomia comparata, propose ad esempio sin dal 1844 – 1845 di realizzare collezioni di fotografie antropologiche, ma anche la realizzazione di un Musée Photographique des Races Humaines, a Parigi. (Faeta 2006, p. 10) Quelle iniziative si collocavano esemplarmente nel clima di entusiastica accettazione delle potenzialità documentarie del nuovo mezzo appena inventato (1839), analogamente a quanto accadeva in altri ambiti di studio: dalla botanica alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico, dando immediatamente corpo alle previsioni espressa da Arago nel corso della sua presentazione del dagherrotipo nel luglio del 1839 (Arago 1839).

[4] La bibliografia di confronto è sterminata, rimando qui ad alcuni testi e ai loro apparati, utili per un primo confronto: Auer 2003; Cavanna 2003; Michetti 1999; Miraglia 1985; Miraglia, Pohlmann 1992; Morello 2000; Roma 1840 – 1870 2008.

[5] Sulle differenze profonde tra atteggiamento demologico ed etnografico ha richiamato l’attenzione Faeta 2006, p. 18, cui rimando.

[6] Il solo Francesco Negri [Lavandaie, 1905 ca] si distinse per la scelta inconsueta del punto di vista, che anticipava di molto, ma certo occasionalmente, la futura sintassi modernista con una eccezionale ripresa dall’alto in diagonale (Negri 2006, p. 103).

[7] La felice definizione è tratta da Sguardo e memoria 1988. Per orientarsi metodologicamente nell’ormai sterminata bibliografia italiana di riscoperta, non sempre ideologicamente limpida e  scientificamente attrezzata, di fondi fotografici e autori locali di interesse etnografico sono imprescindibili le indicazioni contenute in  Faeta e Ricci 1997, da leggersi in parallelo al più recente Faeta 2006.

[8] Morselli 1882, p. 7 che riprendeva e ampliava le Istruzioni di  Giglioli, Zannetti, 1880,  che si rifacevano a loro volta alle suggestioni di Paolo Mantegazza. La distinzione introdotta da Morselli, ma non era il solo, mi pare significativa non tanto per l’ovvia contrapposizione tra misurabile/ non misurabile, vale a dire tra metodo ed empiria, ma anche per la consapevolezza di quante fotografie di contenuto potenzialmente etnografico fossero prodotte proprio nell’ambito della nascente fotografia artistica. Analoga attenzione per i due opposti modi della descrizione – anche se in ambito testuale e non visuale – si ritrova ancora nella tesi di dottorato di Gregory Bateson del 1936. (Bateson 1988, p.7)

[9] I modi della ripresa artistica, attenta alla restituzione del contesto, saranno poi di fatto prevalenti, per un mutato statuto della ricerca antropologia ed etnografica, recuperando la scientificità attraverso la sua applicazione metodologicamente avvertita e definita. (Faeta, Ricci 1997; Marano 2007).

[10] Fano 1901, p. 88. Il Direttore del Laboratorio di Fisiologia del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze aveva avanzato questa proposta sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”  sin dal 1898, riproponendola quindi nel corso del  II Congresso Fotografico Italiano di Firenze (1899),  dove invitava la Presidenza a nominare un’apposita commissione di studi, proponendo anche l’istituzione di un’apposita rubrica sullo stesso “Bullettino”,  il tutto in collaborazione con la Società Italiana di Antropologia, Etnologia e Psicologia Comparata, anch’essa con sede a Firenze, ma l’iniziativa ebbe scarso successo (Panerai 1991). Riprendendo un’intuizione di Ruskin 1880, la possibilità di utilizzare l’opera della crescente ‘armata’ di fotografi dilettanti, che non potevano non aver realizzato “quelque chose d’intéressant à un point de vue quelconque, une épreuve qui venant s’ajouter à d’autres, apportera un élément utile à une collection”, venne sostenuta anche da G. Moreau in occasione del Congresso internazionale di fotografia di Parigi del 1900  (Moreau 1901). Qui alla fiducia positivista nella obiettività del mezzo si accompagnava la chiara percezione della funzione sociale della fotografia e la possibilità che ne derivava di utilizzarla quale fonte, per le proprie valenze quantitative di serie potenzialmente infinita piuttosto che qualitative di singolo elemento documentario, secondo una impostazione metodologica che venne ripresa da Corrado Ricci nel 1904 con la proposta istituzione di un Archivio Fotografico Italiano da realizzarsi agli Uffizi, mentre Loria avrebbe aperto nel 1906 – sempre a Firenze – un primo piccolo Museo di Etnografia Italiana, finanziato dal conte Giovanangelo Bastoni.

[11] Loria 1900; Loria 1912. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria procedeva anche in altri ambiti come dimostra la relazione presentata da Carlo Errera nel 1908. Ancora nel 1911 il III Congresso Fotografico Italiano ospitava una sessione internazionale specificamente dedicata alla documentazione fotografica.

[12] Favari 1899. Per un approfondimento su alcune figure della scena milanese si veda ora Paoli 2007.

[13] Sulla scia degli studi pionieristici di Costantino Nigra, Sinigaglia trascrisse a partire dal 1901 una grande quantità di Vecchie canzoni popolari del Piemonte, poi in parte trascritte  per canto e pianoforte tra il 1914 e il 1927 (Leydi 1998; Sinigaglia 2003).

[14] In queste occasioni  erano frequentemente esposte immagini di argomento demologico: ancora nel 1895 all’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino il biellese Giovanni Varale, partecipava con “impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, mentre negli anni e decenni immediatamente successivi altri autori piemontesi rivolgevano la propria attenzione ad analoghi soggetti, specialmente nelle prime fasi della loro produzione. Penso ad alcune immagini di Mario Gabinio tra 1900 e 1910 (Gabinio 1996; Gabinio 2000) o a quelle di Cesare Giulio prima del 1920 (Giulio 2005),  mentre nelle prove di poco più tarde di Stefano Bricarelli o di Domenico Riccardo Peretti Griva il tema del lavoro dei contadini diventa puro motivo, se non mero pretesto per esercizi di stile tardo pittorialisti.

[15] Sulla figura di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi della seconda metà del XIX secolo rimando a Sella 2006 e alla bibliografia ivi citata. Per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, autore a sua volta di due Album di un alpinista (1877, 1878) dedicati rispettivamente alle valli di Andorno e Gressoney e alla Valsesia, rimando a Cavanna 1995. Sarà proprio la valenza etnografica di queste immagini a spingere Alessandro Roccavilla a rivolgersi a Vallino quando nel 1911 viene chiamato da Loria a collaborare alla realizzazione dell’Esposizione di Etnografia Italiana di Roma (Albera, Ottaviano 1989; Bellardone, Cavatore 1991) proponendo anche un diorama dedicato all’antica cerimonia del Battesimo in alta Valle Cervo (Roccavilla 1922). Segnalo qui che alcune immagini della serie dei Costumi biellesi , in parte pubblicate ne Il Biellese 1898, vennero riutilizzate con attribuzione e titolazione errate nel numero autunnale della rivista “The Studio” del 1913 interamente dedicato a L’art rustique en Italie, a corredo del contributo fornito da Roccavilla. Con una disinvolta operazione di dislocazione geografica, quelli che erano I piccoli Valìt (Valle di Andorno) nel 1898 (p.71)  divennero così Peasants butter-making, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.28), mentre il soggetto secondario della ripresa relativa a Miagliano, Case operaie Poma (Il Biellese 1898, p.130) assunse sulla rivista il ruolo di protagonista: Peasant women washing clothes, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.17; entrambi interessanti esempi dei problemi posti dall’uso delle fonti secondarie.

[16] Loria  1912, in Puccini 2005, p. 33.

[17] Come ha chiarito lucidamente Faeta (1988, p. 12) sintetizzando una lunga serie di riflessioni sulla fotografia (da Benjamin a Vaccari e Barthes passando attraverso Bourdieu) “In particolare rispetto all’ideologia mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”

[18] Le sue Scene di vita e di lavoro, allora  notissime e certo pubblicabili senza problemi di censura o autocensura sono state poi quasi dimenticate, a favore della più nota e intrigante serie di nudi maschili; si vedano  Faeta 1988; Gloeden 2008.

[19] Schiaparelli 2003; anche la cartolina spedita da Galliate nel febbraio del 1921, Pascolo Biellese. Sulla via del ritorno, edita da Bonda a Biella, (Canobbio, Telmon 2007, p. 40) mostra quanto il gusto di Scheuermeier fosse prossimo a questa declinazione piemontese del paesaggismo pittorialista.

[20] Palestina 1927  2001. Di Morpurgo, a sua volta editore di cartoline, ricordo qui – a testimonianza di una lunga vicenda di intrecci ancora da studiare compiutamente – la sua Proposta per una più vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari, da realizzarsi mediante la raccolta di documentazione visiva, presentata nel 1930 al I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari di Trento (Di Castro 2001, p.47).

[21] Tarchetti 1990; le sue immagini venivano edite in cartolina dall’editore vercellese Larizzate presso il quale Scheuermeier acquistò nel marzo del  1921, Nelle risaie vercellesi. Mondatura del riso, con l’iscrizione al verso “ho sbrigato il questionario 65 Desana in un nido di riso.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 41) Come rivelano le didascalie, solo il cattivo andamento della stagione precedente consentì a Scheuermeier di documentare almeno la pulitura, la sola fase della coltivazione del riso ad essere descritta. Neppure a livello locale le donne e gli uomini della risaia avevano allora il loro cantore, nessuno che li celebrasse se non occasionalmente in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accadeva ad esempio con le immagini partecipate dell’Agro Romano che  in quegli stessi anni realizzavano  Luciano Morpurgo e  Arrigo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.  Le testimonianze fotografiche delle genti di risaia dei primi anni Venti si limitano alle  foto di gruppo, che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere, fornendo al più indicazioni sull’abbigliamento da lavoro.

[22] Le prime riflessioni sulla cultura visiva di Scheuermeier, con la proposta individuazione di analogie con autori coevi si devono a Marina Miraglia (Scheuermeier 1981) poi riprese e ampliate in Silvestrini 1997 e 2001. Per la loro discussione critica, sostanzialmente condivisibile, si rimanda a Roda 1999 e Scianna 2007.

[23] Come noto la sede Brunner di Como svolse il doppio compito di supporto tecnico logistico per tutto il corso delle rilevazioni sia fornendo a Scheuermeier i nominativi dei propri clienti, a cui ricorrere quali “punti d’appoggio” nelle diverse località, sia nel processo di sviluppo e stampa delle fotografie. I negativi erano infatti spediti alla Ditta per lo sviluppo e per la stampa dei positivi. Questi erano restituiti a Scheuermeier  per il successivo riordino e per la descrizione, sempre corredata dei dati tecnici di ripresa (tempo e diaframma, secondo una consuetudine ampiamente diffusa all’epoca specialmente tra i dilettanti), ma anche – almeno in parte – per essere poi inviate agli informatori in segno di ringraziamento, come accadde la sera del 16 ottobre, a Ivrea, passata a preparare le “fotografie per gl’informatori di Val Vogna, Ronco, Borgosesia” (in Canobbio, Telmon 2007, p.62) dove era stato nelle settimane precedenti. Questa pratica consolidata, che vedeva Brunner anche nelle implicite vesti di mecenate, se è vero che i prezzi delle copie erano appena sufficienti a coprire le spese  (Lettera a Jaberg del 24 settembre 1921, in Gentili 1997, p. 24), dovette avere alcune singolari eccezioni, come mostra la fotografia che venne scattata al nostro “Explorator nella nebbia” alla Capanna Milano in Val Zebrù nel settembre 1920, (dove era in vacanza col cugino Rudy Wiss), poi edita come cartolina da U. Trinca di Sondrio (n. 1495), a sua volta cliente di Brunner. (Gentili 1999,  nn. 15, 42)

[24]  La produzione fotografica di Scheuermeier è consultabile all’indirizzo http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, conducendo la ricerca nella sezione “Immagini”, ricercabili per numero del fototipo, località, autore o data.

[25] Erano le limitazioni ‘militari’  relative alle cosiddette “zone di guerra” in cui si trovavano postazioni o fortificazioni. Il Ministero della Pubblica Istruzione rispose l’11 di agosto del 1920 senza far cenno esplicito alle fotografie, ma con una raccomandazione diretta a Provveditori e Direttori di istituto che sostanzialmente gli consentiva libertà di azione.  “Più che dai delinquenti, ebbi delle seccature da parte dei tutori dell’ordine” ricorderà con amara ironia ormai a molti anni di distanza dall’esperienza sul campo (Scheuermeier 1969, p.338), raccontando le tragicomiche vicissitudini occorsegli con brigadieri, cardinali e pubblici ufficiali, oltre che con i primi fascisti locali.

[26] Si veda http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 339, ripresa a Galliate il 27 febbraio 1921: “Questo tipo di zangola qui è da tempo in disuso e la donna è dovuta andare fuori a procurarsela. Lei stessa non ha più idea alcuna della lavorazione del latte. (…) Anche il setaccio (…) poggiato sul secchio, viene usato ancora solo raramente per colare il latte: tutte cose vecchie.” E ancora, per la ripresa successiva, a proposito di un costume “scomparso da circa 40 anni”: “Ciascun indumento ha una provenienza diversa ed è stato scovato dopo una lunga ricerca per poter fare la fotografia.”

[27] La procedura d’indagine utilizzata da Pellis prevedeva di affiancare al questionario una raccolta di ben 2500 immagini da mostrare contestualmente (Pellis 1926, in Ellero 1999, p. 13). Non è questa la sede per affrontare sistematicamente la questione, ma va almeno ricordato il differente modo di intendere la fotografia tra Scheuermeier e Pellis, certo meno attento alle qualità compositive delle riprese e più propenso all’uso libero dell’istantanea.

[28] “è qui che entra in scena il famoso melanesiano: egli costituisce l’ossessione della letteratura semiologica  e deve reggere da solo tutto il peso dell’alterità radicale – il che mi pare troppo per un solo uomo.”, Schaeffer [1987] 2006 , pp. 48 passim. Il fatto che, in un determinato contesto di ricezione, non sia riconosciuto il contenuto referenziale di un’immagine fotografica  comporta che questa possa perdere il suo specifico statuto di segno (non è più significante) oppure che ne sia mutato il valore (da icona a simbolo, ad esempio), ma ciò può accadere  senza la perdita della sua primaria natura indicale. Non è la comprensione del ricevente che stabilisce la natura della cosa.

[29] Ibidem.

[30] Gentili 1997, p. 20-21, corsivo di chi scrive. L’affermazione mostra bene quale fosse a quella data l’interesse quasi esclusivo, oltre che dichiarato dell’indagine. La lettera è stata ripubblicata in La Lombardia dei contadini 2007, pp. 370-371 con significative varianti di traduzione.

[31] Scheuermeier 1936, p. 357, traduzione di Carla Gentili che ringrazio per la cortesia e la disponibilità a discutere  un passaggio particolarmente delicato delle riflessioni metodologiche di Scheuermeier.

[32] Per questa ragione, credo, non gli importava che a compierli fossero semplici figuranti, coinvolti per ragioni diverse: a Montanaro nel 1932, ad esempio: “la scena si è svolta pressappoco così, quasi naturalmente” (http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6119, corsivo dell’autore; Canobbio,  Telmon 2007, pp. 228 passim), ma si veda  anche  http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 325, Galliate, 1921: “Tutte queste operazioni vengono eseguite per lo più da pettinatori professionisti. (…) Il nipote e la nipote [dell’informatrice] si sono messi al loro posto durante la pausa di mezzogiorno.” Anche a Sauze, nel 1922 a versare il grano nel ventolatoio non era un contadino ma “lo studente Hobi di Zurigo” (Canobbio, Telmon 2007, p.97) uno dei molti inviati da Jaberg e Jud  durante tutto il tempo della ricerca.

[33] Basti notare con quanta cura disponeva un panno bianco a terra per rendere meglio leggibile il fuso nella ripresa realizzata a  Villafalletto nel 1922: http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 837.

[34] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 808.

[35] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 1241.

[36] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 1245 – 1251.

[37] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 612, 6120.

[38] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6123.

[39] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6093.

[40] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6095.

[41] “Uno sfondo bianco permette ai soggetti di diventare simboli di sé stessi” avrebbe detto Richard Avedon nel 1987 (in Livingstone 1994, p. 59), ma questo solo espediente non è certo sufficiente e non può prescindere dalla duplice intenzione, non necessariamente convergente, tra soggetto fotografante e soggetto fotografato.

[42] Canobbio, Telmon 2007, p. 42. L’immagine venne pubblicata anche in Scheuermeier [1943-1956] 1980, II, F. 495), ma con inversione sinistra/ destra.

[43] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini n. 330, 340 a, b.

[44] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 833, Villafaletto, settembre 1922, nella quale compare lo stesso Scheuermeier.

[45] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 2170. Nel Bauernwerk (I, 1943, F. 53) l’assistente, certo non un testimone della cultura contadina, scomparve dall’immagine a seguito di un accuratissimo intervento di ritocco, mentre nell’edizione italiana (Scheuermeier [1943-1956] 1980, I, F. 53) venne fatto, discutibilmente, ricomparire. Anche la figura a fronte (F.54) è il risultato di una elaborazione: il taglio in stampa della ripresa http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1173 realizzata a Borgone nell’agosto del 1923, di cui costituisce la parte destra, pubblicata nella sua interezza nel vol II, F. 150 con l’indicazione “Ceppomorelli (Piemonte)”.

[46] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1247.

[47] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1248.

[48] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 813.

[49] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagini nn. 1180-1182.

[50] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1187.

[51] Cfr. la nota 44.

[52] Per le definizioni di contesto d’uso e di contesto di ricezione formulate da Heintze 1990 si veda Marano 2007, pp. 44-46.

 

 

 

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Larry  J. Schaaf, The Photographic Art of William Henry Fox Talbot. Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2000

 

Schaeffer [1987] 2006

Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire.  Paris: Editions du Seuil, 1987 (traduzione italiana a cura di Marco Andreani, Roberto Signorini. Bologna: CLUEB, 2006

 

Scheuermeier 1932

Paul Scheuermeier, Observations et expériences personnelles faites au cours de mon enquête pour l’atlas linguistique et ethnographique de l’Italie et de la Suisse méridionale, “Bulletin de la Société de Linguistique”, 33 (1932), n. 1, pp. 93-110

                                                                               

Scheuermeier 1936

Paul Scheuermeier, Methoden der Sachforschung. Zur sachkundlichen Materialsammlung für den Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, “Vox Romanica”,  I, (1936), pp. 334-369 

 

Scheuermeier [1943-1956] 1980

Paul  Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di Michele Dean e Giorio Pedrocco, 2 voll. Milano: Longanesi, 1980 (ed. originale, Bauernwerk in Italien der italienischen und ritoromanischen Schweiz, Vol. I.   Erlenbach – Zürich:  Eugen Rentsch Verlag, 1943; Vol II.  Bern: Stimpfli & Cie, 1956)

 

Scheuermeier 1963

Paul Scheuermeier, Regioni ergologiche della vita agricola italiana, in Il mondo agrario tradizionale nella Valle Padana, “Atti del convegno di studi sul folklore padano” (Modena, 17-19 marzo 1962).  Modena:  Enal, Università del tempo libero, 1963, pp. 291-307

 

Scheuermeier 1969

Paul  Scheuermeier, Della buona stella sul nostro Atlante, 1969, traduzione di Carla Gentili in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 329-346

 

Scheuermeier 1981

Paul Scheuermeier: fotografie e ricerche sul lavoro contadino in Italia: 1919-1935, catalogo della mostra (Roma, 20  maggio -20 giugno 1981), a cura di Marina Miraglia. Milano: Longanesi, 1981

 

Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999

Scheuermeier le Alpi e dintorni, “Atti del Seminario permanente di Etnografia Alpina”, 4° ciclo (SPEA 4, 1997), a cura di Carla Gentili, Giovanni Kezich, Glauco Sanga,  “Annali di San Michele”, 12 (1999)

 

Schiaparelli 2003

Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, catalogo della mostra (Occhieppo Superiore – Torino, 2003), a cura di Gian Paolo Chorino. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Scianna 2007

Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2007, pp. 45-47

 

Šebesta 1980

Giuseppe Šebesta, Fotografia e disegno nella ricerca etnografica, in Antropologia visiva 1980, pp. 37-44

 

Sella  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella.  Torino: Fondazione Torino Musei – GAM,  2006

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890]; (reprint, Ivrea: Priuli & Verlucca, 1983)

 

Sguardo e memoria  1988

Sguardo e memoria: Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, catalogo della mostra (Roma, 1988-1989), a cura di Francesco Faeta,  Marina Miraglia.  Milano – Roma:  Arnoldo Mondadori – De Luca Edizioni d’Arte, 1988

 

Signorini 2007

Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. Lettura di  The Pencil of nature di William Henry Fox Talbot.  Bologna: CLUEB, 2007

 

Silvestrini 1981

Elisabetta Silvestrini, Cultura materiale tra linguistica ed etnografia, in Scheuermeier 1981, pp. 16-23

 

Silvestrini 1997

Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera , in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 42-48

 

Silvestrini 2001

Elisabetta Silvestrini, Paul Scheuermeier: Itinerario fotografico nella Lombardia orientale, in La Lombardia dei contadini 2001,  pp. 23-26

 

Sinigaglia 2003

Leone  Sinigaglia, La raccolta inedita di 104 canzoni popolari piemontesi con accompagnamento per pianoforte, revisione a cura di Andrea  Lanza.  Torino: Giancarlo Zedde, 2003

 

Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna e Mimmo Vetrò.  Vercelli:  Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Il Trentino dei contadini 1997

Paul Scheuermeier:  Il Trentino dei contadini : 1921-1931, a cura di Giovanni Kezich,  Carla Gentili, Antonella Mott. San Michele all’Adige: Museo degli usi e costumi della gente trentina, 1997

 

 

Tornare a Ranverso (2000)

in Walter Canavesio, a cura di, Jaquerio e le arti del suo tempo.  Torino:  Regione Piemonte – Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 2000, pp.  111 – 133

 

 

“Jaquerio si conosce andando  a Ranverso”, ricordava Andreina Griseri nel ricostruire le vicende della fortuna critica del pittore[1], poiché proprio in quel luogo si era compiuta la scoperta dell’autografia delle opere mentre se ne forniva per la prima volta la conferma fotografica[2];  esito piuttosto che avvio delle campagne di documentazione della produzione pittorica del tardogotico piemontese, risultato non occasionale di una collaborazione tra studiosi e fotografi che era andata maturando a partire dagli stessi giorni in cui la nuova tecnica di produzione e riproduzione d’immagini aveva fatto la sua sconvolgente comparsa sul finire del quarto decennio dell’Ottocento, quando alle prime entusiastiche previsioni avevano fatto seguito considerazioni più attente e specifiche, che affrontavano  nel merito l’effettiva possibilità (almeno tecnica) di documentare correttamente le opere d’arte ed i dipinti in particolare.

Già il “Messaggere Torinese” del 23 febbraio 1839 aveva individuato uno dei temi che saranno poi cari a molta pubblicistica ottocentesca, ipotizzando che “il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo e infedeli”[3], e ancora nell’ottobre dello stesso anno Felice Romani aveva ricordato dalle pagine della “Gazzetta Piemontese” che “già si pensa a poter  riprodurre gli oggetti non solo colle loro forme e coi loro rilievi, ma eziandio coi loro colori”[4].  Nel novembre successivo però il fisico Macedoni Melloni, presentando alla Regia Accademia delle Scienze di  Napoli la sua Relazione intorno al Dagherrotipo[5], primo esempio italiano di analisi lucida e scientificamente attrezzata del fenomeno, a fronte della speranza espressa da molti di “ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura e il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro” affermava: “Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe (…) No, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo (…) Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni  punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori e inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori.” La discussione del problema, almeno in Italia  pare per lungo tempo limitarsi ai soli aspetti tecnici, tanto che  le successive messe a punto dei procedimenti all’albumina e al collodio sono considerate progressivamente risolutive e in alcune rassegne dedicate alle sue applicazioni si riconosce che “felicemente oggi la riproduzione della pittura è uno de’ migliori attributi della fotografia”[6], dimostrando non tanto una scarsa conoscenza dei processi fotografici quanto una ormai acquisita insensibilità ai problemi posti dalla trascrizione dell’opera, propria di una cultura che si avvia a dimenticare il significato di traduzione per adottare progressivamente quello di riproduzione e poi di copia, in un  processo di slittamento semantico che corrisponde ad una sostanziale perdita di comprensione critica, certo in parte dovuta alla concezione positivistica del processo fotografico quale generatore di immagini obiettive, per definizione fedeli  e in quanto tali preferibili alle modificazioni introdotte dal lavoro dell’incisore: “Les reproductions de tableaux sont devenues des notes indispensables à ceux qui collectionnent l’oeuvre d’un maître – afferma Philippe Burty nel 1861- elles traduisent mot à mot ce que le burin (…) modifie toujours”[7], mentre alcuni anni più tardi, nel 1876,  Hermann Vogel riconosce ancora il maggior valore, almeno  artistico, dell’incisione di  traduzione, poiché la fotografia è sì in grado di fornire riproduzioni fedeli delle opere d’arte ma “cette reproduction n’est pas aussi artistique que celle donnée par la gravure (…) elle suffit pour faire rapidement connaître partout ce qui est nouveau. La gravure vien ensuite et conserve sa valeur” , per proseguire quindi, in una ingenua commistione di presunta oggettività ed effettiva manipolazione dell’immagine, ricordando che “les négatifs d’apres peinture à l’huile exigent la collaboration du retoucheur chargé de répartir entre les tons photographiques les proportions faussées par l’effet inégal des couleurs. Cette retouche peut être mal faite, si elle est exécutée par une main  inexperimentée. La plus habile est celle de l’artiste qui a peint l’original. Dèjà des peintres connus se sont essayés avec succès à la retouche…”[8]. Sono le stesse difficoltà a cui aveva fatto cenno Paul Liesegang nel 1864: “Trattandosi di quadri ed in particolare di quadri ad olio, s’incontrano spesso gravi difficoltà per ottenere un complesso armonioso”[9], e ancora all’inizio del nuovo secolo Paul N. Hasluck confermava che “i quadri riprodotti con lastre ordinarie vengono da queste talmente falsati, che il risultato merita decisamente la qualifica di pessimo  [ragione per cui] vanno riprodotti con lastre ortocromatiche combinate col filtro.”[10]

Come si è detto, ancora a questa data il problema sembra essere circoscritto alle sole questioni  tecniche; non si pongono esplicitamente questioni di ordine critico, linguistico: ciò a cui si tende è lo statuto della duplicazione perfetta[11] e la migliorata resa dei valori cromatici derivante dall’aggiunta di sensibilizzatori ottici alle emulsioni porta autorevoli studiosi a sottolineare acriticamente l’enorme valore assunto dalla fotografia nello studio della storia dell’arte. Così Adolfo Venturi nella Premessa al Catalogo 1887 della casa editrice fotografica Adolphe Braun riconosce come “inventata la fotografia, la critica fece un gran passo, allora furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera di un autore, e il metodo si fece più corretto, più fino e sicuro. Mentre tutte le discipline umane delle scienze naturali imparavano il rigore del metodo, anche la storia dell’arte si rinnovò in gran parte mercè il suo nuovo strumento di osservazione”[12], dichiarando una aspirazione allo statuto scientifico della nuova disciplina che ritroviamo circa negli stessi anni anche in Bernard Berenson per il quale  “When this continous study of originals is supplemented by isochromatic photographs, such comparision attains almost the accuracy of the physical science”[13], dimostrandosi lontano da alcune isolate, autorevoli posizioni come quella di Heinrich Wölfflin, ma in perfetta sintonia con le preoccupazioni delle maggiori case fotografiche che per adeguarsi ai continui e radicali avanzamenti tecnologici erano portate a rinnovare temi e soggetti già presenti in catalogo.[14]

Ciò che affascina e interessa è insomma la pura, e presunta, capacità tecnologica di duplicazione del reale e proprio su questa si misurano le prime iniziative, anche piemontesi, legate a questo particolare campo di applicazione della fotografia che in Italia a partire dalla metà del XIX secolo poteva ormai contare su imprese fotografiche di sempre maggiore rilevanza, dagli Alinari a Sommer.

Nella nostra regione le prime realizzazioni non sporadiche datano a partire dagli anni ‘60 con l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni italiani raccolto  dal biellese Vittorio Besso a partire dal 1868, al quale si deve anche la documentazione di quei “capolavori di pittura e d’architettura che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”[15] di cui riferisce un articolo della “Gazzetta Biellese” del 1865, ma particolarmente significativa è la comparsa delle prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese nell’Album della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1863: sei albumine realizzate da Francesco Maria Chiapella.[16] Nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  ed alla non eccellente qualità di stampa di alcuni esemplari, questo “album con magnifiche fotografie” viene considerato una “bella novità” ripresa ancora negli anni successivi, dopo l’interruzione del 1864, affidando l’incarico ad alcuni dei più noti fotografi torinesi quali Luigi Montabone, Alberto Luigi Vialardi, Fotografia Subalpina e Cesare Bernieri, che si era già distinto nel 1866 con un album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato.[17]

La fotografia di opere d’arte quindi muove in Piemonte i suoi primi passi rivolgendosi specialmente al contemporaneo, intesa a sostituire i processi di stampa calcografica e litografica quale mezzo più rapido ed economico, piuttosto che  proporsi o essere utilizzata quale strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico artistico[18].  Perché questo percorso si compia debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze, i contatti tra cultura artistica e fotografica che prendono forma non tanto col rapporto tra Bernieri e le opere neomedievali di gusto troubadour di Massimo d’Azeglio[19] quanto con Carlo Felice Biscarra ed ancor più con Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[20] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile le prime applicazioni – pur non sistematiche[21] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[22], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[23] e la cui infondatezza era stata tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel 1884, con “una ricchezza e una varietà che i sussidi grafici e fotografici non avevano ancora potuto dare e in cui erano compresi i più illustri esempi della pittura e della scultura tardomedievale piemontese, che non erano stati oggetto, ancorché di riproduzione, nemmeno di studio.”[24] Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[25] operarono sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fenis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[26], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[27]

Esemplari in questo senso sono le fotografie realizzate da Nigra in San Bernardino a Lusernetta nel 1885 e quelle fatte nella primavera del 1887 nella chiesa di San Pietro ad Avigliana, a Ranverso e verosimilmente anche in San Pietro a Pianezza[28], qualitativamente non eccelse e con scarsa attenzione per una illuminazione ottimale degli affreschi, poco più che appunti visivi su cui condurre successivamente gli studi, mentre le immagini realizzate nei decenni successivi, almeno fino agli anni Trenta, dimostrano un più maturo controllo della strumentazione ed il ricorso sapiente a lastre di maggiore formato.

Anche per Nigra, come già era stato per il “verista” Pastoris interpretato da Stella ma seguendo forse un percorso inverso,  “la conoscenza della storia dei monumenti antichi contribuisce ad aumentare la suggestione che ne emana ed a completare il godimento del loro valore estetico, facendo nello stesso tempo meglio comprendere lo spirito dei tempi”[29] e l’inevitabile oggettività fotografica diviene strumento insostituibile di questo progetto culturale.

Accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[30] la figura più rilevante è però quella di Secondo Pia[31], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione. La cronologia delle sue campagne è relativamente ben nota, ma certo l’attuale campagna di catalogazione condotta sul Fondo donato dal figlio Giuseppe al Museo Nazionale del Cinema consentirà in futuro di definirne meglio l’operato e forse anche di correggere la datazione di alcune riprese, in alcuni casi  stabilita da Pia molti anni dopo la loro realizzazione. Ciò che qui però interessa sottolineare è come il suo percorso di indagine percorra inizialmente le stesse canoniche tappe seguite da Nigra circa gli stessi anni: da Avigliana (1886)  a Ranverso (1887)  a Pianezza (1889) per compiere prima dello scadere del secolo una ricognizione esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese e in parte aostano: Issogne, Marentino, Manta, Fenis,  Villafranca Piemonte, Forno di Lemie, Roletto, Bastia, Chieri, Piobesi e Piossasco, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, ma spesso in anticipo sui tempi della ricerca storico artistica, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro[32]. Questo suo impegno viene giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire, quando espone circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[33]

Cena conferma ciò che  il catalogo della mostra ed ancor più le pagine del giornale dell’Esposizione dimostrano: quanto ridotto fosse ancora l’interesse per la pittura quattrocentesca piemontese nonostante una prima disponibilità di segnalazioni e studi specifici, prevalentemente dedicati a Ranverso (da Gamba e Brayda a Cena stesso) ma anche al Pinerolese (E. Bertea) ed a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890.[34]

Questa scarsa considerazione della pittura tardogotica piemontese emerge dalla stessa regia con cui Pia impagina le immagini di Ranverso nei due album dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” (1907) ed “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” (post 1920)[35]; sia nel primo che – specialmente – nel secondo gli affreschi jaqueriani sono collocati buoni ultimi nella sequenza di presentazione, dopo i particolari scultorei e gli stessi arredi, dopo la minuziosa documentazione e ricomposizione fotografica del polittico di Defendente Ferrari.

Ad ulteriore conferma di questa condizione di ridotta visibilità e rilevanza monumentale ricordiamo che neppure gli operatori degli Alinari, in Piemonte e Valle d’Aosta tra luglio e ottobre del 1898 comprenderanno nella loro campagna di documentazione luoghi come Ranverso o la Manta[36]; solo gli affreschi del castello entreranno a far parte del loro repertorio a partire dal catalogo del 1925 [37], mentre gli operatori dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo pare siano a  Ranverso e in San Sebastiano a  Pecetto prima del 1907 ma forse, più correttamente, entro il 1911[38].

Nel 1914 infine giunge a compimento sotto la direzione di Cesare Bertea la pluridecennale vicenda dei restauri di Ranverso, i cui  importanti esiti sono immediatamente resi noti dalla pubblicazione negli “Atti della Società di Archeologia e belle Arti per la provincia di Torino” , corredando il testo con una serie di tavole fotografiche, dovute a Giancarlo dall’Armi[39], che nell’urgenza della scoperta mostrano il cantiere di restauro ancora non ultimato e rivelano finalmente la firma di Jaquerio. Questa impresa risulta importante non solo in sé ma anche quale momento significativo di una collaborazione precisa e fruttuosa tra studiosi, organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata dal rapporto tra Riccardo Brayda e Mario Gabinio, ma che assumerà negli anni successivi forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate dallo stesso Dall’Armi al Barocco  Piemontese, con testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R. Deville[40], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[41]

La scoperta degli affreschi sollecita altri autori a tornare a Ranverso: Secondo Pia, che fotografa le pareti del presbiterio nel 1920,  e Mario Gabinio[42], che vi ritorna molti anni dopo le prime visite compiute con l’Unione Escursionisti per realizzare  una ventina di immagini che comprendono anche le nuove scoperte, e costituiscono, insieme a quelle di Santa Maria di Vezzolano, le sole testimonianze dell’interesse di questo autore per la storia della pittura piemontese.

Nei due decenni successivi, anche sulla scia di una bibliografia più generosa e attenta che consente ad alcune opere piemontesi di raggiungere una prima notorietà anche al di fuori degli ambiti specialistici o locali[43], le campagne fotografiche si estendono sia per iniziativa dei grandi studi nazionali (Alinari, Istituto Italiano di Arti Grafiche) sia di committenti istituzionali come le Soprintendenze e l’Ordine Mauriziano, che fa rifotografare Ranverso nel 1929, sia infine per un’importante istituzione internazionale quale la Frick Reference Library di New York, che affida a Mario Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee. La campagna piemontese, condotta negli anni 1934-1935 in compagnia di Helen Frick, risulta estremamente approfondita e dettagliata, singolarmente attenta anche agli episodi allora meno noti e studiati,  in questo confrontabile solo col precedente di Pia, verosimilmente condotta a partire da informazioni che presuppongono non solo la conoscenza della letteratura specifica.[44]  La documentazione, anche qui, è condotta in modo esemplare e rigoroso, con riproduzioni  che prediligono l’insieme dell’opera senza mai isolare il motivo né tanto più tentare trasposizioni personalizzate, alla ricerca di temi o elementi coi quali ottenere una restituzione narrativa dell’opera, letteraria o critica che fosse, in ciò mostrando non tanto di rifarsi ad un approccio ancora sostanzialmente ottocentesco, in debito coi  modi rappresentativi delle stampe di traduzione[45], quanto di aderire compiutamente al ruolo richiesto dal progetto della committenza, quello di raccogliere una documentazione precisa ed esaustiva, utile strumento e supporto per il conseguente lavoro degli storici.

Nei luoghi visitati da Sansoni si muovono circa negli stessi anni giovani studiosi torinesi come Umberto Chierici (affreschi nella cappella del  castello della Manta, 1937ca)  e specialmente Augusto Cavallari Murat, che in preparazione del suo intervento al Congresso storico di Asti del 1933 fotografa gli affreschi in San Giovanni ai Campi, a Ranverso e in San Pietro a Pianezza[46], preludio della collaborazione al grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale metterà a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte, realizzazione “che costituisce, ancora oggi, un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”[47]. Qui, nello scenografico riallestimento delle sale  vengono riproposti, in ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone, “Re David, una delle sei figure che ancora ornano la parete sinistra del presbiterio [mentre] su uno stesso piano è un’altra pittura della parete di fronte, là dove sotto le storie di S. Antonio, ora purtroppo molto svanite, il Jaquerio con una stupefacente realismo ha dipinto due contadini che recano al Santo l’offerta del simbolico animale.”[48]

La fotografia ha ormai raggiunto lo statuto di consapevole strumento di conoscenza e di salvaguardia del patrimonio artistico ed architettonico, costituendo a volte purtroppo anche l’ultima consolazione di fronte alle irreparabili perdite: nel 1931 viene istituita la Fototeca Municipale  di Torino mentre Viale, dal 1930 direttore del Museo Civico, predispone un primo nucleo di archivio fotografico che si propone di trasformare in Archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte[49].  A partire da questa data la raccolta organica di documentazione d’arte non spetta più solamente all’iniziativa di singoli studiosi come Lorenzo Rovere, ma diviene istituzionalizzata coinvolgendo e formando intere generazioni di fotografi piemontesi, torinesi in particolare.

Ciò che resta invece ancora oggi parzialmente inadeguata è la nostra capacità di guardare a queste immagini come documenti complessi e non come pure tracce del referente, mettendo da parte ogni superficiale pretesa di oggettività della riproduzione per riconoscerne fruttuosamente lo statuto di traduzione quando non di trascrizione delle opere.

 

Note

[1]Andreina Griseri, Ritorno a Jaquerio, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo  Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano.. Torino:  Città di Torino, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.3-29.

Per aver contribuito con suggerimenti e precisazioni alla realizzazione di questa ricerca, che si propone quale prima occasione di ricognizione di un tema vasto e complesso, desidero qui ringraziare Giovanni Romano e  Virginia Bertone;  per la consueta disponibilità dimostrata nel favorire l’accesso alle fonti fotografiche ringrazio inoltre Rosanna Roccia e Annamaria Stratta, Archivio Storico del Comune di Torino; Daniele Jalla, Nunzia Mangano e Adriana Viglino, Musei Civici di Torino; Donata Pesenti e Cristina Monti, Museo Nazionale del Cinema di Torino; Lino Malara e Paola Salerno, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte; Elena Ragusa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

[2]Cesare Bertea , Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 8 (1914), fasc. 3, pp.194-207, estratto, con fotografie di Giancarlo dall’Armi poi ripubblicate per la prima volta nel 1979 da Enrico Castelnuovo, Giacomo Jaquerio e l’arte nel ducato di Amedeo VIII, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, op.cit. pp. 30-57 (pp.35-41)  e quindi in parte riprese da Guido Curto, S. Antonio di Ranverso presso Buttigliera Alta: i restauri degli affreschi, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.284-294.

[3] Questo articolo venne segnalato per la prima volta da Maria Adriana Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino, in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.13-16, ed è stato poi ampiamente ripreso in numerosi studi relativi alle origini della fotografia in Italia. Il richiamo alla “fedeltà” della riproduzione fotografica rimanda al dibattito, ancora vivo e fecondo in quegli anni, relativo alla distinzione tra traduzione e copia, cfr. Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930). In Giovanni Previtali, a cura di, L’artista e il pubblico, “Storia dell’arte italiana”, I. 2.Torino: Einaudi, 1979, pp. 415-484.

[4] Felice Romani, Fotografia. Primo Daguerrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”,  42 (1839), n.234, 12 ottobre, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, , pp.69-71.

[5] Ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.212-232. Per la fortuna editoriale del testo di Melloni cfr. Costantini,  Zannier, op.cit., p.88 nota 2; nello stesso volume, al quale si rimanda anche per una buona antologia di testi relativi alle prime applicazioni della fotografia,  è compresa (pp.96-109) anche la trascrizione della successiva, analitica relazione di Melloni dedicata alle Esperienze sull’azione chimica dello spettro solare e loro conseguenze.

[6] Luigi  Corvaja,  La fotografia e le sue applicazioni, I, “Panorama Universale”, 30 giugno 1855, p.107, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci Editore, 1980,  p.51.

[7] Philippe  Burty, La photographie en 1861,  “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.241-249.

[8] Hermann Vogel, La photographie et la chimie de la lumière. Paris: Librairie Germer Baillière, 1876, pp.217-218. Ricordiamo che Vogel, docente di chimica fotografica alla Technische Hochschule di Berlino, fu il primo maestro di Stieglitz, dal 1883 al 1887, cfr. William Innes Homer, Alfred Stieglitz and the American Avant-Garde. Boston: New York Graphic Society, 1977, pp.11-13.

[9]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana per Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864, p.225.

[10]Paul N. Hasluck, La fotografia; prima traduzione italiana a cura di Giulio Sacco. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1905, p.518. Anche altri autori, dopo aver ricordato che “i risultati che possono dare le lastre ordinarie sono addirittura pessimi” confermavano che “i veri amatori d’arte preferiscono una buona incisione ad una riproduzione fotografica (…) ricorrendo invece a lastre ortocromatiche (…) la fotografia si eleva  al di sopra di qualsiasi altro genere di riproduzione”, Carlo Bonacini, La fotografia ortocromatica, Milano, Hoepli, 1896,  p.237-238, ma tutto il paragrafo dedicato alla Riproduzione delle pitture, pp.237-247, costituisce una interessantissima documentazione delle ragioni tecnologiche di un lavoro di riproduzione che voglia restituire “non soltanto una traccia qualunque del disegno (…) ma il carattere artistico della composizione”.

Nonostante gli avanzamenti costituiti dall’uso delle lastre ortocromatiche la manualistica consigliava ancora di procedere ad una “pulitura” preliminare del dipinto mediante spugnature con una emulsione a base di bianco d’uovo sbattuto, acqua e glicerina, cfr. E. J., Reproduction des tableaux,  “Photo-Gazette”, 11 (1901), n.7, 25 maggio, pp.138-139.

[11]Le preoccupazioni di correttezza nella resa proporzionale dei volumi o della cromia evidenziate da Jakob Burckardt  e Hans Tietze (cfr. Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979/80), n. 2,  winter, pp.117-123, in particolare alla p.122) erano sostanzialmente estranee al dibattito italiano. Per quanto sinora noto Pietro Masoero è il solo fotografo a riflettere in questi anni su alcuni  problemi di lettura fotografica delle opere d’arte; si veda ad esempio l’articolo dedicato a La dilatazione dei supporti positivi, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78 e le osservazioni fatte a proposito della “Madonna col Bambino”   dell’Ospedale di Vercelli, che Masoero attribuisce a Cesare Lanino: “Fu, questa tavola, anche molto ritoccata e la fotografia, nel riprodurla svelò tutta la parte più recente della pittura, che non era ben visibile all’occhio umano.”, Pietro Masoero, La Scuola Pittorica Vercellese 1460-1586, manoscritto, p.74. Per la sua attività di studioso e divulgatore rimando a P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154.

[12] Citato in Spalletti, op.cit., p.471. Lo stesso Venturi molti anni dopo definirà la fotografia come “il migliore mezzo di riproduzione che distrugge la ragione d’essere della incisione e della calcografia.”, cfr. Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia:  interviste a Ernesto Biondi, Adolfo Venturi, Aristide Sartorio, Gustavo Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19 (p.18).

[13]Da un appunto datato 14 ottobre 1893, citato in Freitag, op.cit., p.119. Più accorte e consapevoli saranno le considerazioni fatte da Berenson cinquant’anni più tardi: “Per cominciare dobbiamo scartare l’idea che la fotografia riproduca un oggetto come è, quale essenza oggettiva di alcunché. Una tal cosa non esiste. All’«uomo medio» non è stato mai detto che il suo modo di vedere ha una lunga storia alle spalle, utilitaria, pratica, perfino cannibalesca (…)  Facendo debita attenzione all’illuminazione, e collocando la macchina a un determinato angolo con l’oggetto, voi potete, entro certi limiti, farle riprodurre l’aspetto di quell’oggetto che risponde al vostro fine momentaneo, senza dubbio rispettabile ma con una buona dose di  parzialità, (…) Il compito di fotografare un dipinto è pressoché insormontabile dov’è questione di conservare i valori, i rapporti e i passaggi di colore. Per altro verso è più facile, molto più facile che per gli oggetti a tutto tondo o in altorilievo.(…) L’esperienza mi spingerebbe a dire: più sono scadenti i dipinti, e migliore è la fotografia.”, Bernard Berenson, La fotografia, in Id., Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze:  Electa, 1948, pp.327-338.

[14]Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4 (1892), pp.101-103. Lo stesso Brogi  molti anni più tardi  ribadiva che “le fotografie hanno giovato immensamente allo studio della Storia dell’Arte (…) ed hanno servito a divulgare (…) l’esistenza spesso ignorata di tanti patrii tesori.”, Carlo Brogi, A proposito del divieto fatto ai fotografi di trarre riproduzioni nei Musei e nelle Gallerie dello Stato; prefazione di Giovanni Rosadi. Firenze: Tip. E. Ariani, 1904, p.10.

[15] P. Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese. In Antichità ed arte nel Biellese, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989) a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 (1990 -1991), monografico, pp. 199-216 (p.203).

[16]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino,  “Fotologia”, 8 (1991), vol.13, primavera/estate, pp.30-39. I testi a corredo degli album costituiscono anche una interessante testimonianza del dibattito piemontese intorno alla questione del valore artistico della fotografia e delle sue relazioni con la pittura; si vedano in particolare i contributi di Carlo Felice Biscarra (1860) e di Federico  Pastoris (1862).

[17]ibidem, p.36. Ricordiamo qui che si deve a Bernieri anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P.Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998, in Photographie, ethnograhie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n. 2/4, monografico 1995, pp.145-160.

[18]è noto che la documentazione urbana e di architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in “Bollettino d’Informazioni” del Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Quaderno VIII,  Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, 49-55.

[19] Quando Massimo d’Azeglio disegna San Giorgio e il drago da Fenis, nel 1825 non è interessato tanto ad una “lettura puntuale del testo (…) quanto a trarne uno spunto per una illustrazione di gusto troubadour”, Franca Dalmasso, Massimo d’Azeglio, 1825. San Giorgio e il drago (da Fenis), in Giacomo Jaquerio, op.cit., p. 327.

[20]Antonio Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio, op. cit., pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43.

[21] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade, op. cit., pp.107-125.

[22]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[23]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880,  citato in Maggio Serra, Uomini e fatti, op.cit., p.29.

[24] Ivi, p.36.

[25]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonte, op.cit.; Alfredo d’Andrade, op.cit.

[26]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20.

Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, a.a. 1993-1994 e Simona Paggetti, a.a. 1994-1995. Oltre al Fondo Nigra i Musei Civici conservano anche 249 stampe di questo autore comprese nel Fondo D’Andrade,  qualche centinaio di negativi su lastra compresi nell’archivio corrente della Fototeca e alcune stampe sciolte nel Fondo Rovere. Altre fotografie (negativi e positivi) fanno parte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte mentre le immagini di argomento familiare sono conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, a cui pervennero per lascito testamentario nel 1984. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

Il riferimento metodologico costituito da Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21.

[27] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[28] Musei Civici di Torino, Fondo D’Andrade, rispettivamente F43-45; F55-62; F.71-78. Le immagini relative a Pianezza non sono datate ma le modalità di realizzazione fanno supporre una cronologia di realizzazione corrispondente agli altri soggetti.

[29] Carlo Nigra, Torri, castelli e case forti del Piemonte dal 1000 al secolo XVI, I, Il Novarese. Novara: E. Cattaneo, 1937, p.5.

[30] Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade, op. cit. ed inoltre Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77 (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sulla attività fotografica legata alle prime attività di tutela piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Ghione, op.cit., p.87.

Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione,  “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari; cfr. Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P.Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48.

La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[31]Oltre al testo indicato alla nota precedente si vedano: Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998.

[32]Si vedano le due riprese, datate 1902, con “dettagli di affreschi recentemente scoperti”  relativi rispettivamente a San Eutropio e San Dionigi dalla terza cappella a sinistra di Ranverso, conservate nel Fondo Pia del Museo Nazionale del Cinema, F30992, F3099; cfr. anche Giovanni Romano, Storie della vita della Vergine. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso. Giacomo Jaquerio, 1402-1410?, in Giacomo Jaquerio, op.cit., pp.393-397.

[33]Giovanni Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. Ancora oggi la figura di Pia è ricordata nelle poche storie della fotografia italiana solo in virtù della sua notorietà quale primo fotografo della Sindone e Presidente della Società Fotografica Subalpina (1908-1923).

[34]Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto. La redazione del saggio nasceva da una prima visita condotta nel 1889, quando ancora “l’abside era completamente coperto da un sottile intonaco bianco rosato sotto del quale potei intravedere tracce di dipinti”, p.7. Alcune delle riprese effettuate da Nigra nel 1889-1890, ma in una stampa più tarda (1927?), sono conservate nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 20).

[35]Secondo Pia, Ricordi fotografici di insigni monumenti del Piemonte, 1907; Id., Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica, 1920ca; I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino, comprendono rispettivamente 32 e 73 stampe all’albumina di diverso formato e datazione, così distribuite: 1907, Sant’Antonio di Ranverso (1-11); Santa Maria di Vezzolano (12-32).  Vezzolano (1-36); Ranverso (37-73).

L’attività pur eccezionale di Secondo Pia va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi , solo di rado professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Pietro Masoero, di Francesco Negri e di Alberto Durio (entrambi in relazione con Samuel Butler), di alcuni religiosi come F. Origlia, A. Rastelli e G. Valle, tutti legati a Negri, Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla ed ancora Mario Gabinio, Giancarlo dall’Armi ed Augusto Pedrini, per i quali ultimi la documentazione d’arte assumeva modi e impegni che esulavano dalla pura pratica professionale. 

[36]A far comprendere questi soggetti nel catalogo Alinari non era evidentemente servita la notorietà derivante dalla loro riproposizione al Borgo Medievale, né le successive attenzioni critiche, cfr. Elena Ragusa, Fortuna degli affreschi della Manta, in Giovanni Romano, a cura di, La sala baronale del castello della Manta. Milano:  Olivetti, 1992, pp.73-80.

[37]Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,  “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925].

[38]Si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che riportano appunto una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione) comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. In realtà la ripresa n.7441 “1792 Facciata dell’antico Ospedale dell’Abbazia” mostra l’edificio addossato alla facciata dell’Ospedale in uno stato certamente successivo al marzo 1907, data dell’ingiunzione ministeriale all’abbattimento della porzione di parete inglobante il pinnacolo di sinistra. (Daniela Brusaschetto, Silvia Savarro,  Cesare Bertea (1866-1941): note sul restauro in Piemonte nei primi decenni del Novecento. Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Corso di laurea in Architettura, 2000, relatori Maurizio Momo, Daniela Biancolini, pp. 223 – 224). Le riprese potrebbero allora riferirsi tutte alla campagna realizzata per il padiglione piemontese alla Mostra Etnografica di Roma del 1911.

[39]  Bertea , Gli affreschi, op.cit. Come risulta da un primo confronto tra le tavole qui pubblicate e le stampe conservate nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della Città di Torino e nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, il corpus realizzato dal fotografo è più esteso del pubblicato da Bertea, ma occorrerà un confronto con le lastre appunto conservate nel Fondo Dall’Armi per una più puntuale verifica di questa importante campagna di documentazione. Per Dall’Armi cfr. Dario Reteuna, Primario studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino.   Torino: Regione Piemonte, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1998, che costituisce un primo sommario tentativo di presentazione dell’attività di questo importante professionista torinese.

[40] Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche.

[41] Di Pedrini oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[42] Le immagini, non datate,  sono comprese negli album A34 ed A10 del Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; una prima occasione documentata di visita a Ranverso risaliva al 4 novembre 1906, in occasione di una gita compiuta con l’Unione Escursionisti, a cui Gabinio apparteneva, sotto la guida di Riccardo Brayda; una delle immagini realizzate in quella occasione venne utilizzata dallo stesso studioso per la copertina del suo Una visita a Sant’Antonio di Ranverso (Valle di Susa).  Torino: Tip. Massaro,  1906. Per una più estesa discussione dei rapporti Brayda / Gabinio  cfr. P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35.

[43]Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I, Milano, Touring Club Italiano, 1930 comprende due riproduzioni degli affreschi in San Sebastiano a Pecetto (tavv.124, 125) mentre di Ranverso è pubblicata solo l’immagine del prospetto della chiesa.

[44]Mario Sansoni (1882-1975) dopo un primo periodo di attività come operatore Alinari si mette in società con Giulio Bencini nel primo dopoguerra e quindi in proprio intorno alla metà degli anni Venti, dedicandosi esclusivamente alla documentazione delle opere d’arte. In questa veste viene incaricato dalla Frick Reference Library di New York di compiere una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, cfr. redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 44-45. Una più approfondita conoscenza di questo progetto documentario potrà essere ricavata dallo studio attento dei diari di lavoro di Mario Sansoni, conservati presso l’Archivio Fotografico Toscano di Prato, che non è stato possibile consultare in questa occasione; ricostruzione che sarà da porre a corredo di quel “recupero delle fotografie realizzate da Mario Sansoni per miss Helen Frick all’inizio degli anni Trenta [che] è ormai un obbligo metodologico”, di cui ha parlato  Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1997, p.12.  L’individuazione del fotografo fiorentino quale responsabile di una così vasta e impegnativa campagna di documentazione si inserisce non solo nel progetto culturale  della famiglia Frick, ma costituisce anche una ulteriore conferma della  specifica attenzione per l’uso appropriato della fotografia, e del conseguente riconoscimento del lavoro dei fotografi,  che nella cultura statunitense risulta un dato acquisito ben prima che ciò accada in Europa; basti pensare, per fare solo alcuni esempi, all’attenzione prestata  da Arthur Kingsley Porter, Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads.  New York: Hacher Art Books, 1966 (I ed. 1923), buon fotografo e severo giudice dell’attività degli studi più rinomati (“The catalogue is unfortunately of little use”, per Romualdo Moscioni, “Photographs of the highest quality”, per Clarence Kennedy e così via)  ed alle precisazioni contenute nella prefazione che Harry Dobson Miller Grier, direttore della collezione,  scrive per The Frick Collection. An illustrated catalogue, I-II. New York: The Frick Collection, 1968, p. xxii: “The black and white photographs of the paintings were made by Francis Beaton, our staff photographer, who has faithfully served the Collection for over thirty years. The reproductions in those and subsequent volumes of this catalogue will provide an enduring record of his talent, which has never been duly acknowledge. For the color reproductions of the paintings,  ektachromes were made by Joseph Corboy and Geoffrey Clements. The photograph of the Frick Collection building is by Ezra Stoller, and the colour photographs of the galleries are by Lionel Freedman.”

[45]Cfr. Massimo Ferretti, Fra traduzione e riduzione. La fotografia d’arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fotografi a Firenze 1852-1920, catalogo della mostra (Firenze, Forte di Belvedere, 1977) a cura di Wladimiro Settimelli, Filippo Zevi. Firenze: Edizioni Alinari, 1977 pp.116-142 (p.124), che per la casa fiorentina colloca a partire dal  1876 il periodo in cui le campagne di documentazione “diventano l’occasione di un rilevamento ravvicinato e linguisticamente più problematico”, ma sostanzialmente legato alla estrapolazione di elementi “decorativi” con immediata valenza commerciale e connessi al nascente interesse italiano per i rapporti tra arte e industria; si veda anche E. Spalletti, op.cit., p.473. Un diverso atteggiamento, orientato ad una lettura contestuale dell’opera e della scena rappresentata lo si ritrova invece, negli anni a cavallo tra i due secoli nelle fotografie dei gruppi statuari del Sacro Monte di Crea realizzate da Francesco Negri, non a caso nella doppia veste di fotografo e di studioso, cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145. Come è noto un uso mirabilmente critico della documentazione fotografica venne per primo realizzato in Italia da Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma: Valori Plastici, 1927.

[46] Augusto Cavallari Murat, Considerazioni sulla pittura piemontese verso la metà del sec. XV, “Bollettino  Storico Bibliografico Subalpino”, 38 (1936), n.1-2, gennaio-giugno, pp.43-79, corredato di una interessante documentazione fotografica prevalentemente dovuta all’autore stesso ma anche a Toesca (Fenis, cappella, particolare con una Santa), Rossi (Villafranca Piemonte, chiesa della Missione, particolare dell’Arcangelo e Deposizione) e Bertea (naturalmente per Ranverso, da confrontare con la produzione Dall’Armi). Questo significativo apparato di immagini è stato escluso dalla riedizione del saggio in Id., Come carena viva, I. Torino: Bottega d’Erasmo, 1982, pp.99-128.

[47] Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[48]Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano.  Torino: Città di Torino, 1939. Mentre Scoffone realizza gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

[49]Cfr. Cavanna, Mario Gabinio, op.cit., p.19.